CONTROINFORMAZIONE INTERNAZIONALE N.8

CADUTI PER IL COMUNISMO

Sul massacro di Canto Grande - Comitato di Appoggio alla Guerra Popolare in Perù

Lima, carcere di Canto Grande, ore 4.30 del mattino del 6 maggio 1992. Inizia l'operazione "MUDANZA 1": centinaia di soldati e poliziotti tentano di entrare nel Padiglione 1-A, dove sono rinchiuse le compagne combattenti del Partito Comunista del Perù (PCP). L'obiettivo dell'azione è iniziare l'operazione di trasferimento dei prigionieri, pianificata in fasi successive, come parte della "nuova politica carceraria" decisa dal Presidente della Repubblica Fujimori fin dal suo insediamento, nel luglio '90, ed accelerata dopo il golpe militare, promosso da lui stesso, il 5 aprile '92.

Con tale operazione si vuol giungere ad una dispersione dei circa 700 prigionieri/e di guerra rinchiusi a Canto Grande, portandoli a piccoli gruppi in caserme dell'esercito o in carceri isolate, dove possano essere torturati e poi eliminati fisicamente in modo massiccio, senza tanto clamore e senza avere problemi con l'opinione pubblica nazionale ed internazionale.

Il piano reazionario di Fujimori, e del suo "padrone" Bush, vero esperto di assassinii di massa e genocidi (Panama, Iraq, ecc.), non giunge come qualcosa di inaspettato. Il PCP in tutti i suoi ultimi documenti resi pubblici denunciava quanto si stava preparando; le prigioniere ed i prigionieri, in varie occasioni, avevano reso nota la propria posizione riguardo ai piani del governo e dell'imperialismo: ultima, la lettera del 15 marzo 1992, nella quale veniva indicato, con estrema precisione, quanto sarebbe poi effettivamente successo. Anche l'Associazione degli Avvocati Democratici aveva denunciato ciò, e pagherà la propria azione al servizio dei prigionieri rivoluzionari con numerosi arresti e l'assassinio selettivo, durante il massacro, di alcuni noti avvocati, tra i quali la compagna Yovanka Pardavé ed il compagno Tito Valle Travesano. Il piano assassino era quindi fallito già prima di iniziare, Fujimori e soci, della destra e della sinistra istituzionale, hanno solo potuto avere la soddisfazione di vedere, con i propri occhi, il risultato della loro "impresa", come effettivamente faranno il 10 maggio, aggirandosi, sotto i flash dei fotografi e le riprese delle telecamere, tra i corpi massacrati dei compagni nel cortile del carcere. Ma questa stessa scena, vista da milioni di persone, sarà un'ulteriore prova della loro totale sconfitta politica e storica, oltre che della loro miseria morale, piena espressione della classe e dello Stato che rappresentano.

Il 6 maggio infatti, contro i tentativi di trasferimento, le compagne ed i compagni resistono con ogni mezzo ed ogni arma a loro disposizione: lo scontro durerà tre giorni ed avrà un saldo di circa 100 compagni assassinati, 80 "desaparecidos" e centinaia di feriti, molti gravemente. Alcuni i morti e decine i feriti tra gli sbirri delle Forze Armate e di Polizia.

Perché questa decisione di "Resistencia Heroica", come scrivono i compagni sopravvissuti nelle lettere fatte filtrare all'esterno nei giorni immediatamente successivi al 10 maggio? Non certo per "spirito di sacrificio" o "culto della morte", come squallidi figuri della stampa peruviana ed internazionale hanno avuto il coraggio di scrivere. La realtà è ben diversa. Nell'ambito di ogni processo rivoluzionario in forte crescita, sempre le forze reazionarie ed i loro reggicoda di ogni tipo hanno utilizzato ed utilizzano ogni strumento a loro disposizione per allontanare la propria sconfitta. L'attacco ai prigionieri rivoluzionari, il tentativo di annientarli, in un modo o nell'altro, van di pari passo con la politica di sterminio verso le avanguardie, i combattenti e le masse che li appoggiano. E' questa una strategia universale e non bisogna andare molto lontano per trovare conferme: basta ricordare, ad esempio, i compagni assassinati a Genova in via Fracchia nel 1980 dagli uomini di Carlo Alberto Dalla Chiesa, o i compagni prigionieri tedeschi assassinati a Stammhein, o le migliaia di prigionieri sottoposti a torture fisiche e psicologiche di ogni tipo ed alla pratica dell'isolamento totale negli ultimi 20 anni, per fermarci solo all'Italia ed all'Europa.

Lo stesso Fujimori ribadisce questo concetto quando, in un'intervista apparsa il 12 giugno scorso sul quotidiano spagnolo "El Pais", rispondendo ad una domanda riguardante il massacro di Canto Grande, afferma: "...La misura che si è presa per ristabilire il principio di autorità nelle carceri mi sembra corretta. Io lo rifarei. Sono sicuro che qualsiasi governo democratico in Europa, negli Stati Uniti o in qualsiasi parte del mondo riprenderebbe il controllo delle sue carceri".

Niente di strano quindi, e giusta, coraggiosa e politicamente coerente la posizione dei prigionieri di guerra del PCP di opporsi in ogni modo a questa strategia, di resistere e combattere per impedire o almeno limitare le conseguenze dell'azione genocida pianificata nei loro confronti e di far pagare comunque al nemico di classe il prezzo più alto possibile.

Si trattava, e si tratta, di difendere conquiste costate dure lotte e la vita di molti prigionieri (basti ricordare i massacri nelle carceri del 5 ottobre 1985 [30 morti] e del 16 giugno 1986 [300 morti], diretti dal boia socialdemocratico Alan Garcia Perez, ottimo amico, e certo modello ideale, dei "nostri" socialisti Craxi, Amato ecc...).

Di difendere la vita gestita collettivamente, l'auto-organizzazione all'interno del carcere, la propria identità di comunisti e rivoluzionari... Ma lo Stato peruviano e l'imperialismo, di fronte all'avanzare della rivoluzione, allo sviluppo della guerra di popolo dalle campagne fin dentro al centro stesso del sistema, nella capitale, non possono sopportare che, non solo nelle "zone rosse" che occupano il 40% del territorio nazionale, ma persino all'interno di un carcere, si crei un esempio di nuovi rapporti umani, sociali e politici, espressione vivente di una nuova ideologia, di una Nuova Società, che li seppellirà tutti, inesorabilmente, uno dopo l'altro.

In questo sta la spiegazione evidente e chiara di quanto accaduto a Lima, dal 6 al 9 maggio scorso, come momento dello scontro generale tra rivoluzione e controrivoluzione, giunto ormai alla fase dell'equilibrio strategico, dello scontro tra sfruttati e sfruttatori, che solo i nemici della classe possono non capire, o meglio fingere di non capire. E tra costoro in primo luogo quanti dicono di essere dalla parte dei poveri e degli sfruttati, come le ONG laiche o cattoliche, ma comunque rigorosamente "di sinistra", che sulle loro riviste patinate o sui loro innumerevoli fogli informativi di vario tipo, hanno saputo versare calde lacrime per una loro cara amica, quale senza dubbio era Maria Elena Moyano (vice-sindaco della barriada di "Villa El Salvador", anche lei "di sinistra", oltre che al servizio dell'imperialismo, europeo ed italiano in particolare, per non menzionare il suo attivo ruolo di delatrice ed informatrice sollecita della polizia antiterrorismo, che è costato la tortura e la morte di molti militanti rivoluzionari di questa zona di Lima), giustiziata il 15 febbraio scorso da una combattente comunista, da una militante della rivoluzione peruviana. Questi stessi non hanno pronunciato una sola seria parola di condanna del massacro dei compagni prigionieri del 6-9 maggio, né sui massacri di decine di migliaia di contadini e proletari in questi ultimi 12 anni da parte delle FFAA e FFPP reazionarie. Certo, ogni tanto parlano di violazione dei "diritti umani", elevano "vive proteste" contro quei governanti ai quali ogni giorno stringono la mano ed al cui servizio si sono oggettivamente posti da sempre.

Per non parlare della stampa che ha pure il "cattivo gusto" di definirsi comunista, come il quotidiano "Il Manifesto", che ha pubblicato articoli sul massacro (vedi, ad esempio, l'articolo apparso il 23 maggio '92 a pag. 9, firmato da J.A. Klun) e sulla rivoluzione peruviana in generale, che esprimono posizioni infami e calunniatorie, che nemmeno la stampa padronale e dichiaratamente reazionaria, ma almeno forse più seria, osa assumere. "Il Manifesto" che non ha saputo scrivere una sola parola, non diciamo di condanna, ma nemmeno di denuncia, sull'assassinio a Canto Grande della giornalista Janet Talavera, direttrice di "El Diario", un giornale coerentemente al servizio della verità dell'informazione e della rivoluzione peruviana, in carcere da tre anni per "apologia di terrorismo", abbattuta da 20 pallottole nel cortile del carcere, dopo essersi arresa.

D'altronde è comprensibile, la compagna Janet era un'autentica giornalista, una militante rivoluzionaria al servizio della classe, che certo niente ha a che fare con i miserabili pennivendoli che hanno preferito fingere di non vedere la sua morte.

Ma lasciando perdere questi squallidi personaggi, che già da tempo si sono qualificati per quello che realmente sono, è invece estremamente importante che i compagni, che i proletari, che i comunisti e i rivoluzionari, comprendano il significato reale di quanto accaduto il 6-9 maggio scorso in Perù, che comprendano che la mobilitazione dei prigionieri, affiancati dai loro familiari e dai proletari delle "barriadas" e sviluppatasi in unità dialettica con la dura risposta militare della guerriglia, che ha sconvolto Lima e tutto il paese, ha saputo sconfiggere ancora una volta i piani del nemico di classe ed i suoi tentativi di fermare, con il sangue dei compagni prigionieri, lo sviluppo della guerra di popolo.

Comprendere il significato del processo rivoluzionario peruviano può essere in questa fase di grande importanza ed utilità anche per chi, qui nei paesi del Centro Imperialista, non ha abbandonato la prospettiva di trasformazione radicale della società. In esso si possono infatti vedere le potenzialità ed il valore più che mai attuale dell'ideologia del proletariato, quando sia applicata in modo non dogmatico, ma originale, dialettico e costruttivo, tenendo conto delle specificità di ogni realtà socio-politica: questo ha fatto il PCP nel processo di sviluppo della guerra rivoluzionaria in fasi successive e con continui riadeguamenti della propria strategia e tattica politico-militare, a seconda dell'evolversi della situazione nazionale ed internazionale. Certo, la realtà è qui molto diversa e per questo non si tratta di crearsi un modello, un esempio da seguire. Affatto, ciò sarebbe quanto di più antimarxista si potrebbe pensare. Ma dietro questa "copertura" non si devono neanche nascondere posizioni che sanno poi solo sfociare nel completo immobilismo e, nei casi peggiori, nell'opportunismo di ogni tipo.

In una situazione come quella attuale in cui il nemico di classe, lacerato dalle proprie contraddizioni interne sempre più forti e pressanti, sta portando avanti un'offensiva volta a disinnescare preventivamente qualsiasi possibilità di rottura rivoluzionaria a livello internazionale, è invece più che mai urgente e non rimandabile una riorganizzazione del movimento comunista rivoluzionario che sappia, sulla base di una nuova strategia complessiva e vincente, adatta alle caratteristiche della fase attuale, riprendere l'iniziativa, inserendosi nelle contraddizioni esistenti all'interno dell'imperialismo; puntando ad indebolire qui, nel Centro del Sistema, le sue capacità di elaborazione delle strategie globali che poi esso andrà a sviluppare a livello internazionale, nella convinzione che esso, oggi più che mai, è nemico comune e mortale di tutta l'umanità.

Solo su queste basi è possibile costruire quell'unità e quel rapporto dialettico con i movimenti rivoluzionari della Periferia, e con la Rivoluzione peruviana in particolare, che sono necessari in questa fase, nella convinzione che "il comunismo è per tutti o per nessuno". Ciò nella prospettiva dell'internazionalismo inteso come "Lottare insieme!", che varie azioni militanti in diversi paesi, come ad esempio l'attacco che il 25 maggio scorso ha gravemente danneggiato le strutture del Ministero degli Esteri equadoriano, a Quito, rivendicato in nome degli "Eroi di Canto Grande" da un commando della guerriglia di questo paese andino, già stanno indicando concretamente, seppure in forma embrionale.

Comprendere tutto questo sarebbe inoltre anche un modo per capire realmente e fino in fondo che le compagne ed i compagni prigionieri nel carcere di Canto Grande, a Lima, hanno dato la propria vita per la rivoluzione, per il comunismo.

Comitato di Appoggio alla Guerra Popolare in Perù

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