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ALLEGATO AGLI ATTI DEL PROCESSO BIAGI - CORTE DI ASSISE DI BO, 31 MAGGIO 2005

 

Se siamo in questa aula di tribunale borghese è, come sempre per i militanti della guerriglia prigionieri solo al fine di rivendicare tutta l'attività rivoluzionaria della nostra Organizzazione (0), le BR-PCC, e di misurarci con questo particolare momento di scontro con il compito, del resto permanente, di rappresentare l'O e gli avanzamenti del processo rivoluzionario conquistati dalla strategia della Lotta Armata (LA), e in generale di sostenerne la linea politica ed il programma. Una condotta che è innanzitutto conseguente all'identità militante e all'impegno rivoluzionario verso l’O e la classe, ma che è irrinunciabile anche in quanto i cosiddetti processi alle BR sono in genere momenti di attacco politico dello Stato borghese all'0 , alla Rivoluzione e al proletariato. Perciò il militante prigioniero che, svalorizzando quei termini di autonomia politica acquisiti con la prassi rivoluzionaria dell'0, non assumesse questo scontro, ma facesse proprie le dinamiche e finalità che il rito processuale assegna agli "imputati", si subordinerebbe a quel piano giuridico formale attraverso il quale lo Stato cerca nella sostanza di riaffermare- in qualche modo il suo potere, lacerato dall'avanguardia combattente in attività mediante una rilegittimazione se non altro implicita che ne ricevesse in prigionia. Con ciò, di fatto, si verrebbe meno al proprio ruolo nello scontro e ci si priverebbe, cedendola al nemico, della forza costituita dalla propria militanza a cui il carattere offensivo intrinseco all'opzione rivoluzionaria preserva un grado di iniziativa politica anche in una condizione come quella della prigionia in cui in genere se ne viene privati. Infine, in questa fase in particolare si rinuncerebbe alla forza politica a vantaggio dei campo proletario e rivoluzionario prodotta dalla prassi dell'0 con il rilancio della strategia della LA e consolidata nella dialettica con la resistenza di classe alle politiche antiproletarie e controrivoluzionarie della borghesia, che ha messo il suo Stato in una posizione di sostanziale difensiva politica nel far fronte alle BR e alla progettualità rivoluzionaria che praticano e propongono a tutta la classe, condizioni politiche che non possono essere ribaltate dai successi militari dell'antiguerriglia contro l'O, né tantomeno dai “processi alle BR".

Infatti, mentre lo Stato borghese celebra il suo processo, a tre anni dall'azione Biagi si può cogliere appieno la sua profonda incidenza politica nei rapporti generali tra le classi ed il portato complessivo del rilancio della strategia della LA sul piano del rapporto rivoluzione/controrivoluzione (R/C). Un'iniziativa politico-militare con cui la nostra 0 ha attaccato il progetto di rimodellazione economico-sociale e di riforme politico-istituzionali dello Stato in senso federale, colpendo Marco Biagi consulente dell'esecutivo Berlusconi e della Commissione UE presieduta da Romano Prodi, e figura politica che per il ruolo svolto nell’elaborazione del Libro Bianco, per gli incarichi ricoperti in sede UE e per i rapporti consolidati con entrambi gli schieramenti politico-sociali istituzionali, assicurava alla Borghesia Imperialista (BI) e allo Stato che la formulazione politico-giuridica del complesso di riforme del lavoro su cui l'intero progetto faceva leva, sarebbe stata organica ai disegni di riforma federale dello Stato, sarebbe corrisposta ai programmi di riforme strutturali promossi dalle istituzioni europee e avrebbe aderito alle linee neocorporative che lo informavano, garantendone l'attuazione. Marco Biagi, per i suoi incarichi, le sue attività ed i suoi rapporti politici, poteva infatti coniugare il passaggio dell'offensiva dello Stato contro la classe sulle riforme del lavoro, con l'iniziativa negoziale neocorporativa a livello centrale e territoriale secondo le linee del federalismo competitivo e per l'incarico in sede UE nell'ambito della riforma del mercato dei lavoro e delle relazioni industriali, e per l'istituzione dei dialogo sociale, con la politica comune europea per costruire gli istituti a sostegno della competitività dei monopoli e per realizzare il processo di Lisbona. Processo con cui la frazione di BI, europea in particolare, ricerca una risoluzione alla contraddizione (cd) tra le misure di rastrellamento di capitali adottate per sostenere i monopoli multinazionali nel raggiungere i livelli di accumulazione adeguati alla concorrenza internazionale e le ricadute di tipo recessivo di queste politiche finanziarie e di bilancio restrittive sulla tenuta complessiva delle Formazioni Economiche Sociali nazionali integrate nella UE. Risoluzione che, in un quadro non espansivo come quello di questa fase, non può che far leva sull'aumento dello sfruttamento del lavoro salariato, per recuperare margini di profitto nella crisi di valorizzazione che attanaglia il capitale, di cui la concorrenza distribuisce i costi. Un processo in cui peraltro, secondo gli intendimenti della soggettività politica della BI, il piano di riforme            nazionale, appoggiato anche da iniziative politiche comuni tra Confindustria ed esecutivi italiani e britannici, avrebbe potuto costituire un fattore di spinta all'accelerazione delle riforme strutturali anche in paesi come la Francia e la Germania con un apparato industriale forte e trainanti nell'integrazione economica e nella coesione politica europea, ma in difficoltà nell'avviarle per le forzature implicate nel rapporto con i proletariati nazionali.

Per questi motivi M. Biagi era una figura perno dell'equilibrio politico-sociale a sostegno delle riforme, che oltre che costituito dalla maggioranza CdL e dagli interessi sociali che rappresenta, poteva aggregare anche parte dello schieramento politico e sociale del centro sinistra e usufruire all'occorrenza della benevola pressione esterna della comunità europea. Fin dall'inizio della legislatura il nuovo esecutivo della maggioranza dei centrodestra dava segnali che avrebbero fatto di questo passaggio la base di forza dei suo programma di governo. Il primo atto di "pratica dell’obiettivo", in quel caso dell'aspetto del dialogo sociale su una materia parziale, venne realizzato nel corso dell'estate del 2001 con l'avviso comune CISL-UIL-Confindustria, con cui veniva recepita dalle parti sociali la direttiva UE sui contratti a termine. Una prima forzatura con cui la CISL, in particolare, si metteva in evidenza subito come soggetto promotore e portante sul piano sindacale e neocorporativo, della progettualità di cui M Biagi era uno dei massimi artefici, e che fu realizzata senza suscitare significative opposizioni. Mentre quando nell'autunno 2001 prese piede il nodo del “superamento dell'articolo 18” dello Statuto dei Lavoratori per favorire la "flessibilità in uscita" e , secondo i dogmi della propaganda borghese, anche l'occupazione, questo       catalizzò rapidamente l'opposizione della classe, per quanto la copertura di questa tutela sia parziale, data la diffusione di piccole imprese in cui non è applicato, e di quei rapporti di lavoro precari dilagati grazie al pacchetto Treu-Biagi e nonostante il Libro Bianco prevedesse riforme dei lavoro a tutto campo. Un'opposizione catalizzata dalla centralità di questo nodo nell'azione dell'esecutivo e dell'equilibrio dominante dovuta al contenuto squisitamente politico dell'art 18, in ragione del quale ha rappresentato l'offensiva che la borghesia lanciava contro la classe, come il recedere dal perseguirne la modifica, ha rappresentato la perdita di offensività dell'azione di governo ed il sostanziale fallimento del passaggio politico che voleva realizzare. Intaccarne il principio significava infatti incidere sulle posizioni di potere storiche della classe, nel rapporto con la borghesia ed il suo Stato. La disposizione offensiva dell'equilibrio dominante rispondeva invece al problema di conquistare sul campo l'obiettivo di indebolire una classe la cui forza politica era stata corroborata dalla dialettica con il rilancio dell'opzione rivoluzionaria che con l'attacco al Patto di Natale del '98 aveva paralizzato l'azione dell'esecutivo di centro sinistra che, contando sull'asse DS-CGIL era tesa a raggiungere questo ed altri obiettivi senza un attacco frontale, usufruendo della prolungata stasi del conflitto di classe. La particolarità dell'art 18 risiede infatti nell'essere storicamente un pilastro dello "Statuto dei Lavoratori". Statuto che, per la funzione controrivoluzionaria che doveva svolgere a suo tempo, di istituzionalizzazione del conflitto sociale, dovette riconoscere la forza politica che esercitava la classe operaia in quegli anni e perciò non limitare ai soli “delegati” sindacali, ma estendere a tutta la classe, una misura che dalla borghesia è concepibile come una tutela di diritti sindacali (l'obbligo padronale ad avere una giusta causa per il licenziamento individuale con l'onere della reintegra qualora la magistratura non lo riconoscesse). Una tutela che impone un vincolo puramente politico alla libertà padronale di disporre della forza-lavoro, la quale essendo stata acquistata sottostà alle ordinarie leggi della proprietà che garantiscono che chi è proprietario di una cosa se ne possa disfare quando vuole, a condizione, tuttalpiù, del rispetto di una procedura o anche del pagamento di un prezzo. Un aspetto che M Biagi non lesinava di rimarcare pubblicamente, osservando come la sopravvivenza di questa norma implicasse che, laddove il lavoro manca strutturalmente, come nel sud dei paese, i magistrati, invece che seguire le leggi economiche "naturali", si facessero condizionare dalla sensibilità sociale comune e imponessero sistematicamente la reintegra, con l'ovvia conseguenza di impedire al Meridione di offrire le dovute condizioni di vantaggio competitivo al capitale in cerca di profitti: forza lavoro più ricattabile e più bassi salari.

Politicamente per parte proletaria, la conquista di questo diritto significò un'affermazione di autonomia dal capitale e della prospettiva politica storica di un modo e di un rapporto sociale di produzione che abolisce il carattere mercificato del lavoro e il profitto altrui come sua finalità. Per parte borghese l'art 18, nato come vincolo politico utile a regolare un conflitto di classe che sfuggiva alla governabilità e alimentava le fila della rivoluzione, ricondotto al piano del diritto sindacale, determinerebbe un arretramento delle posizioni di potere della classe operaia e del proletariato in generale, pur essendo la copertura di questa tutela già oggi parziale. Sul piano dei rapporti di forza tra proletariato e borghesia indebolirebbe infatti anche la resistenza di classe di tipo difensivo e trasformandoli ulteriormente a vantaggio della borghesia aprirebbe la strada a quella subordinazione della classe che la rimodellazione economico-sociale prefigurata dal Libro Bianco dovrebbe garantire, ottenendo quel margine politico necessario all'equilibrio politico-sociale che sostiene l'attivazione del complesso delle riforme per la sua coesione e per l'aggregazione di altra forza per accerchiare e sbaragliare le resistenze più determinate e poter rispondere alle istanze della BI che si misura con l'approfondirsi della crisi e con la perdita di competitività dell'economia nazionale. Una prospettiva a cui la CGIL non poteva restare indifferente in quanto soggetto politico-sociale di maggior peso perché rappresentante istituzionale di interessi contraddittori rispetto alle linee del Libro Bianco, che costituisce il garante del dispiegamento della riforma e della sua portata sulla classe. L'eliminazione del vincolo politico dell'art 18, pur con la preservazione della tutela per i “diritti sindacali”, rendendo infatti più ricattabile la base operaia, indebolirebbe le strutture di delegati e perciò anche il sindacato confederale. Un problema a cui la mediazione che prevedeva l'attuazione della riforma in ambiti in cui l'organizzazione sindacale è generalmente poco radicata, e la creazione di enti bilaterali in funzione dei rafforzamento istituzionale dei sindacato come soggetto della contrattazione, dava una soluzione minimalista confacente agli interessi e all'obiettivo politico dell'equilibrio dominante. Un percorso meno critico per la CGIL sarebbe stato quello di partire da un riequilibrio delle proprie strutture nel suo rapporto con la base operaia e con gli altri sindacati. Un riequilibrio che potesse contare sulla generalizzazione del doppio livello di contrattazione nel quadro dello svuotamento del contratto nazionale e della stabilizzazione della negoziazione neocorporativa a livello territoriale intorno agli istituiti dei Welfare riformato e nel rapporto con i poteri ridefiniti della riforma dello Stato, e che si muovesse sulla linea del ridimensionamento del peso delle strutture di categoria nazionali a vantaggio di quelle territoriali, per limitare al massimo il condizionamento dei settori operai più forti. Ma a garanzia del proprio ruolo in questo processo delicato e come contropartita alla riduzione della tutela dell'art 18, avrebbe dovuto ottenere, con l'introduzione di una legge sulla rappresentanza sindacale, una certezza che la parte padronale riconoscesse la sua rappresentatività. Obiettivo quantomeno improbabile, stante la consistenza autoconservativa di una sterile strategia e, per contro, la natura di nuovo vincolo politico che una legge sulla rappresentanza istituirebbe, stavolta alla libertà padronale di scegliere se instaurare un conflitto o una trattativa e quali interlocutori avere e quali no. Perciò a cavallo tra il 2001 e il 2002, la CGIL è quella parte di soggettività politica della borghesia che dovrebbe essere indotta a rapportarsi e ad aggregarsi in qualche modo all’equilibrio politico-sociale che sostiene le scelte dell’esecutivo, in virtù della posizione assunta dal sindacato di Cofferati, secondo una linea riformista che, mantenendo un rapporto costruttivo con la progettualità dominante della BI e sostenendo di difendere gli interessi della classe, cerca di prendere la testa della resistenza operaia all’attacco portatole da esecutivo e Confindustria e di riaffermare un’alternativa concertativa e riformatrice, in merito alla flessibilità, già rappresentata dagli esecutivi di centro sinistra. Infatti, essendo la CGIL una parte che sostiene in generale la progettualità della BI, sta alla volontà e capacità dell’equilibrio dominante e del suo personale politico di rapportarsi agli interessi difesi dal sindacato, se questo può svolgere un ruolo nel governo del conflitto di classe. Volontà e capacità che, nel produrre una sintesi delle contraddizioni politiche con cui l’equilibrio dominante si misura, erano condizionate soprattutto dall’urgenza delle riforme da un lato e dai tempi lunghi occorrenti al sindacato per la praticabilità delle stesse, in un quadro di scontro tra le classi in cui già pesava a favore del proletariato il rilancio della strategia della LA per l’incidenza dell’azione D’Antona. In quei mesi, quindi, la CGIL organizzava la mobilitazione operaia sulle consuete linee riformiste e democraticiste snaturando lo scontro in atto che, in realtà, è uno scontro di classe e non un dissidio tra parti sociali sulla questione dei diritti del lavoro. Come se non fossero in gioco interessi contrapposti e irriducibili di classe, e come se il proletariato non venisse indebolito politicamente e danneggiato materialmente dall’attacco della borghesia, la CGIL cerca di portare questo scontro sul piano del conflitto sui diritti “delle persone”, intendendo con ciò diritti a carattere non universale, e di stampo democratico per cui ci si mobilita e ci si confronta anche in modo acceso, ma poi saranno gli strumenti ed il rispetto delle regole democratiche a decidere delle sorti dello scontro. Del resto l’eventuale mediazione sulla progettualità del Libro Bianco può realizzarsi se lo scontro viene contenuto sul piano delle dinamiche democratiche e delle compatibilità economiche, rimandando la classe sulla difensiva. Un obiettivo che avrebbe potuto essere ottenuto dall’equilibrio politico e sociale dominante stabilendo un rapporto con la CGIL che permettesse di avviare una trattativa complessiva sul sistema del mercato del lavoro, rapporto che avrebbe dovuto sgomberare il campo dagli elementi che acutizzavano il conflitto, teoricamente sulla base di una soluzione di tipo pragmatico sull’articolo 18, come quella avanzata da M. Biagi e dall’altro su una maggiore disponibilità della CGIL al confronto, a cui potevano corrispondere, in materia di misure per la competitività e con la contropartita sindacale di un basso profilo di scontro, e aperture di Confindustria al sindacato.

Depotenziare il nodo dell’art. 18 per recuperare alla mediazione anche il sindacato più importante nella gestione del conflitto di classe, significava però necessariamente seguire la via pragmatica alla realizzazione dell’insieme dei provvedimenti del Libro Bianco.

L’iniziativa del 19/3/2002 interviene quindi in un contesto in cui la classe era già mobilitata contro l’offensiva che le veniva portata dallo Stato col disegno politico contenuto nel Libro Bianco. Il danneggiamento nell’indirizzo politico di governo e lo squilibrio nella compagine e nel ruolo dei soggetti politici e sociali che sostengono i processi di riforma del mercato del lavoro, in un primo tempo delineano uno scenario di incertezza ne definire a breve il quadro di regole e strumenti giuridici e contrattuali a livello generale e quei margini di manovra sufficienti a supportarlo.

Finito il momento di unità sindacale, che necessariamente ha prevalso nell’affrontare la situazione immediatamente successiva all’iniziativa Biagi, e tenuto conto dell’insensibilità della classe al richiamo della “minaccia terroristica alla democrazia” e della sua indisponibilità a recedere dal piano su cui era mobilitata, vengono consumate le rotture necessarie per corrispondere a quanto era inderogabile, per il bisogno urgente della borghesia delle riforme contenute nel Libro Bianco, firmare un patto, quello per l’Italia, e poi andare anche a chiudere il contratto dei metalmeccanici, se necessario con la firma separata. La situazione che si era determinata non favoriva il recupero della CGIL, né da parte di quest’ultima di uno schieramento di classe sempre più radicalemnte indisponibile ad accettare un ulteriore arretramento sia in termini di rapporti di forza che di condizioni materiali. L’approfondirsi dello scontro si riflette nei rapporti tra parti sociali nella sede neocorporativa esecutivo-Confindustria-sindacati rendendoli critici fino alla divisione tra CISL e UIL che firmavano il patto e CGIL che ne è esclusa e che di conseguenza decide di non sottoscriverlo. La prima esclusione della CGIL dopo 20 anni è il frutto del fatto che tutti gli equilibri fin lì costruiti sono saltati, e ciò che prevale è la necessità di far marciare i provvedimenti sulla flessibilità, facendo perno sul rapporto privilegiato tra CISL e UIL e Confindustria e con altre rappresentanze di interessi cofirmatarie del Patto. Il passaggio del Patto per l’Italia rappresentava la volontà politica dell’esecutivo e delle parti firmatarie, di reagire all’attacco subito proseguendo e rilanciando l’iniziativa sulla strada delle riforme. Ma i margini politici erano ridottissimi a fronte del quadro di scontro ridefinito dall’iniziativa dell’O e dalla sua dialettica con lo schieramento di classe che si opponeva alle riforme e ciò si materializzò sia con l’uscita della CGIL dall’accordo, che con gli attacchi che la CISL subiva dall’opposizione di classe.

Ma soprattutto che nel firmare il Patto per l’Italia le modifiche previste dall’art. 18 vengono messe in secondo piano affidandole ad un percorso parlamentare. La qual cosa sancisce la perdita di forza offensiva sul piano generale dell'iniziativa politica sulle riforme e che tali modifiche vengono sottratte alla normazione diretta dell'esecutivo con l’accordo delle parti sociali. In generale ne vengono indeboliti tutti i sindacati, anche la CGIL risente inevitabilmente della crisi della concertazione, ovvero della sua capacità di ricondurre il conflitto sulla linea e sul piano della subalternità agli interessi della borghesia. In sostanza, con la sigla del Patto, l'offensiva che faceva leva sull'avvio dei superamento dei vincoli alla libertà padronale di licenziamento si arena. La risposta dell'esecutivo è dettata da una logica controrivoluzionaria che vorrebbe essere una risposta politica alla crisi in cui versa il programma di riforme economico-sociali, ma non restituisce alla progettualità dominante della borghesia l'offensività iniziale. La sua crisi si manifesta nel ristagnare dell’iniziativa politica della borghesia, laddove si realizzano, lungo la strada delle riforme, solo sparsi negoziati a livello territoriale, e nel successivo operato dell'esecutivo volto a recuperare, attraverso una specie di modo di legiferare d'emergenza, una condizione politica critica, creatasi per conseguenza dell'iniziativa combattente dell'0 e per come l'opposizione di classe si è caratterizzata e rafforzata in dialettica con l'intervento rivoluzionario. Infatti il passaggio di “dialogo sociale” rappresentato dal Patto per l'Italia che con l'assenza della CGIL abbandona la concertazione come metodo e fine, non consente certo al Patto di avere tutta la forza politica per operare sul campo quella che è una forzatura da parte dell’esecutivo negli equilibri generali. Esecutivo che finisce per contare essenzialmente sulla propria maggioranza e va a uno scontro politico e sociale con il proletariato, mentre il campo di classe, nella dialettica con l'attacco dell'0, si è andato rafforzando ulteriormente. E quindi, nel polarizzarsi dello scontro di classe, persiste la debolezza del tentativo di ripresa dell'offensività della borghesia e dell'esecutivo che non riescono a raggiungere successi. Anche la firma separata del contratto dei settore metalmeccanico con la ferita inferta ai rapporti sindacali ancora lontana dal rimarginarsì in tutta la sua profondità che doveva rappresentare un passaggio cruciale di attacco ad un settore di classe sempre combattivo e alla testa dei movimento operaio, con il far passare tutte le forme di flessibilità previste dal Libro Bianco, naufragando nei suoi obiettivi politici, segnala la debolezza su cui si voleva illusoriamente rilanciare, sul piano dei dialogo sociale, la ritessitura delle relazioni neocorporative danneggiate dal rilancio dell'opzione rivoluzionaria in dialettica con l'opposizione di classe. In sintesi l'esecutivo si ritrova ripiegato su se stesso, sulla propria rappresentatività parlamentare e a dover sostituire l'azione di soggetti politico sociali che comunque sono indeboliti e delegittimati di fronte alla classe. Una situazione che logora la sua forza politica e ne delimita drasticamente la capacità di azione.

Con la firma dei Patto, e poi con quella del contratto dei metalmeccanici, la CISL rappresenta maglio di altri soggetti la perdita di offensività dei progetti della borghesia, essendo stata una parte importante dell'equilibrio che ha sostenuto l'indirizzo politico dell'esecutivo. I riflessi che subisce della dialettica tra iniziativa rivoluzionaria ed opposizione di classe alle riforme sono tali che diventa il catalizzatore del rafforzamento della dialettica stessa e delle iniziative operaie contro il Libro Bianco prima, il patto per l'Italia poi, il contratto dei metalmeccanici etc.

A seguito del 19 marzo il conflitto assume connotati di scontro di classe non più solo resistenziale, e obbliga la CGIL ad accentuare la sua funzione di recupero del movimento di lotta e di presa della direzione e organizzazione delle istanze di classe. Direzione necessaria al contenimento dello scontro entro contenuti e obiettivi riformisti. La CGIL come sindacato che ha come linea una strategia riformista che svuota le lotte dei contenuti di classe, col loro radicalizzarsi , tende ad accentuare sempre più il ruolo di recupero, il quale però, per le condizioni politiche che venivano a determinarsi, entra in contrasto con la forzatura necessaria per restare sul piano concertativo. Piano che mostra tutta la sua crisi, ma che con il Patto per l'Italia, non viene sostituito stabilmente con la formula come quella prefigurata del dialogo tra le parti sociali, e tra queste nel loro insieme e l'esecutivo, che possa essere maggiormente risolutiva nel superare la crisi della concertazione e garantire l'approfondimento del rapporto neocorporativo tra le classi. La scelta che diventa obbligatoria per la CGIL è quella di riprendere la testa della mobilitazione, rappresentandola in termini riformisti e lavorando per ricollocarla in una posizione politica difensiva, in cui gli interessi generali coincidessero con quelli sostenuti dal sindacato stesso e fossero quindi parziali e subalterni a quelli della borghesia. Dopotutto la CGIL concretamente difende gli interessi dell'aristocrazia operaia che sempre più vede l'attacco alle condizioni materiali e politiche della classe estendersi anche alle sue e al suo ruolo; perciò questo sindacato assume iniziative, come raccolte di firme per leggi di iniziativa popolare o referendum e dichiara di appoggiare l'iniziativa referendaria per l'estensione dell'art 18 che però divide lo schieramento riformista che aveva contrastato il governo nella battaglia precedente contro il suo ridimensionamento e, come altre volte sperimentato dalla classe, si rivela una iniziativa che disperde le lotte e le recupera, indebolendole, ad una logica istituzionale. Lo scontro perciò si sarebbe consumato in una forte polemica e iniziative contro il governo, ma al contempo depotenziando le istanze di classe nel loro contrapporsi agli interessi della borghesia. Così assumendo lo scontro, dopo l'azione Biagi, sempre più i caratteri dell'irriducibilità a soluzioni depotenzianti il conflitto di classe, la CGIL mantiene la sua linea riformista, ma diventa prioritario tenerne la direzione, rispetto a ricondurlo subito all'accordo tra le parti sociali e l'esecutivo. La CGIL può constatare infatti che le conduzioni politiche per l'accordo sulla riforma dei mercato dei lavoro sono irrimediabilmente saltate, ma soprattutto è profondamente cambiato il quadro del rapporto di scontro tra R/C con l'intervento offensivo delle BR-PCC, proprio per il ruolo di direzione rivoluzionaria che questo intervento per la sua qualità veniva ad esercitare nello scontro tra le classi, portando l'attacco al cuore dello Stato, nei nodi politici centrali che oppongono la classe allo Stato e con ciò affermando e rappresentando gli interessi generali e storici del proletariato. Per un sindacato che, come la CGIL, si era fatto soggetto attivo dei processi neocorporativi con i governi di centro sinistra, subendo già allora riflessi e le cd nei rapporti politici con la classe della loro crisi, dovuta sia all'opposizione dei settori più avanzati del proletariato che all’attacco portato dall'0 alla figura politica di M D'Antona, quale garante dell'equilibrio politico-sociale che allora sosteneva il passaggio politico che il Patto di Natale avrebbe dovuto realizzare, diventa prioritario il massimo contenimento del trasformarsi delle lotte da difensive e prive di contenuto autonomo in iniziative a carattere offensivo. Cerca così di mantenere in generale la classe nella condizione di debolezza prodottasi grazie a decenni di concertazione e rapporti neocorporativi per garantire che nel governare la crisi con le necessarie politiche antiproletarie, le istanze di classe venissero divaricate dall'intervento e dalla proposta rivoluzionaria dell'O. Ciò però avviene in quel contesto di crisi di tali processi che aveva come riflesso sulla CGIL la maggior delegittimazione dei suoi vertici, che sarà contrastata solo col tempo e solo nella misura in cui questo sindacato ha preso la testa delle lotte più combattive, contraendo però un debito politico con il consolidarne le istanze.

 

Le cadute di militanti dell'0 del 2/3/03 e i successi militari dell'antiguerriglia di quell'anno hanno come prima conseguenza una ritrovata fiducia dell'equilibrio dominante, per la convinzione che, inferto un duro colpo alle BR-PCC, la strada delle riforme fosse stata sgombrata. Una fiducia che si traduce in una ripresa a tambur battente dell'iniziativa legislativa dell'esecutivo nell'ambito della delega ricevuta dal Parlamento. Ma a far retrocedere il proletariato non bastano né i carabinieri schierati contro le sue lotte, né tantomeno l'attacco politico all'0 e la manovra controrivoluzionaria imbastita con il cadenzare ed il calibrare le varie operazioni antiguerriglia e la pubblicazione della "legge Biagi" - alla stregua di una vendetta di classe - in coincidenza di lotte e mobilitazioni operaie per tentare di divaricare, con l'intimidazione, l'opzione rivoluzionaria della strategia della LA, quale indirizzo politico offensivo di costruzione di forza e piano di disposizione e organizzazione strategica dell'autonomia politica di classe per la conquista del potere politico, dalle istanze che la classe ha espresso opponendosi alle riforme dei Libro Bianco, e far così ritrovare la necessaria libertà di azione politica alla borghesia per perseguire i propri interessi attaccando la classe operaia. Nel frattempo la prevedibile sconfitta dei referendum sull'estensione dell'art 18 giocherà un ruolo nell'indurre la CGIL ad appoggiarlo per affidare a questa iniziativa e al suo obiettivo un ruolo di sbocco alle istanze di classe con una funzione di risposta offensiva sul piano democratico all'offensiva della borghesia, una funzione di obiettivo avanzato, ma riassorbibile. Una tattica di governo del conflitto nient'affatto nuova e che continuerà ad adottare. Infatti non sostenuto dalla mobilitazione unitaria di tutto il sindacato confederale, né dal centro sinistra, si sarebbe configurata come un'azione per un interesse minoritario, quello delle “persone” che non usufruiscono di questa tutela e, andando incontro alla sconfitta, avrebbe ricondotto la classe sulla difensiva, diventando riassorbibile dallo schieramento politico e sociale di centro sinistra. Il risultato del referendum così, se da un lato ha costituito un passaggio per ricondurre e confermare la classe in generale su una posizione difensiva, cosicché archiviato l'episodio relativo all'art 18 questo potesse diventare la base politica su cui andare a ricostruire un rapporto unitario tra CISL, UIL e CGIL con la Confindustria, con la firma dei Patto per la competitività - cornice nella quale rilanciare il dialogo sociale tra le parti per fare progressivamente fronte comune contro il "declino economico" - dall'altro però non ha intaccato quelle istanze di autonomia attestate nello scontro, poste su un punto di forza dall'0 con la propria iniziativa combattente e rappresentate quando dalla lotta di un settore di classe quando dalla lotta di un altro.

 

In questo clima la CGIL, rispetto alle varie forme di flessibilità non adotterà una linea di opposizione incondizionata, ma, molto pragmaticamente, non ne accetterà alcune e ne sottoscriverà altre. Un approccio motivato dalla finalità di ridurre e contenere i danni provocabili dalla Legge 30. Una posizione difensiva che si basa su una concezione della flessibilità non come elemento o condizione totalmente sfavorevole alla classe, ma da accettare in quanto necessità dei modelli produttivi post-fordisti per riformarne le misure anche a favore degli operai, oltre che condizione strutturalmente favorevole ai padroni. L'indirizzo pragmatico della CGIL e l'interesse della borghesia ad evitare conflitti prolungati hanno consentito di raggiungere intese unitarie in quasi tutti i rinnovi dei contratti in scadenza e nelle vertenze per crisi aziendali contenendo le resistenze della classe. Questo però non ha significato la riconquista della necessaria libertà d’azione della borghesia, non sono stati infatti conclusi patti centralizzati tra le parti sociali che imponessero un assorbimento generalizzato nei contratti della Legge 30, Se non di parte limitata dei suoi istituti e misure, né accordi al vertice sulla riforma della contrattazione a cui pure si lavora da tempo non potendo il sindacato ancora dare garanzie a questo livello.

Nel complesso il programma di riforme previsto dal Libro Bianco ha perso oltre alla sua offensività anche in organicità, tempestività ed equilibrio, non potendo la produzione legislativa e normativa dell'esecutivo sopperire in alcun modo alle condizioni politiche la cui assenza ne osta l'attuazione sul campo. Ritardi e squilibri accumulati su cui ha pesato il riprodursi di lotte operaie e di altri settori che, impattando le gabbie neocorporative, hanno inciso ulteriormente sulle dinamiche politiche che condizionano il percorso del riforme ipotecato dall'intervento delle BR-PCC. Ciò ha portato la borghesia anche a mutare atteggiamento verso l'esecutivo a cui sono stati imputati i ritardi nell'attuazione dei provvedimenti sulla flessibilità e nella loro messa a regime. Critiche che sono una manifestazione delle difficoltà della progettualità politica della borghesia, così come lo scollamento dell'equilibrio politico-sociale che ha sostenuto le riforme del lavoro, si è manifestato anche nelle prese di posizione di CISIL e UIL che hanno rimproverato un tradimento dello spirito della riforma nella misura in cui una legislazione dirigista ed avulsa dalla contrattazione toglie gli spazi che i sindacati devono avere proprio nell'articolarsi e svilupparsi dei vari provvedimenti e passaggi sulla flessibilità. Infine, nonostante l'ampia produzione legislativa, negli aspetti che nelle intenzioni della soggettività politica della BI avrebbero dovuto garantire la tenuta complessiva ed equilibrata della riforma, è stato accumulato un ritardo non facilmente colmabile, a fronte dell'incedere della crisi e per le scelte di bilancio. Materie come la riforma degli ammortizzatori sociali e “statuto dei lavori” che definendo un quadro di contrappesi e garanzie alla flessibilità, configurando diritti soggettivi da quelli riconosciuti ai salariati, normalizzerebbero, insieme alle figure contrattuali di lavoro formalmente autonomo rinnovate dalla Legge 30, anche la frammentazione del lavoro salariato.

A livello regionale in rapporto ai cambiamenti introdotti dal centro sinistra con la modifica dei titolo V della Costituzione in senso federalista la cd ha riguardato i contenuti e come veniva recepita per parte di alcune regioni che, facendosi forti dei nuovo potere di intervento loro assegnato e del principio della sussidiarietà in materia di lavoro previsto dal titolo V riformato, non hanno recepito automaticamente i provvedimenti sulla flessibilità del mercato del lavoro presi dall'esecutivo, ma per governare il conflitto sociale e ricondurlo alle compatibilità economiche territoriali, volevano realizzare intese concertate a partire dai contenuti parzialmente contrapposti a quelli della riforma Biagi. Un contrasto istituzionale poi sanato a favore dell'azione e dei poteri dell'esecutivo, ma che segnala come la dialettica tra intervento politico-militare dell'0 e opposizione di classe alle riforme sia andata a pesare anche sulle cd del processo di riforma della forma dello Stato che la frazione di BI nostrana ha avviato per reagire alla sua crisi economica e politica con lo strutturare la frammentazione politica della classe nel suo rapporto con lo Stato e la BI stessa e con l’instaurare una regolazione dei rapporti tra realtà economiche territoriali a carattere competitivo.

Cd che peraltro non verrebbero superate dal, disegno di riforma che la maggioranza CdL vorrebbe approvare entro la legislatura, disegno che introdurrebbe più contrapposizioni e polarizzazioni che soluzioni adeguate ad assicurare un'amministrazione pubblica efficiente, conservando un quadro unitario ed una dinamica normativa lineare tra le varie sedi, in modo che stabilità politica e funzionalità dello Stato alle esigenze della BI siano coniugate alle condizioni di competitività territoriale.

 

In conclusione, a tre anni dal 19 marzo 2002, si verifica appieno che l'attivismo dell'esecutivo non è affatto riuscito a recuperare l'erosione degli equilibri politici e sociali che sostenevano la progettualità ed il programma del Libro Bianco, né quello delle parti sociali è riuscito a ricucire linearmente il tessuto di relazioni neocorporativo lacerato dall'intervento politico-militare delle BR-PCC in dialettica con l'opposizione di classe alle riforme. Il riadeguamento al portato complessivo dei rilancio degli strumenti e filtri controrivoluzionari realizzato coordinando l'operato di parti sociali, di organi di polizia e dei servizi e promuovendo un'azione della magistratura più offensiva in funzione della prevenzione e neutralizzazione dei processi aggregativi dell'avanguardia di classe e rivoluzionaria sul terreno della LA, è una risposta che non supera la debolezza politica che caratterizza lo Stato e la classe dominante di fronte al rilancio del ruolo che svolge nel rapporto R/C e classe/Stato. Del resto il dato politico che ha qualificato il rilancio è il suo essere attestazione della risposta rivoluzionaria a quanto la BI e lo Stato avevano conseguito negli anni 80 e consolidato negli anni 90 dell'esito del duplice processo controrivoluzionario, da un lato come mutamento dei rapporti di forza storici tra Proletariato Internazionale e Borghesia Imperialista a favore di quest'ultima e degli equilibri internazionali a favore della NATO; dall'altro, sul piano interno, come trasformazione in senso neocorporativo della mediazione politica tra le classi antagoniste, con la strutturazione mediante i processi di esecutivizzazione, i “patti sociali” e il maggioritario della mediabilità politica degli interessi proletari solo in quanto parziali, transitori e funzionali a istanze e obiettivi politici della BI. Una trasformazione che è passaggio dall'istituzionalizzazione del conflitto di classe, corrispettiva a determinati rapporti di forza e politici storici, operata nel quadro della democrazia rappresentativa a carattere parlamentarista alla “istituzionalizzazione” della prevenzione dei conflitto stesso, ai fini del dispiegamento della capacità offensiva borghese sulla classe, per portare a compimento e strutturare, nella crisi dell'imperialismo, il rafforzamento dei suo dominio con la subordinazione politica dei proletariato.

Le risposte e risoluzioni dell'avanguardia rivoluzionaria di classe alle evoluzioni del quadro di scontro interno, al gravarsi della stasi dell'intervento combattente dell'0, della dispersione e dequalificazione delle forze rivoluzionarie e proletarie e dei mutati rapporti tra Proletariato Internazionale e Bi , prodotte come sviluppo degli avanzamenti di linea politico-strategica in base ai quali negli anni 80 le BR-PCC furono in grado di preservare l'offensiva facendo fronte ai danneggiamenti e agli arretramenti determinati dalla controrivoluzione, nella loro funzionalità a ricostruire l'attacco al cuore dello Stato e la direzione rivoluzionaria esercitata dalle BR nello scontro di classe, hanno verificato e riconfermato l'adeguatezza storica della strategia della LA a misurarsi anche con le più dure condizioni di scontro in forza del principio offensivo che fa della guerriglia il fattore principale di mutamento dei rapporti dei forza. Questo il dato politico che fa del rilancio della strategia della LA l'elemento dominante nello scontro generale di classe in quanto nella misura in cui le BR-PCC hanno inciso sul piano politico su cui si ridefiniscono i rapporti tra le classi. Piano sul quale l’attacco politico-militare dell'0 a M D'Antona prima e a M Biagi poi, ha rimesso al centro per parte proletaria il nodo del potere, con ciò rispondendo ai termini reali dello scontro che hanno riadeguato lo spostamento dei rapporti di forza e politici tra le classi. Unico ostacolo all'obiettivo della borghesia che è stato e sarà di trasformarli a proprio favore come presupposto e scopo del progetto di rimodellazione economico-sociale e delle corrispettive riforme dello Stato, con l’approfondimento del rapporto neocorporativo con il proletariato. Progettualità con cui la borghesia imperialista intende rispondere alle necessità di riadeguare il governo della crisi al livello che questa ha raggiunto, e quello del conflitto agli antagonismi e alle polarizzazioni determinati dalla crisi e dalle stesse politiche con cui viene governata in funzione degli interessi dominanti. Una natura dello scontro che, in questa fase politica, in un quadro di relazioni tra le classi strutturate dall'esito di un processo controrivoluzionario di cui le politiche neocorporative sono state parte integrante, impone al proletariato e alla sua avanguardia, quale condizione per affermare le proprie istanze autonome e rappresentare i propri interessi generali in uno scontro con lo Stato e la borghesia imperialista necessariamente prolungato, di operare da subito nella prospettiva della presa del potere e sul terreno della lotta armata, che la rende praticabile anche a partire da ristrette avanguardie che si assumono la responsabilità politica di disporsi e organizzarsi sul terreno e sugli indirizzi della guerra di classe per contrastare il rafforzamento del dominio della borghesia imperialista, indebolirlo attacandone la progettualità politica che lo può realizzare, e sviluppare il processo rivoluzionario per abbatterlo. Ovvero, questa condizione storica ai fini della trasformazione dei rapporti di forza e politici a favore del proletariato impone all'avanguardia rivoluzionaria l'inderogabilità dei criteri scientifici che presiedono alla strategia della lotta armata quale strategia rivoluzionaria adeguata alle attuali forme di dominio dell'imperialismo.

Questi i fattori storico-politici per cui il rilancio della strategia della lotta armata con le azioni del '99-'02 ha intaccato in profondità il rapporto politico neocorporativo che la borghesia aveva costruito in 20 anni nello scontro con il proletariato assestandone la subalternità, e che aveva costituito una linea dell'offensiva controrivoluzionaria degli anni '80 tesa a divaricare lo scontro di classe e le istanze di potere che esprimeva; dall'opzione rivoluzionaria proposta dalle BR, che perciò fu termine di rafforzamento politico dello Stato e della posizione dominante della borghesia imperialista. L'attacco allo Stato sulle linee politiche e strategiche fatte avanzare dall'Organizzazione, incidente per la centralità del progetto attaccato e per la selezione del personale politico che ne garantiva gli equilibri a sostegno, agendo come un cuneo nel rapporto tra Stato e classe, si è ripercosso nella dialettica con la classe aprendo un varco nella sua difensiva, politicizzandone e rafforzandone la resistenza e le sue istanze autonome, che perciò sono andate a convergere e a pesare intorno ai danni che l'iniziativa dell'Organizzazione ha provocato alla progettualità dominante, approfondendo la difficoltà dello Stato a ricomporre e ricucire lo strappo subito. Una dinamica che ha prevalso sui ripetuti tentativi di accerchiamento dell'opposizione di classe messi in campo dal nemico, in particolare a seguito delle perdite inferte all'Organizzazione, e che ha rappresentato la ricostruzione nello scontro generale tra le classi del dato politico del rapporto storicamente instaurato dalle BR con l'autonomia di classe nella fase della Propaganda Armata. La dinamica che scaturisce da questi fattori storico-politici è ciò che, anche in un quadro di processi aggregativi propri della fase rivoluzionaria in corso, rafforza i margini politici e dà spessore alle verifiche di cui oggi dispone l'avanguardia combattente che dall'attacco muove alla costruzione e organizzazione delle forze sulla lotta armata per avanzare sul piano della fase e della costruzione dei Partito Comunista Combattente.

Come militanti delle BR-PCC prigionieri che hanno lavorato al rilancio in quanto parte della soggettività rivoluzionaria di classe che, avendo riconosciuto la rispondenza dei termini della proposta, della linea e del programma delle BR-PCC, li ha voluti ricostruire per condurre lo scontro con lo Stato e la borghesia imperialista confacentemene alla sua natura e alle sue mutate condizioni, siamo in quest’aula anche per rappresentare il rapporto dialettico che intercorre tra piano e indirizzo rivoluzionario praticati e proposti dall'organizzazione e scontro di classe. Un rapporto che è all'origine dei rilancio stesso, in specifico per gli avanzamenti nella progettualità rivoluzionaria prodotti dalle BR-PCC negli anni '80 nel misurarsi con la controrivoluzione e che è stato fatto avanzare con il rilancio nella misura in cui l'avanguardia rivoluzionaria, assumendosi la responsabilità politica di dare consequenzialità e sviluppo alle istanze autonome e d’autonomia politica di classe disponendosi e organizzandosi sul terreno della lotta armata, li ha fatti propri. Un rapporto politico-storico che rende conto di come sia impossibile per la controrivoluzione eradicare dallo scontro di classe e rivoluzionario la strategia della lotta armata, in quanto essa è strategia adeguata a conquistare il potere politico e a instaurare la dittatura del proletariato per costruire una società comunista, non essendo rimovibili le ragioni sociali, politiche e storiche che l'hanno resa necessaria al proletariato metropolitano come alternativa alla crisi e al dominio della borghesia imperialista.

 

- ATTACCARE IL PROGETTO ANTIPROLETARIO E CONTRORIVOLUZIONARIO DI RIMODELLAZIONE ECONOMICO-SOCIALE E DI RIFORMA POLITICO-ISTITUZIONALE TESO A RAFFORZARE IL DOMINIO DELLA BORGHESIA IMPERIALISTA

- LAVORARE ALLA RICOSTRUZIONE DELLE FORZE RIVOLUZIONARIE E PROLETARIE SUL TERRENO DELLA LOTTA ARMATA E DEGLI STRUMENTI POLITICO-ORGANIZZATIVI PER RILANCIARE L'INIZIATIVA OFFENSIVA E FAR AVANZARE I TERMINI ATTUALI DELLA GUERRA DI CLASSE

- ATTACCARE LE POLITICHE CENTRALI DELL’IMPERIALISMO NELLE SUE STRATEGIE DI GUERRA E CONTRORIVOLUZIONE, OGGI CONCRETIZZATE NELL'OCCUPAZIONE DELL'IRAQ

- LAVORARE ALLA COSTRUZIONE DEL FRONTE COMBATTENTE ANTIMPERIALISTA CON TUTTE LE FORZE RIVOLUZIONARIE E ANTIMPERIALISTE DELL'AREA EUROPEA-MEDITERRANEA-MEDIORIENTALE PER PORTARE L'ATTACCO CONTRO IL NEMICO COMUNE, FACENDO VIVERE GLI INTERESSI COMUNI DEL PROLETARIATO E DEI POPOLI DELLA REGIONE

- ONORE AL COMPAGNO MARIO GALESI CADUTO COMBATTENDO PER IL COMUNISMO!

- ONORE A TUTTI I COMBATTENTI E RIVOLUZIONARI CADUTI!

- W LA STRATEGIA DELLA LOTTA ARMATA!

- W L'INTIFADA PALESTINESE E LA GUERRA Di LIBERAZIONE IRAQENA!

PROLETARI DI TUTTI I PAESI UNIAMOCI!

 

I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente

Nadia Lioce, Roberto Morandi