CONTROINFORMAZIONE INTERNAZIONALE N.8

DUE LETTERE CONTRO LA LIQUIDAZIONE

I prigionieri della Resistenza intervengono in merito al documento della RAF del 10 aprile [da Arbeiter Kampf]

PREMESSA

Con i seguenti documenti vogliamo contribuire con alcune riflessioni basilari al dibattito sulla dichiarazione del 10/4 delle compagne e dei compagni della RAF. Ci troviamo però di fronte alla contraddizione che da un lato ci preme prendere al più presto una posizione e dall'altro che la completezza e la precisione di una simile presa di posizione richiederebbe un lavoro intenso che non ci è possibile svolgere con la velocità necessaria. Anche perché ancor oggi noi stiamo in carceri diverse e possiamo condurre le nostre discussioni soltanto a fatica e per iscritto.

Dato però che noi in ogni caso vogliamo evitare l'errore - commesso troppo spesso - di reagire tardivamente o di non reagire affatto a causa di queste nostre contraddizioni, abbiamo deciso di pubblicare due lettere, parte delle nostre discussioni con le compagne e i compagni fuori. Questo chiaramente può essere solo un'inizio.

Butzbach/Schwalmstadt, Maggio 1992

Bernhard Rosenkötter, Ali Jansen, Michael Dietiker.
Prigionieri della Resistenza Antimperialista

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PRIMA LETTERA

Cara [...], dunque, veniamo alla questione che attualmente domina tutto.

Sai, la cosa che mi ha colpito già alla prima rapida lettura della lettera del 10/4 e che ho percepito come un ago rovente sotto la pelle è il modo superficiale e freddo, che non prende sul serio se stesso e di conseguenza neanche la propria storia, con cui è stata buttata giù questa lettera.

Che a questa dichiarazione, importante sotto ogni aspetto, sia stato lavorato davvero intensamente, che loro abbiano discusso, ripensato, discusso giorni, settimane prima mettersi a scrivere e poi ancora una volta prima di spedire il testo: tutto questo la lettera non lo fa vedere per niente. Almeno non a me. Secondo me anche il post scriptum del 14/4 lo rende evidente, però esso è in fin dei conti praticamente solo un puntino sulla i.

Visto che non so se tu hai provato le mie stesse sensazioni, voglio cercare di spiegarti cosa intendo citando due brevi passaggi secondo me sintomatici della lettera.

"Abbiamo capito che [...] non possiamo più continuare a prendere da soli, come guerriglia, tutte le decisioni e fare orientare gli altri a noi. E' vero che spesso ci siamo espressi diversamente, ma la realtà era questa" - si legge a pag. 2 della loro lettera. "Noi, la RAF, a partire dall'89 abbiamo cominciato a riflettere maggiormente e a discutere del fatto che né per noi né per tutti quelli che nella RFT hanno una storia nella Resistenza, la situazione può continuare così. Siamo giunti alla conclusione che si tratta di trovare nuove direttive [...]" - scrivono a pag. 1 della stessa lettera.

Dire da una parte che non va bene che prendiamo tutte le decisioni da soli e che tutti si orientino a noi, e dall'altra parte non solo pensare senza un'ampia discussione con tutti quelli che nella RFT hanno una storia nella Resistenza, ma voler anche decidere se si continua così o meno, questo è semplicemente grottesco. Purtroppo però la lettera non si limita a essere grottesca!

Come ti puoi sicuramente immaginare durante queste due settimane ho passato in rassegna, ancora una volta molto approfonditamente, gli ultimi 8-10 anni e anche dopo averlo fatto, non posso che ripetermi che questo testo è qualcosa come il punto finale logico e quasi obbligatorio di uno sviluppo sbagliato che è durato anni; uno sviluppo sbagliato che è stato spesso problematizzato e anche ampiamente criticato. Adesso diventa evidente ancora una volta che gli autori della lettera non si sono mai seriamente confrontati con le critica rivolte alle loro analisi e alla loro pratica.

Premetto però, per evitare fraintesi, che ritengo giusta la loro decisione di ritirarsi dall'escalation. Da criticare è solo il fatto che loro nella loro dichiarazione non mettono in discussione la loro evoluzione verso le sole "azioni mortali mirate"; l'evoluzione nel corso della quale hanno fatto apparire una cosa quasi normale attacchi che possono essere legittimati soltanto in casi eccezionali. Il loro modo di percepire e di 'analizzare' la realtà e le strutture di potere nella società imperialista, che sta alla base di questa evoluzione, è lo stesso con cui adesso affermano senza la minima riflessione il contrario: "Il ministro della giustizia Kinkel, con la sua dichiarazione di gennaio di liberare alcuni prigionieri incapaci di sopportare la detenzione e alcuni prigionieri in carcere da più tempo, ha palesato per la prima volta in qualità di rappresentante dello Stato, che ci sono settori nell'apparato che hanno capito di non poter affrontare la resistenza e le contraddizioni sociali con mezzi polizieschi-militari. Per vent'anni hanno puntato all'annientamento dei prigionieri. La dichiarazione di Kinkel ha sollevato la questione se lo Stato sia pronto - desistendo dal rapporto di annientamento che ha nei confronti di tutti quelli che lottano per una vita autodeterminata, che non si piegano alla forza del denaro, che oppongo interessi e obiettivi propri agli interessi del profitto - a lasciare spazio a soluzioni politiche (e se anche i rappresentanti dell'economia fanno pressioni in tal senso sul governo, questo non può che essere un bene)."

Chi pensa e scrive in questo modo ha preso commiato dalla ricostruzione urgente e necessaria di una politica rivoluzionaria, e cerca rifugio nel riformismo. Ora sai, un po' è quasi comprensibile. Compagni/e che per anni hanno preso come punto di partenza della loro lotta, 'analisi' euforistiche sbagliate e completamente infondate, che hanno visto cadere l'imperialismo in agonia politica, che credevano finite le possibilità di intervento politico da parte dello Stato/capitale e che parlavano di "battaglia decisiva", loro devono disperarsi assistendo al momentaneo trionfo dell'imperialismo, devono cercare rifugio nel riformismo - almeno fintanto che non sono disposti a farsi coinvolgere in una revisione critica degli ultimi anni, fino a che non la mettono al centro dei loro sforzi.

Ma no, non sono cambiati neanche adesso, cioè il loro modo di analizzare e di fare politica è rimasto lo stesso da sei, sette, otto anni. Sotto la pressione dello sviluppo globale sono cambiati soltanto i risultati. Quindi, tutta la lettera del 10/4 è in fin dei conti stata scritta in concordanza con l'analisi e la pratica degli ultimi anni.

Bisogna tenere presente: invece di realizzare che Kinkel ha capito che continuare a tenere in carcere Günter, Bernd e per esempio Irmgard (vent'anni...), come richiesto dai politici, minaccia di diventare controproducente e significa un fattore continuo e non calcolabile di mobilitazione, e che quindi ha innescato questa iniziativa alla Ponzio Pilato completamente priva di impegni (all'improvviso questi signori si ricordano della indipendenza dei tribunali superiori), invece di realizzare tutto questo, vi riconoscono uno sviluppo nel quale si possono intravvedere soluzioni politiche non solo per noi detenuti politici, ma addirittura per tutti quelli che "lottano per una vita autodeterminata, che non si piegano alla forza del denaro, che oppongono interessi e obiettivi propri agli interessi del profitto." E anche il capitale fa subito pressione in tale senso...

Ma dimmi, dove viviamo? Bene, per oggi io mi fermo qui e non mi metto ad analizzare anche il resto della lettera. Però in un futuro questa analisi sarà inevitabile.

Per finire, cito un passo della decisione del tribunale superiore (decisione negativa rispetto alla richiesta di scarcerazione dopo 2/3 di pena scontata).

"Il Senato ha deciso di non stabilire una data di scadenza ai sensi dell'art. 57 comma 6 del Codice penale per la presentazione di una nuova domanda. Vista la dichiarazione del 10/4/1992 attribuita alla RAF, pervenuta al Senato dopo la data dell'udienza, nella quale anche il condannato viene menzionato con nome, non può essere escluso che il condannato si appropri in un prossimo futuro della annunciata rinuncia alla violenza e con ciò crei una nuova base per la decisione."

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SECONDA LETTERA

Caro [...], quel che tu scrivi dell'atmosfera negli ultimi tempi, questo miscuglio di insicurezza e di incomprensione, me lo posso immaginare fin troppo bene, purtroppo.

Che in una situazione come quella odierna non ci siano "risposte pronte" è ovvio (in realtà non esistono mai), ma il problema consiste nel fatto che sembra che rispetto alle domande urgenti da nessuna parte vengano espresse nemmeno posizioni di fondo chiare che siano alla base delle varie valutazioni. Ma proprio questo è adesso di importanza essenziale. Io posso dire soltanto come la pensiamo noi.

Noi non pensiamo affatto che "l'offensiva di riconciliazione" di Kinkel (espressione riuscitissima che ho preso da un commento nella radio) includesse il nostro riconoscimento come avversari politici. Al contrario, l'interpretazione che fa Kinkel stesso della propria parola d'ordine lo rende evidente: lui ha spiegato la "riconciliazione" con il fatto che in più anche gli ebrei si sarebbero riconciliati con i tedeschi! Nota bene, in questa metafora la RAF, la resistenza e i prigionieri sono i nazisti e il governo e il capitale sono "gli ebrei". Ciò include di mettere noi sullo stesso piano del terrore nazista, di mettere se stessi nella posa di vittima innocente e di "offrire" a noi, partendo dalla posizione di potere realmente superiore, la possibilità di vergognarci, di "deterrorificarci" e di migliorare pentendoci.

Chiaramente si deve ciò nonostante utilizzare questo atteggiamento statale intanto per ottenere il raggruppamento e la liberazione. Però la premessa deve essere che noi affrontiamo i loro calcoli con una posizione di base chiara e offensiva.

La dichiarazione del 10/4 ha avuto proprio un'effetto contrario; da allora è stato messo ancora più in evidenza "l'abiura della violenza", anche con le scarcerazioni-modello volute dallo Stato.

Noi in questa situazione riteniamo necessario esprimere alcune ovvietà (almeno dovrebbero essere tali) in maniera chiara e offensiva. Per esempio: far notare che la "questione della violenza" nel senso di "si o no" non esiste. Esiste soltanto la questione degli obiettivi. Intendo con questo che lo Stato non richiede la rinuncia alla violenza per motivi pacifisti, ma al contrario per far riconoscere il proprio monopolio di violenza - vale a dire che lo Stato è l'amico che può usare la violenza. Altrimenti che cos'è la guerra del Golfo, la costruzione di autostrade, la mancanza di case, a cosa servirebbe l'apparato esercito-polizia-giustizia-carceri se non per esercitare una violenza mirata? O ancora: la festa del 20 giugno, cioè un attentato armato contro un capo di stato, fa parte dell'identità della RFT.

Quindi alla questione sulla violenza bisogna opporre che in primo luogo non si tratta della violenza di per sé, ma della questione degli obiettivi per i quali viene usata la violenza. E solo da questo possono nascere dei criteri. Detto proprio in maniera banale: i potenti usano la violenza repressiva per la difesa dei loro interessi di sfruttamento e contro questa si indirizza la lotta rivoluzionaria. Così quello che era capovolto viene rimesso sui piedi: la fine della violenza presuppone l'abolizione dello Stato delle cose presenti.

E' chiaro che così si semplifica estremamente. Si dovrebbe aggiungere ancora moltissimo, però questo rimane lo stesso la base. E così sarebbe anche possibile formulare una posizione che respinga in modo definitivo la richiesta statale di abiura come condizione di scarcerazione.

La dichiarazione del 10/4 invece di argomentare in base a questi concetti, rimane vaga e contraddittoria in maniera allucinante proprio riguardo a questi problemi. Da una parte si constata il fallimento di una determinata politica e viene espressa la speranza per una politica dello Stato comprensiva, pronta a "soluzioni politiche", dall'altra parte viene accentuata l'irriducibilità degli obiettivi ("da soli non retrocederanno su nessun punto..."), per quanto riguarda la forza necessaria non ci si esprime se non solo con la minaccia di continuare poi la politica il cui fallimento è stato constatato prima.

Questo però secondo noi non è un caso e neanche un errore isolato, non è nemmeno solo assurdo, ma è invece l'espressione di non-chiarezza e di errori che contrassegnano già da molto la politica antimperialista (non solo quella della RAF). Qui adesso posso toccare solo i punti salienti, però è assolutamente necessario cominciare finalmente queste discussioni, se mai vogliamo risolvere questi problemi.

E con questo ho definito già il primo punto, cioè la mancante disponibilità a discutere in modo critico e autocritico le rispettive definizioni politiche e la pratica politica.

Le suddette "ovvietà" rispetto alla questione della violenza non significano nient'altro che la pratica rivoluzionaria deve corrispondere agli obiettivi, che la violenza rivoluzionaria non può mai essere una cosa ovvia, che essa richiede il massimo di responsabilità. Fino a che punto corrisponde a queste esigenze una pratica che si è limitata sempre di più ad "azioni mortali mirate" contro singoli rappresentanti - cioè in fondo la questione di principale dell'autoriflessione per la politica rivoluzionaria in generale - questo non è stato tematizzato per niente almeno negli ultimi dieci anni in quasi tutta la sinistra antimperialista.

Quasi tutta la critica e quasi tutti i tentativi di innescare discussioni del genere sono stati soffocati nel banale schema pro-contro; fra consenso e "counter" non c'era quasi spazio per una evoluzione critica. Così si è stabilizzato un modo di pensare profondamente acritico e non rivoluzionario che tira fuori da tutto solo gli elementi che "di per sé" sono buoni e giusti o che comunque sono adatti all'autogiustificazione. E quello che in origine ha "solo" immunizzato contro la critica porta adesso al fatto che persino attacchi statali come l'iniziative di Kinkel vengono trattati nella stessa maniera. Quindi all'improvviso si trovano sulla stesso livello, pur non essendo conciliabili, speranze in una volontà da parte dello Stato alla "soluzione politica" e l'irriducibilismo degli obiettivi. Sullo steso livello è stata condotta da molto tempo la discussione sulla violenza rivoluzionaria. La critica alla determinazione concreta di singole azioni è stata trasformata in espressione di principi: chi critica mette in dubbio la lotta armata. Quindi la lotta armata, mezzo di combattimento necessario, che comunque andava continuamente riflettuta in maniera precisa nella sua destinazione, è diventata una questione di credo; e il livello delle "azioni mortali mirate" è divenuto la definizione della politica rivoluzionaria. Per questo la decisione "di per sé" completamente giusta di non continuare più sullo stesso livello una determinata pratica ha un retrogusto di liquidazione non chiaro e difficilmente comprensibile. Però nella dichiarazione del 10/4 non solo manca un tentativo di analisi del proprio sviluppo, ma non viene neanche posto il problema, piuttosto si individua come prima causa del cambiamento il crollo del socialismo reale!

Certo che con il crollo del socialismo reale è cambiata tutta la situazione internazionale, e altrettanto certo è che ciò significa un colpo duro per i movimenti nazionali di liberazione e che significa prospettive completamente diverse. Anche le contraddizioni nella società della RFT sono state soggette a cambiamenti profondi dall'annessione della DDR. E sicuramente l'iniziativa di Kinkel deve essere vista nel contesto dei nuovi problemi, non prevedibili nella loro estensione, che i potenti devono affrontare, motivo per cui vogliono togliere di mezzo alcuni "residui" diventati non più funzionali. Però tutto questo c'entra molto poco con le questioni della definizione della politica rivoluzionaria e con quelle del ruolo della lotta armata; e neppure queste domande si pongono solo dal 1989.

Chiaramente la politica della RAF era definita internazionalista sin dall'inizio, connessa alla lotta globale dei movimenti di liberazione inizio anni '70. Ma l'Unione Sovietica, il socialismo reale in tutto questo hanno avuto un ruolo semmai immediato, cioè come fattore strategico ma comunque pur sempre passivo nel bilancio delle forze internazionali. Inoltre questo background internazionalista era solo una parte, l'altra era la situazione nella RFT che era contrassegnata dal fatto che un largo movimento di protesta arrivava sempre più chiaramente ai propri limiti e che così per combinare l'offensiva globale antimperialista divenne necessario un superamento di questi limiti anche (e soprattutto) nelle metropoli. Con il crollo e l'integrazione del movimento del '68 la definizione internazionalista ha per forza preso un ruolo del tutto particolare per la sinistra rivoluzionaria nella RFT. Ma al più tardi negli anni '80 questa definizione ha portato all'unilateralità in quanto l'analisi politica si ridusse sempre di più all'esame e alla valutazione dei giochi globali e strategici imperialisti e l'evoluzione nella RFT venne percepita esclusivamente sotto questo punto di vista. Il cambiamento rispetto alle condizioni di partenza forse non venne più neanche percepito, sicuramente non più discusso, al contrario supposto come unico sviluppo quasi rettilineo.

Adesso il tutto si sta semplicemente rovesciando oppure continua sotto segni opposti. Al posto dell'analisi delle strategie dell'imperialismo subentrano le contraddizioni all'interno della società, ugualmente unilateralizzate, e anche qui lo sviluppo della propria pratica e i cambiamenti delle proprie direttive non vengono analizzate.

E' chiara una sola cosa: in questa maniera vengono perse anche le ultime basi per una politica rivoluzionaria. Io mi limito per adesso a queste osservazioni brevi e limitate ai punti salienti. Ma forse già così ho reso evidente dove noi vediamo i punti cardinali per una discussione più precisa della situazione attuale e per una ridiscussione della storia - quale presupposto assolutamente indispensabile se non ci vogliamo far rubare la nostra storia politica e se vogliamo lavorare alla ricostruzione di una politica rivoluzionaria.

[da Arbeiter Kampf]

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