CONTROINFORMAZIONE INTERNAZIONALE N.9

LA GUERRA TEDESCA IN JUGOSLAVIA

Gruppe K, Gruppe Steinerne Herzen, Vorbereitungsgruppe Weltrevolution
V.i.S.d.P. Max Stein, c/o Büro K, Karolinenstraße 21 - Haus 2, 2000 Amburgo 36

1. RITUALITÀ INVECE CHE POLITICA - IL MOVIMENTO PACIFISTA È TEDESCO ED EUROSCIOVINISTA

I resti del movimento pacifista in RFT assieme a parti sempre più consistenti della sinistra stanno dissipando in discussioni sulla guerra in Jugoslavia anche le ultime forze che potrebbero essere utilizzate contro la politica espansionista del governo tedesco. Quelli che sono indignati per gli orrori della guerra non si chiedono se gli aiuti umanitari e la loro gestione, per forza di cose militare, non siano essi stessi parte integrante della guerra nei Balcani. Visto che dal "crollo del comunismo" il bene risiede all'ovest, nel capitalismo e nella sua "società civile", il suo rovescio barbarico all'est viene percepito come qualcosa di estraneo e non come un pericolo imminente anche qui.

Anche l'appello di Amburgo del 1° settembre, scritto dalle strutture di massa Socialiste, Rivoluzionarie e Comuniste, è un esempio del degrado politico di questa sinistra. Per loro una 'alleanza ampia' e le loro quasi inattuali considerazioni storiche a proposito di una giornata contro la guerra sono più importanti del tentativo di formulare una propria posizione antagonista contro l'incendio imperialistico dell'Jugoslavia. Non si accenna neppure al fatto che la politica tedesca in Jugoslavia gioca da 14 mesi con il fuoco nascondendosi sotto la cappa dell'umanitarismo e sotto lo slogan della "autodeterminazione delle nazioni", con la conseguente follia della guerra nazionalistica imposta dai futuri partner-Cee nei Balcani. Per questo ai pacifisti di Amburgo non viene in mente nient'altro che l'appello, non si sa diretto a chi, "Basta con la guerra nell'ex Jugoslavia".

Accuratamente non vengono citati i responsabili di questa guerra, né vengono evidenziati gli interessi che vi stanno alla base. Persino l'appello "Nessun intervento dell'esercito federale" potrebbe addirittura trovare qualche riscontro: la politica militare tedesca ha imparato molto dalla sconfitta nei Balcani durante la seconda guerra mondiale e infatti gli obiettivi dell'intervento tedesco nella guerra, oltre a quello della disgregazione della Jugoslavia, sono quelli della massima spinta alla guerra con il minimo di perdite proprie, per porre le basi di una propria leadership europea non solo economica, ma anche politica e militare; queste sono le forze propulsive della guerra. Si tratta di un intervento che attualmente può anche evitare di essere "armato".

I due politici verdi Lippelt e Roth che, dopo il ritorno dal loro viaggio di guerraturismo in Jugoslavia, pensavano ad alta voce all' "intervento militare" dall'esterno, non saranno certo gli ultimi del "movimento pacifista", che dimenticano i propri principi di fronte agli orrori della guerra "vera". Già precedentemente un funzionario di Bonn del vecchio "movimento pacifista" se ne era uscito, in risposta alle pressioni dell'opinione pubblica interventista, con l'idea di una "moratoria" fino alle successive elezioni del Bundestag, facendo finta di non sapere che tutte le misure internazionali militari già prese fino ad oggi sono state determinate in gran parte dalla RFT.

Ora molti all'interno della sinistra e molti pacifisti fanno fatica a dare il loro assenso all'intervento militare; preferirebbero un intervento umanitario o politico che regolasse il conflitto jugoslavo dal punto di vista occidentale. Ma questo favore non glielo fa nessuno dei gruppi guerrafondai, poiché tutti gli attuali potentati della ex Jugoslavia sanno che solo una Jugoslavia disgregata con l'eliminazione delle rovine di quello che veniva chiamato comunismo, sarà la condizione di possibili agevolazioni da parte dei paesi capitalistici. Abbiamo visto la stessa dinamica nel crollo e nella disgregazione dell'ex Unione Sovietica, dove i successori degli ex partiti comunisti si danno un gran da fare per la creazione di nuovi Stati e di una "coscienza nazionale" (anche se i loro popoli non vogliono nessuna di quelle "conquiste" del benessere capitalistico che noi ben conosciamo).

Poiché però, almeno da quando è crollato il "socialismo reale" ed è stata riunificata la Germania, la sinistra ed i pacifisti tedeschi condividono gli "interessi della loro nazione", essi individuano alternative alla guerra solo nella scelta tra interessi "tedeschi", "europei", "occidentali" o semplicemente "civili". Onu, Nato e Cee non vengono più viste da costoro come associazioni che perseguono interessi di potere imperialistici, ma come strumenti riformabili per il benessere dell'umanità, che al meglio dovrebbero essere controllati dalla democrazia di base ed indirizzati in senso ecologico. Polizia mondiale o europea, monopolio della violenza controllato dall'Onu o dall'Europa, vengono visti come auspicabili nella misura in cui possono essere riformati. Questa cosiddetta sinistra si dialettizza con i potenti e non si oppone più al sistema. Per questo concorda in via di principio anche con l'analisi dominante della "guerra dei Balcani": sono gli aggressori serbi ossessionati dalla bramosia del potere che minacciano croati, sloveni, bosniaci, albanesi del Kossovo e "Europa" intera.

Sembra quasi che "noi" qui soffriamo per questa guerra più degli stessi Jugoslavi. "Noi" abbiamo già visto questa dinamica durante la guerra nel Golfo. Così ci mostrano le immagini dell'orrore della guerra per farci credere a quello che vediamo, e ci fanno vedere solo quello a cui dobbiamo credere: mentre da una parte vengono presentati in modo sensazionalistico i campi di internamento serbi, per favorire il clima politico necessario ad un intervento militare, dall'altra solo brevi note sui lager bosniaci e croati vengono relegate nelle pagine interne dei giornali. Dal momento che le immagini dell'orrore sono così difficili da sopportare per il sazio cittadino occidentale, anche per quello di sinistra, ecco che la guerra riguarda anche noi e deve essere fatta cessare al più presto. Perché mette in questione i nostri valori: benessere, "civiltà", coscienza sociale; e non da ultimo la guerra disturba le nostre vacanze nell'Adriatico, un tempo così economiche. Chi vive nei paesi capitalisti vorrebbe godere dei vantaggi che gli vengono dalla propria posizione nella gerarchia del mercato mondiale, ma preferirebbe evitare le condizioni ad essa necessarie: povertà, fame e guerra come in Jugoslavia, nelle repubbliche della CSI, in Afganistan o in Somalia. O per lo meno preferirebbe non doverle vedere, o saperle molto lontane, non nella "nostra Europa", a solo "un'ora di aereo di distanza", come recita l'argomentazione più stupida di chi vuole esprimere una particolare partecipazione.

Cresce nei realpolitici di sinistra l'opinione che la guerra in Jugoslavia non si concluderà pacificamente come essi pensano che vogliano i potenti. Ed ecco che allora viene addotto di nuovo un paragone già utilizzato durante la guerra nel Golfo: il paragone assurdo con la stessa storia tedesca, con Auschwitz, con i campi di annientamento, con le soluzioni finali, ecc. e chi legge pensa sempre alla Serbia e non piuttosto alla storia della politica tedesca di sterminio e di annientamento con l'obiettivo della conquista mondiale ad opera della razza germanica. Quindi si scopre un nuovo "successore di Hitler", dopo che in Saddam Hussein, in Slobodan Milosevic. E che cosa abbiamo imparato dalla guerra nel Golfo? Che contro gli Hitler del mondo serve solo la violenza. Già la guerra ONU degli USA, nella quale l'Irak era stato bombardato in osservanza del vecchio ordine mondiale, non sfigurava nel paragone con la coalizione degli alleati anti-Hitler. In Jugoslavia questa volta è la RFT a provare il "nuovo ordine mondiale", questo iniziano a capirlo i Serbi, i cui leader politici fino a pochi anni fa speravano ancora di ottenere un posto sotto il tetto della CEE.

Affinché il pacifista possa partecipare a questa risuddivisione delle sfere di influenza, è necessaria una legittimazione di "sinistra".

Per i verdi Lippelt e Roth questa legittimazione può suonare così: "le cosiddette purificazioni etniche, i campi di internamento e la violenza arcaica sono chiare componenti del fascismo. E al fascismo ci si deve opporre e lo si deve combattere. In caso di necessità anche con la violenza". Il "Mai più fascismo" suona così familiare alla sinistra.

L'accusa di "violenza arcaica" e di "fine dell'umanità" considera la violenza come qualcosa di estraneo all'attuale contesto sociale. Dimenticano evidentemente la meno arcaica e moderna violenza dei bombardamenti intensivi USA in Vietnam con il napalm e con i defolianti, delle cui conseguenze ancora oggi si soffre. Dimenticano le idee di una guerra pulita con le bombe ai neutroni e con il bombardamento computerizzato di Bagdad. Sempre eseguito nel nome della civiltà. A nessuno era venuto in mente, durante la guerra del Vietnam, di predire la "fine dell'umanità", e nessuno ha proposto di bombardare gli USA per fargli ritrovare la ragione. Sfortuna per gli USA che non vinsero quella guerra, altrimenti si troverebbe oggi al primo posto nell'eroica classifica dell'imposizione del progresso civile contro le barbarie e delle innumerevoli guerre di conquista coloniali.

Che Saddam Hussein fosse il "nuovo Hitler" era già stato giustificato 18 mesi prima, per l'aggressione al Kuwait e le minacce ad Israele. Che "i Serbi" vogliano fare una politica di conquista mondiale, questo comunque non lo può sostenere nessuno, ma non è nemmeno più necessario, perché nel frattempo l'idiozia, la stupidità e lo sciovinismo hanno piantato radici talmente profonde che concetti che nascono dalla stessa storia tedesca, come "fascismo", "nazionalsocialismo", "campi di annientamento" ecc., bastano per porre sullo stesso piano cose tra loro diverse. In questo modo di pensare, le cause interne ed esterne della guerra jugoslava hanno solo un ruolo secondario. La critica della politica tedesca si riduce alla questione se l'intervento militare debba essere effettuato con soldati tedeschi e se sì, con o senza modifiche alla Costituzione. A quanti hanno una particolare conoscenza storica viene al massimo in mente che "noi" nei Balcani, a causa della seconda guerra mondiale, non saremo certo i benvenuti per tutti.

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2. CHE COS'ERA LA JUGOSLAVIA?

La Jugoslavia dopo il 1945 era innanzitutto uno Stato federale, abitato in maggioranza da Serbi e da numerosi gruppi di Croati, Sloveni, Musulmani bosniaci, Macedoni, Albanesi, Ungheresi e da numerosi gruppi più piccoli di minoranze, divisi in sei repubbliche e due zone autonome (Kossovo e Vojvodina). Nel dibattito attuale si ama utilizzare le definizioni di provenienza etnica e nazionalistica per dimostrare l'impossibilità di convivere in un unico Stato (la Jugoslavia come "prigione dei popoli"). Simili definizioni rimandano alle diverse fasi dello sviluppo storico in cui i vari imperi si sono battuti al confine tra Europa, Asia e Vicino Oriente musulmano per sottomettere alla propria influenza la zona dei Balcani. Così come nel XIX e XX secolo, il nazionalismo è l'ideologia unificatrice, che giustifica i concetti di Stato, Nazione e Popolo, e ha l'obiettivo di definire i confini tra i potenti. In passato si usava la religione (il cui influsso è notevole ancora oggi), per impugnare la spada contro il popolo che era di volta in volta da sconfiggere. E nei Balcani si combattono l'un l'altro cristiani ortodossi, cattolici e islam.

Nel crollo dell'ordine del dopo-guerra assistiamo alla "resurrezione" della lotta tra i successori dei vecchi regni, con tutte le loro vecchie pretese. Lo sciovinismo europeo, le crociate del Papa e i successori del regno asburgico, vedono Slovenia e Croazia come le proprie roccaforti. La Turchia (già "collaudata per quanto riguarda i diritti umani" nel modo di trattare la questione Curda ), quale successore del regno osmanico, si sente investita quale potenza protettrice dei musulmani bosniaci e deve quindi difendersi dalla concorrenza dei fondamentalisti iraniani islamici. Gli albanesi nell' "ospizio per poveri" jugoslavo che è il Kossovo, sognano la riunificazione nella Grande Albania con la vicina madrepatria, economicamente distrutta, anche se nessuno può seriamente pensare di tirarci fuori qualcosa. Solo agli Slavi meridionali serbi manca una "potenza protettrice", poiché i successori del regno dello zar russo ortodosso della CSI non sono ancora così ben piazzati da poter sollevare a loro volta delle pretese. Così la Serbia trova un involontario alleato solo nella Grecia ortodossa, che si trova incuneata di colpo tra l'Europa occidentale e la Turchia. Per rimanere in questo quadro di enunciazione di contraddizioni: mentre si dice che è la Serbia che vuole scontrarsi con il resto del mondo, la situazione reale è invece opposta: è la Serbia che non ha nessun alleato.

La Jugoslavia di Tito, la Jugoslavia del dopo-fascismo, aveva posto come anello di congiunzione dei diversi gruppi di interessi, del loro nazionalismo e delle questioni religiose, il comunismo come ideologia estensiva. I comunisti jugoslavi hanno tentato di risolvere la "questione nazionale" in senso federativo. Sotto la superficie continuavano ad esistere le vecchie contraddizioni e le vecchie pretese, ma venivano soffocate. Il successivo cedimento di fronte alle tendenze al decentramento e ai punti di vista delle varie nazionalità, ha rafforzato le condizioni per la crisi economica del paese. "Lo stretto legame con la propria nazione è molto più la logica conseguenza di una politica delle nazionalità e del federalismo, che ha rafforzato negli ultimi 15 anni l'autonomia nazionale e le competenze della Repubblica" (Manuale della storia sociale ed economica europea, vol. 6, 1987). Fino a quando - fino alla fine degli anni '70 - l'economia della Jugoslavia poteva assicurare l'aumento del benessere, si riuscì a ridurre i conflitti fra le nazionalità. Al benessere jugoslavo contribuì la posizione di non allineamento, attraverso cui Tito sfruttava a favore del proprio paese la contraddizione Est-Ovest. Corteggiata dalle potenze dirigenti dei due blocchi, gli USA e la CEE da un lato, l'Unione Sovietica dall'altro, la Jugoslavia riuscì ad approfittarne fino agli anni '70 a favore della propria politica di potenza e di sviluppo economico. Era associata al mercato dell'Est ed aveva accesso alle sue risorse, ed aveva altresì credito all'Ovest, senza perciò diventare indipendente. Durante la crisi economica degli anni '80 il paese cercò l'aiuto del FMI, che gli assegnò crediti non solo alla condizione di una maggiore economia di mercato, ma anche a quella del rafforzamento delle competenze economiche dello Stato centrale a danno delle repubbliche. Gli aiuti del FMI costrinsero il paese ad un forte indebitamento, ma non riuscirono a risolvere la crisi economica delle repubbliche e il governo centrale, Belgrado, diventò il capro espiatorio. La spinta alla centralizzazione del FMI accelerò le tendenze autonomiste.

Tre condizioni hanno portato al crollo dello Stato unitario:

1) La "libertà dai blocchi" non era più un fattore di potenza dopo il fallimento del tentativo di costruire una propria economia tra gli Stati non allineati: i "non allineati" chiedevano sempre più insistentemente appoggio economico e entravano in rapporto di dipendenza con i blocchi. La liberazione nazionale assumeva, anche con i migliori propositi dei movimenti di liberazione, solo il significato di un tentativo di modernizzazione interna e di partecipazione al mercato mondiale con la conseguenza dell'indebitamento.

2) Con il fallimento del tentativo dell'Unione Sovietica e del campo realsocialista di percorrere una propria via non capitalistica, tutti gli Stati che si erano associati all'Est in crisi non poterono far altro che mendicare aiuti dall'Occidente.

3) La Jugoslavia in tutto questo perse due volte: nella sua partecipazione al mercato dell'Est e nella sua credibilità economica all'Ovest, dal momento che non aveva più un ruolo tra i blocchi.

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3. NAZIONALISMO E FONDAZIONE DEGLI STATI

All'interno della Jugoslavia la crisi e il crollo dello Stato unitario si intravedevano già nel dibattito della metà degli anni '80. I nazionalisti serbi furono i primi che, al crollo dello Stato federale, tentarono di mantenere la propria influenza con l'intervento in tutte le zone abitate dai Serbi (Grande Serbia). Essi "scoprirono" l' "identità" serba nella battaglia di Amselfeld (che oggi si trova nel Kossovo ed è abitata principalmente da Albanesi), 600 anni fa, quando nonostante "eroiche" battaglie i Serbi furono sconfitti dai Turchi. Non pochi nazionalisti serbi speravano all'inizio di trovare un riconoscimento in Europa occidentale come "baluardo contro l'islam". Per assicurarsi queste pretese di potere, nel 1988, in contraddizione con la costituzione jugoslava del 1974, venne soppressa l'autonomia della minoranza ungherese nella provincia della Vojvodina e di quella albanese nel Kossovo. In reazione i nazionalisti in Slovenia e in Croazia, le cui "maggioranze etniche" non facevano parte delle minoranze svantaggiate in Jugoslavia, iniziarono a sollevare proprie pretese di potere. Nazionalisti sloveni e croati "scoprirono" che i serbi sono "slavi dei Balcani" e quindi dei barbari, mentre loro sono cattolici, europei e civilizzati e solo lo "jugo-comunismo" aveva impedito loro la riunificazione con l'Europa. Con un certo ritardo anche i musulmani in Bosnia iniziarono a scoprire la loro identità panislamica. Il nazionalismo è diventato in tutte le repubbliche jugoslave il principale strumento di mobilitazione per salvaguardare e legittimare il dominio politico e sociale minacciato nel processo di crollo dell'economia. Le repubbliche definirono le proprie rivendicazioni, per assegnare quanto più territorio possibile al proprio futuro Stato, e allo stesso tempo vennero le idee di Grande Serbia, Grande Croazia e simili Grandi soluzioni, vennero intrecciate con i miti e con le pretese "naturali" e "storiche".

La Slovenia che ha avuto un ruolo particolarmente significativo ed è "omogenea" dal punto di vista etnico, perché non ha problemi di minoranze, pretendeva una posizione economica forte per la propria repubblica all'interno della Jugoslavia. La Slovenia, la cui popolazione, circa l'8% di quella totale, era in grado di produrre circa il 30% del PIL della Jugoslavia (ma perché lo Stato centrale le permetteva l'accesso a tutte le risorse del paese), il cui utile netto è a livelli doppi del Kossovo, la Slovenia in cui gli albanesi avevano la funzione di "Gastarbeiter" discriminati e con pessimi salari, rifiutò al Fondo federale jugoslavo la quota usuale dei profitti per la perequazione finanziaria tra le repubbliche. La Slovenia non voleva più contribuire al finanziamento degli "ospizi per poveri" nel Sud (Macedonia, Kossovo).

La Grande Croazia pretendeva quanto meno la parte bosniaca delle repubblica della Bosnia-Erzegovina (Tudjman parlava nel giugno 1990 del "ripristino dei confini naturali e storici della Croazia": "Non bisogna essere uno storico per riconoscere che la Bosnia forma con la Croazia un'unità geopolitica"). I nazionalisti croati scoprirono di essere "discriminati" nelle funzioni dirigenti statali e cacciarono massicciamente i serbi dai posti di lavoro. Si può definire questo processo anche diversamente: nelle singole repubbliche le nuove élite premevano per il potere: ex capi di partito, manager di industrie, capi clan, cercavano di impadronirsi sotto le repubbliche di quello che fino ad allora era proprietà federale.

Dall'esterno questo sviluppo è stato accompagnato da misure politiche che avrebbero dovuto facilitare la secessione. I principali stati CEE, trainati dalla RFT, avevano formulato nella Carta KSZE di Parigi del novembre 1990 le loro condizioni per l'accettazione nella comunità occidentale di nuovi Stati che emergessero dalle rovine del realsocialismo: economia di mercato e democrazia parlamentare. Prontamente le élite del potere slovene e croate, nazionaliste ed ex-comuniste si trasformano in altrettante democrazie: in quasi tutte le repubbliche vengono fondati partiti nazionalisti e fascisti (dei 160 nuovi partiti nati in Jugoslavia dal 1990, più del 90% ha queste caratteristiche), i nazionalisti hanno vinto le loro battaglie elettorali ed hanno ricevuto il segnale dall'occidente: siete i benvenuti. Visto che i custodi occidentali della democrazia danno valore alle regole, i diritti delle minoranze dovevano essere garantiti. Questo risultò particolarmente difficile ai nazionalisti ed ai fascisti della Croazia. Per questo la loro costituzione è stata scritta a Bonn da esperti dei diritti umani.

La guerra in Slovenia è iniziata nel giugno del 1991 quando la repubblica ha dichiarato la propria indipendenza, ha apposto i propri cartelli indicatori ai confini ed ha fatto confluire le tasse nelle proprie casse statali. Dopo un intervento breve, ma violento, e una controffensiva slovena, l'esercito federale jugoslavo ha dato per persa la repubblica. La guerra che tutti si aspettavano incominciò in Croazia quando il 18% dei Serbi che vi risiedevano, furono dichiarati minoranza invece che maggioranza etnica formante una nazionalità. Visto che questi Serbi si ricordavano delle spedizioni di sterminio degli Ustascia contro i loro compatrioti durante la seconda guerra mondiale, era inevitabile la proclamazione di un proprio stato serbo. Il quale a sua volta non viene riconosciuto, ma rifiutato in quanto "autoproclamato" (e come altrimenti?). E' in questo momento che la formula del "diritto di autodeterminazione" viene smascherata come assurdità. L'inizio del grande movimento di fuga attraverso le repubbliche jugoslave lo diedero del resto i 40.000 serbi che vivevano in Croazia, che ne fuggirono subito dopo la dichiarazione di indipendenza.

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4. DIRITTO ALL'AUTODETERMINAZIONE COME SLOGAN DI GUERRA

Nel momento in cui la CEE, e soprattutto la RFT, cominciò a parlare di riconoscimento delle repubbliche che si erano separate dalla federazione jugoslava, si innescò un meccanismo obbligato: uno Stato deve definire i propri confini e la propria maggioranza etnica., di conseguenza il "diritto all'autodeterminazione" doveva valere in Croazia per la nazionalità di maggioranza, ma non per quella di minoranza. E dal momento che quest'ultima non accettò, è stata guerra per il territorio sul quale serbi e croati abitavano insieme. I confini dello stato nazionale, diversamente che nella mitologia nazionalistica, non sono mai "naturali", bensì sono sempre la conseguenza di processi più o meno violenti. Sulla definizione dei confini decidono sempre gli eserciti che una maggioranza etnica riesce a mobilitare. Dapprincipio i serbi erano superiori e dopo violente battaglie riuscirono ad occupare la maggior parte delle zone abitate dai serbi (anche dove i serbi erano in minoranza). Alla fine delle battaglie i confini vengono regolati per trattato oppure vengono cambiati in seguito ad altre battaglie. Le invettive della RFT contro i serbi non erano indirizzate contro questa guerra, ma solo contro il fatto che i serbi erano i più forti. La politica della Germania federale di pressione internazionale era indirizzata soprattutto ad indebolire la posizione della Serbia e ad isolarla internazionalmente.

La responsabilità principale per il processo di disgregazione violenta della Jugoslavia sta soprattutto nelle forzature esterne per una definizione dei nuovi Stati. In questo senso la Germania ha influito sulla guerra dei riconoscimenti più di tutti gli altri paesi, con l'obiettivo di disgregare la Jugoslavia e di dimostrare l'impossibilità della coabitazione di serbi, croati, bosniaci, ecc. Il carattere criminale di questa politica si è evidenziato poi, come da un anno prevedevano i politici più scaltri, in Bosnia-Erzegovina. Voler trasformare in una nazione questa repubblica in cui risiedono musulmani, serbi e croati in rapporto 40:30:20 (anche se questo paese è di fatto abitato da una popolazione mista), confina con la follia dell'omogeneizzazione etnica, visto che i nazionalisti serbi e croati avevano espresso senz'ombra di dubbio la loro appartenenza alle rispettive patrie. Che questa guerra sia particolarmente crudele e sfavorevole a quelli militarmente più deboli (i musulmani) è tutto fuorché sorprendente. Persino ad uno dei fautori della disgregazione della Jugoslavia, Victor Meier del FAZ [giornale tedesco - ndr], sono balenate per un breve minuto le conseguenze: "Probabilmente il referendum proposto dalla CEE come condizione per il riconoscimento dell'indipendenza bosniaca non è stato il massimo della saggezza; perché sul futuro del paese non si può decidere che con il consenso dei tre principali gruppi etnici, di modo che nessuno si debba sentire la maggioranza". (4.3.92). Ma dal momento che i serbi boicottarono il referendum, divennero i responsabili della carneficina in corso. La politica di "purificazione etnica" del territorio di volta in volta conquistato dai nazionalisti serbi, croati e bosniaci (che adesso viene criticata con particolare riprovazione) iniziò proprio per la pressione a formare uno stato bosniaco. L' "eroe della Croazia", il Ministro federale degli esteri tedesco Genscher, aveva imposto agli altri Ministri degli Esteri della CEE il riconoscimento della Bosnia-Erzegovina con l'argomentazione che questo riconoscimento avrebbe favorito la stabilizzazione. E' una prova della spudoratezza della politica di grande potenza della Germania, che questo nuovo passo diretto contro la Jugoslavia serba sia stato deciso proprio il 6 Aprile 1992, il 51° anniversario del bombardamento nazista di Belgrado con cui cominciò l'occupazione tedesca dei Balcani.

Una formula governativa di moda per giustificare la politica tedesca verso la Jugoslavia dice che la Germania ha "una particolare responsabilità" nella protezione delle minoranze (il che non vale per la politica interna, come si è visto a Rostock), perché essa con la propria riunificazione ha sperimentato i benefici del "diritto all'autodeterminazione". Questa argomentazione trascura un piccolo particolare: il diritto all'autodeterminazione per quanto riguarda la Germania ha creato una nuova grande potenza, nel caso della ex Unione Sovietica e della Jugoslavia serve invece al contrario ad indebolire con le secessioni potenze grandi e centralizzate, al fine di renderle dominabili.

All'interno della CEE e in contraddizione con gli USA la politica estera tedesca è stata la forza trainante della disgregazione della Jugoslavia. I partner CEE, l'ONU o gli USA bloccarono iniziative autonome troppo decise della RFT e si sono sempre sforzati, questo vale soprattutto per la Francia, di vincolare la Germania al consenso CEE. Dato però che la politica tedesca iniziava a pensare sulla base del proprio ruolo di grande potenza, questo si trasformò in un circolo vizioso e in un vincolo per la CEE nei propri piani ed in un intralcio continuo degli sforzi di mediazione CEE degli inglesi (obiettivo dell'odio: il mediatore conservativo Lord Carrington), dei Paesi Bassi e di Mitterand (e della sua tattica di frenare creando legami). Il fatto che non sia andata in porto nessuna mediazione, è stato poi usato per dimostrare l'inutilità di simili approcci con "i serbi", che non capiscono altro che "il linguaggio della violenza".

"Gli spaventosi avvenimenti in Jugoslavia vengono anche usati come palcoscenico, ma sul palco viene recitata una commedia completamente diversa. La politica estera tedesca si trova davanti alla domanda: che importanza ha il crescente peso della Germania? E così la Jugoslavia è diventato un banco di prova. Il riconoscimento accelerato dei nuovi Stati era il tentativo di provare la capacità tedesca di imporsi all'interno dei dodici paesi CEE...", così l'ex ambasciatore RFT in Jugoslavia, Horst Grabert (Wochenpost, 30.7.92).

Noi non vogliamo dire l'opposto rispetto alla formazione dei nazionalismi in Jugoslavia e cioè che se la RFT non avesse forzato, tutto si sarebbe risolto pacificamente. Comunque in nessun momento è esistita un'alternativa alla mediazione estera tra le élite delle repubbliche se non quella della guerra . Ma la prima era osteggiata dalla politica tedesca. E' di Genscher l'appello bellico a favore della resistenza armata dei Croati: "Ogni colpo di fucile avvicina l'indipendenza statale della Croazia".

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5. LA POLITICA DI GRANDE POTENZA DELLA GERMANIA

La politica tedesca ha sempre affermato di aver sempre e solo reagito con le proprie iniziative all'inasprimento della crisi jugoslava ad opera della Serbia. Del resto fino al giugno 1991 si è spinto, in accordo con la CEE, per un riordinamento della Jugoslavia. Però le "fabbriche del pensiero" del nuovo orientamento tedesco puntavano già da molto alla disgregazione.

Diversi mass-media della RFT hanno scatenato una campagna di opinione senza precedenti, hanno accusato la CEE e l'ONU di esitazione e di egoismo per i loro fallimenti in Jugoslavia e di sbarrare la strada alle soluzioni offerte dalla politica estera tedesca. Devono essere particolarmente ricordati gli odiatori dei serbi del FAZ - Reißmüller e Victor Meier - e quelli del TAZ -Rathfelder, Hofwiler e Semler -, che, senza soluzione di continuità, riforniscono di munizioni da 18 mesi le "élite tedesche" a loro gradite, di destra come di sinistra , con una faziosità che mozza il respiro.

I motivi per cui la politica estera tedesca è stata più lenta dei suoi opinion maker sono comprensibili da chiunque: la Germania si trova a dover definire un nuovo orientamento strategico, deve prestare attenzione ai partner occidentali e deve prima mettere al riparo il raccolto della riunificazione. Queste parole di Genscher: "E' che noi in nessun momento abbiamo dimenticato che abbiamo riconquistato la nostra piena sovranità solo con la ratifica del trattato due-più-quattro nel Soviet Supremo e con la consegna dell'atto di ratifica il 15 marzo 1991" (ZEIT 30.8.91), non dovrebbe essere dimenticate per quanto riguarda la riservatezza tedesca in politica estera. Fino a quando, nel giugno 1991, si decise ufficialmente la propaganda di un nuovo corso in Jugoslavia, vennero organizzate, ovvero tollerate consapevolmente, altre strade di influenza della RFT.

Nell'aprile 1991 (quindi prima della dichiarazione di indipendenza e degli scontri militari in giugno) il Presidente sloveno Kucan è stato ricevuto per colloqui economici dal Land Baden-Württemberg. La Paneuropa-Union dell'eurodeputato del CDU Otto von Habsburg (un amico di Tudjman) si è attivata in Slovenia e in Croazia con sforzi incredibili per costruire una lobby nel Parlamento europeo. La "società di interesse collettivo per i popoli minacciati" di Göttingen, che viene citata da mesi dal FAZ come fonte di informazione, ha svolto iniziative a favore dei croati ed anti-serbe. Questa società lavora a sua volta con quella "tedesco-croata" dell'ex "corrispondente dello Spiegel a Belgrado" Hans Peter Rullmann. Rullmann, che scrive per fogli di estrema destra come "Europa vorn" [Europa avanti ndt], collabora con la sua società con esuli croati nella RFT, tra i quali non pochi successori degli Ustascia. Coinvolti in questa collaborazione sono pure la "società culturale croata", la "missione cattolica croata" e la rappresentanza RFT della "Unione democratica croata" del Partito di Tudjman, HDZ. Queste associazioni incassano inoltre le donazioni dei lavoratori croati nella RFT.

Anche lo "Schiller Institut" del fascista EAP è entrato nella mischia con roboanti dichiarazioni contro la Serbia e ha presentato Redner nelle manifestazioni di solidarietà pro-croate in RFT. Non bisogna dimenticare poi l'azione dei mercenari dei gruppi neonazisti tedeschi nelle unioni croate degli Ustascia, che poi trasmettono ai loro compari nazisti la propria esperienza di guerra, come insegna Rostock.

"L'intero mondo ex-comunista si rivolge - con il cappello in mano - soprattutto ai tedeschi. La Germania possiede la chiave dell'Unione monetaria della Comunità. Dispone delle più grandi risorse del continente. Se questa condizione e questa forza internazionale in crescita, relativamente alla debolezza degli altri porterà ad una vera egemonia tedesca diretta soprattutto verso l'Est, nel breve o nel lungo periodo, dipende dalla capacità dell'Europa occidentale di vincolare i tedeschi in un'unione politica ed economica solida... Se però la Comunità europea fallisce in questo,... potrebbe sorgere in Europa una zona di ampia egemonia tedesca e la Germania vincerebbe grazie alla sua forza economica quella guerra che aveva perso con le armi nel 1945". Questo lo ha scritto "La Stampa" di Torino nel novembre del 1991 rispetto alla nuova politica della Germania nei confronti dell'Est.

Mentre all'estero il ruolo della nuova Grande Germania viene visto con preoccupazione per motivi di concorrenza, qui, al contrario, non è oggetto di discussione neppure nella sinistra. Il dibattito sulla capitale nel giugno 1991 diventò il simbolo del nuovo orientamento tedesco. Willy Brandt si è espresso così in Parlamento: "La Germania non rimane l'Est dell'Ovest, ma diventa il nuovo centro dell'Europa. Berlino si trova in buona posizione, rispetto ai due binari: Nord-Sud, Ovest-Est". "Pensare partendo da Berlino" è la massima della nuova politica estera tedesca.

Viene posta continuamente la questione della razionalità della nuova politica estera tedesca. Il più delle volte questa razionalità viene indicata nei proventi economici all'Est; che però fino ad oggi sono stati magri. Per alcuni questa è una prova che la politica tedesca di grande potenza non è andata ancora molto avanti, altri cercano disperatamente, e a nostro parere incoerentemente, dei dati che possano confutarlo. Cercheremo di porre sul tavolo del dibattito alcune tesi sugli obiettivi dello sviluppo della politica di grande potenza della RFT, cercando di separare l'irrazionale dal razionale.

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6. TESI SULLA POLITICA ESTERA TEDESCA

1) Che vi sia una razionalità economica nella politica tedesca rispetto alla Jugoslavia è tutto da discutere. Le ambizioni economiche nel breve periodo negli Stati successori della Jugoslavia non giustificano il dispendio di mezzi con cui la Germania si impone, come grande potenza, quale fattore dell'ordine in Jugoslavia. Se l'attuale politica tedesca fosse economicamente razionale, l'intervento per la conquista di spazi e di zone di influenza corrisponderebbe piuttosto allo scenario di una terza guerra mondiale. L'economia della Germania federale si basa però su strutture di espansione economica in tempi pacifici. La logica della guerra si scontra nel conflitto in Jugoslavia con la logica dell'economia (non apertamente guerrafondaia). Quello che la guerra si lascia dietro sono gli inizi incerti di un'economia nazionale nei nuovi Stati ancora da costruire e la distruzione delle infrastrutture, che sono più la base di un'economia di guerra e di razionamento piuttosto che di quella che viene chiamata libera economia di mercato e cioè condizioni favorevoli agli investimenti per chi offre capitali. Questa situazione non cambierà per molto tempo. Neppure la speranza del ministro dell'economia sloveno Muncinger che "la guerra potrebbe offrire la possibilità di porre la struttura economica su basi moderne, come in Germania dopo la seconda guerra mondiale" (Süddeutsche Zeitung, 11.11.91), non si è realizzata nella sua repubblica che pure è quella più forte. L'interesse del capitale non si interessa di simili timorati desideri, ma di condizioni che offrano la possibilità di un abbondante ritorno economico.

Attualmente questa esperienza la devono fare tutti gli "economisti di mercato" negli Stati successori dell'URSS. Nel suo ultimo memorandum rispetto alla situazione della CSI, il BDI (Unione federale dell'industria tedesca) giunge alla conclusione che il processo di disgregazione economica nella CSI durerà ancora per molto tempo. "Il mercato di sbocco della CSI e soprattutto della Russia non verrà stabilizzato entro breve tempo attraverso misure dall'esterno" (FAZ, 11.8.92). "Con l'eccezione della Russia bianca, del Kazakistan e dell'Ucraina, tutti gli Stati successori dell'URSS sarebbero da considerare dei paesi in via di sviluppo e dovrebbero essere trattati di conseguenza dalla politica di promozione economica tedesca" (FR. 7.8.92). Qualcosa di simile dovrebbe accadere alla fine della guerra nei Balcani per gli Stati successori della Jugoslavia.

2) Nel lungo periodo le finalità economica nella nuova avanzata tedesca nell'Europa orientale sono sicuramente la forza trainante dell'agire attuale. Se però ci si può contare, visto l'incerto sviluppo dell'economia mondiale, lo sanno solo le stelle. Verosimilmente la politica attuale viene spinta dalla stessa logica che fece dire ad Hans Kehrl, funzionario del ministero dell'economia, il 9.9.1940: "Il grande spazio europeo! Quanto grande sarà in realtà il grande spazio europeo, non si riesce adesso ancora a vedere. Anche questo lo determinerà il Führer quando si concluderà la pace. Ma quanto si possa estendere politicamente lo spazio, non è determinante. Che si estenderà economicamente in modo consistente, questo è invece sicuro".

Nel breve periodo si tratta però soprattutto di assicurare delle opzioni per il dominio tedesco e il controllo politico dell'Est da due punti di vista. Da un lato l'assicurazione della riproduzione del capitale non richiede solo la penetrazione capitalistica nelle zone non ancora completamente integrate nel mercato mondiale, ma anche il loro controllo politico. Questo significa dall'altro lato la sicurezza del benessere tedesco/europeo contro le minacce esterne dal Sud (islam) e dall'Est. Ancora nessuno può predire se nell'ex Unione Sovietica e nella sua situazione assolutamente catastrofica si formeranno dei nuovi movimenti - fascisti oppure rivoluzionari (?) - che dovranno essere allontanati, in quanto potenziali minacce all'imperialismo europeo. Evidentemente la RFT lavora ad un "cordone di sicurezza" di Stati politicamente ed economicamente indipendenti, dal Baltico ai Balcani, con lo scopo di fornire una difesa verso potenziali pericoli.

3) Il nuovo ruolo della Germania in Europa viene descritto come segue da "Le Monde diplomatique": "La determinazione politica (della CEE) era in qualche modo un affare della Francia; la Germania costituiva il motore economico. Questo edificio è in pericolo. La Germania, che conta oggi 80 milioni di abitanti, non ha più alcun nemico all'Est. Per la Germania è finita l'era del dopo-guerra e con essa anche la sua sottomissione politica. I suoi obiettivi economici sono posti talmente in alto - nonostante il costo della riunificazione - che persino il franco francese diventa un ostaggio nell'area del marco". (1/92). Dal punto di vista politico la RFT, con il suo ruolo di apripista rispetto alla Jugoslavia, ha tentato il grande balzo in avanti, da semplice "gigante economico" a gigante politico, abbandonando così il ruolo di "nano", già criticato anche da Strauß. Con le parole dello stratega di politica estera del CDU, Lamer: "La Germania non deve più trovarsi frapposta tra Ovest ed Est, altrimenti giocherà sempre la parte di una tranquilla Europa centrale; per questo bisogna rendere l'Est una parte dell'Ovest" (FAZ, 25.4.92). L'orientamento ad Est della RFT sulla base della sua posizione di supremazia nella CEE, avrà come conseguenza una nuova disposizione in gruppi all'interno della CEE determinata molto più che in passato dalla Germania, e ai danni dei concorrenti Francia e Gran Bretagna e dell'influenza USA. Così in futuro i conflitti interimperialisti potrebbero rivestire dimensioni completamente nuove rispetto al tempo in cui c'era il blocco della concorrenza.

4) Per la Germania la necessità di recupero è maggiore dal punto di vista militare. A partire dal dibattito circa la partecipazione di soldati tedeschi alla guerra nel Golfo la strada imboccata è comunque quella di un'esercito europeo (Euro-Korp) controllato da Francia e Germania. I contrasti all'interno della CEE rispetto alla questione jugoslava erano la lotta tedesca per il potere nella futuro riordino dell'Europa orientale e la percezione della necessità di un "monopolio della violenza europeo". La strada che sta percorrendo la nuova politica tedesca di grande potenza è militare ed "europea". Certo non può essere messo in discussione il dominio militare degli USA, ma esso deve essere indebolito. Lo strumento politico di dominio deve essere il KSZE quale sottosezione dell'ONU, un "Consiglio di Sicurezza" europeo sotto la direzione di un nucleo CEE e una egemonia tedesca. L'Euro-Korp e l'esercito europeo si trovano ancora ad uno stato embrionale. La loro sfera d'azione, con l'obiettivo di contenere il predominio USA sulla NATO, sarà da una parte comune a quella NATO, dall'altra riguarderà le situazioni in cui "la NATO non può agire o non vuole agire" (Ispettore Generale Neumann). "Non vuole agire..." allude alle situazioni in cui gli interessi tedeschi e quelli USA non sono complementari. Lo sviluppo reale è già molto più avanti della dibattito del movimento pacifista. Tra il SPD, il CDU e il FDP lo scontro non riguarda i caschi blu dell'ONU, bensì il vincolare truppe tedesche internazionali a strutture di potere esistenti (è la posizione di SPD e FDP; leggi: ONU) oppure a nuove strutture di potere con maggiore autonomia (parte di CSDU e di CSU; leggi: Europa). Il "se" non è proprio più messo in questione dal punto di vista politico. Obiettivo del dibattito CDU-CSU è quindi "di vincolare l'intervento dell'esercito federale nelle unità di pace non alle Nazioni Unite ma all'approvazione della CEE" (Lamers). Perché, così la giustificazione demagogica, l'affidabilità del partner europeo, sarebbe più facilmente verificabile di quella delle Nazioni Unite. Al massimo nel 1995 la RFT avrà raggiunto anche militarmente una propria piena "sovranità": quando sarà stato completato il ritiro delle truppe sovietiche. A questo seguirà il passo successivo della lotta per il potere militare e nucleare della Germania sotto la veste dell'europeizzazione.

Settembre 1992

Gruppe K, Gruppe Steinerne Herzen, Vorbereitungsgruppe Weltrevolution
V.i.S.d.P. Max Stein, c/o Büro K, Karolinenstraße 21 - Haus 2, 2000 Amburgo 36

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