CONTROINFORMAZIONE INTERNAZIONALE N.8

EST: LA NUOVA FRONTIERA

La rapida riconversione alle leggi di mercato e gli opposti interessi intercapitalistici generano le condizioni per un capitalismo di rapina

LA NUOVA FRONTIERA

Dalla caduta del Muro di Berlino, avvenimento eretto a simbolo "della morte del comunismo e dell'erigersi del Nuovo Ordine Mondiale", sono passati solo tre anni: ma tanti sono bastati (per chi ancora avesse dubbi) a demistificare ampiamente e crudemente la "profezia" capitalista di un futuro di pace e benessere in tutta Europa.

Guerre, massacri, miseria, fascismo, disoccupazione, crisi: sono queste alcune delle "gioie" capitaliste che oggi attraversano l'Europa dai Balcani a Mosca. Punte negative di una crisi economica e sociale che, investendo da tempo l'occidente capitalista, si ripercuote pesantemente ad Est dove neo-liberismo e privatizzazione, nazionalismo e guerra sono i perni della "riconquista capitalista".

La sconfitta storica dell'ipotesi revisionista ha spazzato via quasi tutte le conquiste per la difesa degli interessi di classe aprendo così il campo ad una penetrazione capitalista che può contare qui ampi margini di sfruttamento e di profitto. Intensificazione quindi dello sfruttamento della forza lavoro (del proletariato tutto) e delle risorse ambientali; smembramento di mezza Europa per ridisegnarla in aree del marco, del dollaro, dello yen.

In questa fase di recessione, di crisi generale del mercato mondiale e di grosse contraddizioni intercapitalistiche (lotta sempre più aperta tra capitale USA Tedesco e Giapponese) l'Occidente sembra non interessato (o capace) a darsi un progetto complessivo e di lungo termine che riesca ad assorbire "proficuamente" l'area ex-socialista.

La borghesia multinazionale fa propri gli interessi "specifici" delle nuove borghesie nazionali: si "spartisce" così ciò che resta della struttura economico/produttiva dell'ex blocco socialista e le potenzialità delle sue immense risorse naturali. Ricorrendo, se necessario, all'attizzamento di conflitti tra etnie differenti, tra regioni che il collasso degli Stati socialisti, pianificatori e distributori della ricchezza, ha reso ancor più diseguali economicamente e socialmente.

In questa strategia vi è però un'evidente contraddizione: se da un lato il nazionalismo ha come obbiettivo la legittimazione delle nuove borghesi e la creazione di consenso attorno a politiche guerrafondaie e antipopolari dall'altra con le sue "barriere" esso diventa l'ostacolo principale ad una funzionale espansione capitalista ad Est.

La comparsa di nuove barriere doganali, la decisione di introdurre monete proprie diverse dal rublo, l'avvio di "riforme economiche ed istituzionali" (come la liberalizzazione dei prezzi in Russia) slegate da un progetto comune, le rivalità di egemonia tra le nuove repubbliche, il riemergere di antagonismi "storici" (che spesso sfociano in vere e proprie guerre), tutto ciò rende più convulsi e contraddittori i processi innescati dalla caduta dell'ex-Urss.

"Sebbene squattrinata la Russia è potenzialmente il paese più ricco del mondo, ed è in vendita. In questo paese, come nel resto dell'ex-Urss, quasi tutto può essere comprato a prezzi stracciati."

(Corriere della sera 20/2/92).

Dall'inizio di quest'anno Eltsin sta trattando un nuovo prestito di 24 miliardi di dollari e una moratoria di 2 anni sul pagamento degli interessi del debito dell'ex-Urss di 74 miliardi di dollari (di cui 68 a carico della Russia).

Polonia , Cecoslovacchia, Ungheria, Yugoslavia, Bulgaria sono gli stati che per primi hanno introdotto le cosiddette "riforme economiche" che altro non sono che condizioni imposte dal FMI tramite il ricatto dell'indebitamento estero e che sono supervisionate da "esperti" quali J. Sachs, economista finanziato da USA e ONU, che ha già partecipato al "risanamento" economico della Bolivia (la guerra alla droga!), della Polonia (2 milioni di disoccupati) e si appresta a farlo in Russia su richiesta di Eltsin.

Queste politiche sono tese (come nel resto d'Europa) a far pagare tutti i costi della crisi ai proletari, ai ceti e agli strati meno garantiti dalla ristrutturazione del mercato del lavoro, della produzione e del sistema sociale e garantiscono ai gruppi capitalistici condizioni favorevoli all'investimento ed allo sfruttamento.

Così la Goldman Sachs, consulente ufficiale del governo russo, ha voluto saggiare ulteriormente la disponibilità ad investire nell'ex-Urss contattando in pochi mesi più di 1000 società occidentali. Il quadro emerso riflette l'atteggiamento di insicurezza da parte del piccolo e grande capitale nei confronti di una situazione sociale ed economica esplosiva. Le società contattate che si sono dichiarate disponibili hanno detto di essere interessate solo al finanziamento di progetti di media entità (5-100 milioni di dollari a fronte di un bisogno complessivo di 5 Miliardi all'anno). Di fatto oggi in Russia solo l'1% dell'economia è in mani private: ciò che interessa quindi non è la pianificazione dello sfruttamento quanto il poter trarre profitti immediati a costi irrilevanti. Una strategia più di "rapina" che di investimenti a lungo termine.

Spesso gli investimenti economici sono tesi ad una pura azione di eliminazione della concorrenza. La multinazionale Abb ad esempio ha acquistato a prezzi stracciati diverse fabbriche polacche di turbine elettriche (abbastanza competitive sul mercato) per smantellarle e acquisire la relativa quota di mercato; la Volkswagen ha acquistato la Skoda (fabbrica d'auto cecoslovacca) promettendo una sua "riqualificazione" sul mercato ed attuando invece il taglio della produzione di circa 1/3 e della settimana lavorativa a 4 giorni e la ristrutturazione di molti impianti per produrre componenti per le auto tedesche a prezzi competitivi.

Altre volte è l'altalenante ed incerta situazione politica che blocca dei progetti: basti pensare che nell'area del rublo non esiste una sola banca centrale ma ben 15. E così vediamo la Fiat rinunciare al piano iniziale di acquisto del 40% della fabbrica di AvtoVAZ di Togliattigrad preferendo invece per ora la commercializzazione delle auto usate. La Mercedez-Benz ha forti interessi di stabilire impianti nella regione tedesca del Volga (Russia), e Benetton chiude in Italia per riaprire in Albania (di nuovo colonia italiana) dove sfrutta una mano d'opera da qualche migliaio di lire al giorno.

Secondo un'esperto economico polacco nessun serio capitalista occidentale investirebbe in Polonia: preferirebbe sicuramente un'operazione finanziaria che, grazie agli altissimi interessi (80%) pagati dalle banche polacche sul denaro depositato, porterebbe a profitti ingenti ed in tempi brevi. In Russia, definita dai funzionari svizzeri della DEA (Dip. per gli Affari Economici) "un'enorme lavatrice di denaro sporco", la questione assume toni grotteschi; centinaia di miliardi di rubli escono dal paese (addirittura per corrispondenza) con il beneplacito della dirigenza russa su treni merci che, attraversando l'Europa, li recapitano ad holding finanziarie della mafia, degli speculatori o fino in America. E recentemente il governo ha approvato una serie di provvedimenti tesi ad invogliare gli investimenti esteri. Niente tasse per chi investirà in Russia.

Con un grosso rischio comunque: e cioè che del profitto di queste attività resti in Russia solo il 10% sotto forma di investimenti nuovi e che il rimanente 90% rimpatrii.

Anche le materie prime dell'ex-Urss sono oggetto di saccheggio.
Spesso vengono esportate come "scarti" della produzione e vendute a prezzi stracciati: il petrolio può essere comprato a 22 $ la tonnellata e rivenduto a 160 in Europa, l'oro a 6$ e rivenduto a 11.
Materie prime come bauxite, rame, zinco, titanio, cobalto, uranio, il materiale nucleare e non dell'armata rossa possono essere acquistati e rivenduti con profitti altissimi.

La questione riguardante poi la fine dell'apparato militare sovietico e del suo arsenale militare (dotato della più potente forza nucleare) è cosa che preoccupa non poco gli stati occidentali.
Con il processo di smantellamento iniziato e voluto da Gorbaciov (sempre nell'ottica di ridurre i costi ma aumentarne l'efficienza) si è praticamente immessa sul mercato mondiale clandestino e non delle armi una quantità considerevole di materiale bellico: in parte venduto ad ex stati "fratelli", in parte spartito tra le repubbliche (non senza dispute come nel caso della flotta nucleare contesa tra Ucraina e Russia), in parte trafugato pronto a ricomparire sugli scenari delle guerre etniche o in qualche strage in Europa occidentale.

Con la disintegrazione dell'Urss anche l'Armata Rossa, uno dei pilastri del sistema sovietico, ha ceduto di fronte agli interessi nazionali. Già con il fallito golpe del 1991 si era capito come esso non rappresentasse e non sostenesse più la cosiddetta "nomenklatura" del PCUS. Un primo effetto è stato quindi il formarsi di una miriade di eserciti e milizie a difesa degli interessi "nazionali". Repubbliche che economicamente e socialmente sono caratterizzate da una forte instabilità sono ora improvvisamente delle potenze nucleari. I capi di queste repubbliche si dichiarano favorevoli allo smantellamento dell'armata rossa per creare propri eserciti (magari dentro la NATO) prevedendo un lungo periodo di instabilità e di forti conflitti di interesse nell'Europa orientale.

Ciò che sta avvenendo in Yugoslavia è l'esempio di quale potrà essere il futuro dell'Europa orientale e dell'Asia ex-sovietica.
Pur essendo divise dagli interessi di parte sulla sorte dell'ex-Yugoslavia, le potenze imperialiste hanno comunque una tendenza comune che ha portato alle sanzioni economiche alla Serbia, che punta ad un ridimensionamento e ad un maggior controllo di quest'ultima (l'attuale presidente serbo è un'affarista americano di origini serbe) e che vuol fare della Croazia la nuova "Israele" d'Europa, integralista cattolica, fascista, a guardia dell'Est turbolento.

In generale la situazione sociale, le condizioni di vita per la gran parte della popolazione sono peggiorate drasticamente. Milioni di russi si sono trovati sull'orlo della povertà e da ottobre, quando partirà la privatizzazione del settore statale su larga scala, si prospetta la disoccupazione di massa.
Alla crisi economica gravissima (in alcuni casi la produzione è dimezzata del 50%) si risponde con cure "sudamericane": taglio netto dell'assistenza sociale, privatizzazione di tutti i servizi e le produzioni, tagli massicci all'occupazione con aumento vertiginoso della disoccupazione, indebitamento estero galoppante, erosione costante e sensibile del potere d'acquisto dei salari.

In Polonia i disoccupati sono arrivati ad essere 2 milioni, in tutta l'Europa dell'est nell'ultimo anno sono raddoppiati e solo nell'ex-URSS sono dai 10 ai 20 milioni. Le code davanti ai negozi (pallino della propaganda occidentale) sono più lunghe e numerose di prima. In molti grandi magazzini moscoviti la moneta di corso non è il rublo ma il marco o il dollaro.

Gli scioperi generali in Polonia contro gli aumenti indiscriminati, gli scioperi degli studenti uzbeki contro l'abolizione degli assegni di studio, le manifestazioni anti-governative ("la marcia degli affamati") ed i sabotaggi alle multinazionali (Mac Donalds) di Mosca, gli scioperi e le manifestazioni degli operai yugoslavi, le lotte dei minatori rumeni e russi, gli assalti ai magazzini di viveri delle popolazioni albanesi, sono tutti segnali di come la nuova borghesia rampante non riesca più a nascondere i propri interessi dietro gli slogan vuoti di "democrazia" e "benessere" e di come, seppur ora sconfitta e confusa sul piano ideologico e materiale, la resistenza e la lotta di classe siano vive e massificate.

In questo contesto il cosiddetto Nuovo Ordine Mondiale si presenta come l'incapacità nel campo imperialista di definire progetti complessivi di uscita dalla crisi e di stabilire gerarchie al proprio interno.

Ciò non tanto per i mutamenti storici avvenuti (la scomparsa dell'URSS) quanto per la forte crisi USA (indebitamento estero altissimo), il costituirsi con molte contraddizioni del polo imperialista europeo e la stagnazione dell'economia Giapponese.

L'evoluzione della situazione sociale ed economica ad est è dunque carica di incognite anche sinistre.
Lo spettro della guerra e della sua "esportazione", i flussi migratori sempre più massicci da est ad ovest, il rigurgitare del nazismo, la prospettiva della povertà per milioni di persone possono diventare nel tempo elementi di "pressione" e mistificazione per legittimare (ancora una volta) un assetto sociale che, dopo aver contribuito ed osannato alla caduta dei regimi dell'Est, si candida oggi come unica prospettiva di sviluppo sociale ed economico possibile.

Come dire: o noi (il capitalismo) o le barbarie della guerra e della povertà.

[torna all'inizio della pagina]

LA RUSSIA E LA MONETA

Il governo russo ha deciso che in agosto la Russia si assumerà la responsabilità dell'intero debito dell'URSS stimato in circa 74 miliardi di dollari.

Il primo miliardo di dollari di finanziamenti alla Russia arriverà dal FMI in agosto e sarà impiegato dal governo per sostenere il settore agro industriale. Sugli altri tre miliardi previsti per l'autunno a sostegno del rublo stanno emergendo problemi. Pare infatti che l'operazione "Fondo di stabilizzazione del rublo" debba slittare al '93.

Per ottenere in prestito il primo miliardo di dollari la Russia si è impegnata a ridurre il disavanzo pubblico dall'attuale 17% a circa il 5% del prodotto interno lordo entro la fine di quest'anno e l'inflazione dovrebbe scendere sotto il 10% al mese.

Il governo russo ha abbandonato l'idea di un passaggio accelerato alla convertibilità interna del rublo rimandandola all'inizio dell'anno prossimo. Dalla prevista covertibilità di 80 rubli per un dollaro si è passati alla previsione più realistica del dimezzamento del valore del rublo, infatti il tasso attuale fissato alla Borsa valutaria di Mosca è di 205 rubli per dollaro.

Nei sei mesi passati la Banca centrale russa ha speso almeno 500 milioni di dollari per tenere relativamente alto il costo della moneta nazionale.

Ci sono due problemi che bloccano la convertibilità interna, secondo il capo dei consiglieri economici del governo, innanzitutto l'inflazione deve scendere sotto il 6% al mese e poi la Russia deve concludere accordi finanziari specifici con tutti le repubbliche che continuano a usare il rublo.

Il tasso di inflazione mensile attuale oscilla tra il 15 e il 20% e con alcune repubbliche che permangono nell'area del rublo i rapporti politici sono tutt'altro che idilliaci.

Il governo russo ha rifiutato di liberalizzare i prezzi del petrolio contraddicendo la richiesta del FMI, per paura dell'ira popolare e del caos derivante dalla conseguente ulteriore decuplicazione dei prezzi al consumo.

Anche l'Estonia dopo la Lituania e la Lettonia ha annunciato che abbandonerà definitivamente l'area del rublo.

[torna all'inizio della pagina]

CRISI ECONOMICA IN JUGOSLAVIA

L'economia di guerra è sempre un "ottimo rimedio" alla crisi economica: gia nel 90 l'Occidente ci ha abituato a questo tipo di "soluzioni" scatenando il massacro sull'Iraq.

In Yugoslavia, su cui si riversano forti interessi capitalistici (se non altro per la sua esposizione nel debito estero) c'è chi prevede almeno altri 10 anni di conflitti interetnici, con il rischio che questi possano contagiare regioni vicine (Ungheria, Grecia, Romania, Turchia, Albania).

Storicamente punto di incontro/scontro tra Occidente ed Oriente, la Yugoslavia, in disperata crisi economica e fortemente indebitata con l'occidente, vede riemergere contraddizioni storiche (la Croazia fascista, il nazionalismo fascista di alcuni settori serbi, "l'intrusione" mussulmana) dietro le quali oggi si muovono e manovrano i nuovi "signori della guerra" e le frazioni della borghesia multinazionale che li sponsorizzano.

Di fatto in questo ex-stato socialista, nato da una dura lotta partigiana antifascista/nazista e che per primo e più "tenacemente" aveva ricercato un compromesso tra pianificazione socialista e libero mercato, tra stato centrale ed autonomia regionale, la crisi si manifestava già da diverso tempo.

Nel giro di 3 anni (dal 1978 al 1981) ed i coincidenza con la crisi del modello autogestionario il debito estero della Yugoslavia quasi raddoppia passando da 11.8 a 20.2 miliardi di dollari.

Le condizioni (imposte dal FMI e dai G7) per accedere al credito ed al mercato sono pesanti: la Yugoslavia è costretta a chiedere prestiti solo per poter pagare gli interessi dei debiti precedentemente contratti bloccando così la possibilità di nuovi investimenti e di una ripresa reale dell'economia. In più arrivano le imposizioni nel campo della politica economica e sociale: tagli a salari e spese sociali, diminuizione delle importazioni ed aumento delle esportazioni, calo dei consumi interni.

Sul piano istituzionale il FMI pretese che fosse il governo centrale a rispondere del debito e non più le singole imprese secondo il modello dell'autogestione allora in vigore. Ciò determinò una forte spinta alla centralizzazione e al decisionismo in campo economico da parte del governo federale.

Nel 1983 il governo federale approva il "Programma di stabilizzazione economica", che altro non è che l'introduzione piena delle leggi di mercato: vi si prevede inoltre il taglio di un fondo che era destinato alla socializzazione delle perdite delle imprese in rosso. Questo determinò la chiusura di numerosissime imprese, l'arretramento di regioni già povere (Kossovo) e un aumento vertiginoso della disoccupazione (i disoccupati crebbero fino ad un 1.000.000).

Nel 1987 il piano antinflazione prevede ulteriori tagli ed aumenti dei beni di prima necessità e dei servizi: l'elettricità aumenta del 69%, le ferrovie del 61%, la benzina del 60%, i servizi postali del 30% e i prodotti di prima necessità aumentano dal 30 al 60%.

L'inflazione nonostante tutto continua a crescere vertiginosamente: dal 47% (annuo) del 1980/1985 al 2714% (annuo) del 1989. A seguito di questa situazione economica, l'export per la Yugoslavia diventa un vero e proprio atto di rapina da parte dei paesi occidentali: nel 1987 il 50% degli utili dell'export vengono assorbiti dal servizio del debito estero.

In questo contesto di crisi interna (inserito nel quadro più generale di crisi mondiale) si colloca la "secessione" di Slovenia, Croazia e Bosnia, regioni ricche, guidate da una classe politica nazionalista e di destra, che non vogliono assolutamente perdere il carrozzone del mercato unico europeo accollandosi i costi della crisi economica yugoslava. Basti pensare che la Slovenia (che occupa circa un decimo del territorio nazionale) assorbiva circa un terzo delle entrate in valuta dell'intero paese.

Finora le vittime della guerra sono state valutate in 10.000 ed i senza tetto in più di 700.000.

[torna all'inizio della pagina]