CONTROINFORMAZIONE INTERNAZIONALE INEDITI

DICHIARAZIONE DI EVA HAULE

del 25 aprile 92

Ho scritto questa lettera per Amburgo il 9.4, senza accennare alle conseguenze concrete della politica della RAF. Non ho voluto farlo perché questo è un'affare solo dei compagni fuori.

Ho cercato di indicare i passaggi fondamentali, come vediamo oggi la situazione ed il processo necessario e possibile. Mi sono espressa in termini generali e da questo ci sarà da discutere ancora molto e in modo concreto.

Il passo fatto dalla RAF ne è la giusta conseguenza, anche se nel testo non viene quasi per niente motivata e trasmessa politicamente.

Per questo voglio riassumere qui la discussione che abbiamo avuto noi prigionieri.

E' centrale in tutta la nostra storia:
l'azione della RAF era determinata all'interno di un concreto progetto globale ed era la rappresentazione di un obiettivo del processo rivoluzionario per stimolarlo.

Quella che Lutz giustamente ha chiamato la "prospettiva centrale", che si era formata storicamente dallo sviluppo della lotta di liberazione nella guerra di classe internazionale, all'interno di questa l'intervento armato qui, la guerriglia come posizione offensiva nella metropoli.
Appunto anche la prospettiva trasmessa da ogni azione. Questo è stato quello che abbiamo fatto dal 1970.

Se questo è stato capito e trovato giusto non è adesso il punto, questo è un tema a sè.
Per noi era così, e così è stato capito da tutti quelli con i quali avevamo rapporti qui e a livello internazionale.
Da molto tempo ci è altresì chiaro che è impossibile la prosecuzione lineare di questi passi.
Questa è una parte della motivazione di questo passo adesso.

Come per tutta la sinistra militante, anche per noi si tratta di trovare un nuovo orientamento e di organizzarci. Non in un astratto ambito ideologico oppure come posizione da parolai, bensì chiarificando in modo radicale le conseguenze dei capovolgimenti globali e combattere per nuove determinazioni e prospettive strategiche, per nuovi progetti di una politica mutata. Che si tratta di iniziare questo processo politico, nel quale bisogna anche chiarire nuovamente e determinare anche la domanda degli strumenti di una politica rivoluzionaria e del loro uso, questo è stato il punto di partenza per noi prigionieri dal 1988.

"Un processo aperto" abbiamo detto, preteso dalla situazione generale e che anche noi, dalla nostra storia, possiamo incominciare.

Il secondo aspetto per noi è che i problemi, che devono essere risolti, sono così tanti, così concreti e così inaspriti che l'azione armata, così com'era per 22 anni, non può più svolgere una (strategica) funzione globale per il processo rivoluzionario.

La realtà per tutti quelli che continuano a combattere per dei cambiamenti lo dimostra ogni giorno.
Non c'è più quella "linea centrale" in una tappa da definire concretamente, che determina lo scontro globale tra l'imperialismo e la rivoluzione, come ad esempio c'era negli anni '60, e non eravamo solo noi ad intenderla così.
Oggi sono urgentemente necessarie, in diversi "ambiti", "complessità di problemi", lotte ugualmente radicali e questo si esprime già in pratica là dove si sviluppa resistenza.

Nel lavoro internazionalistico, nella lotta per la casa e per gli spazi, nei gruppi antifascisti, nella lotta contro la politica estera dello Stato e contro il nuovo interventismo degli Stati imperialisti, nella lotta contro l'annientamento dell'ambiente, nella lotta nelle carceri.
E questo di fronte ad una realtà sociale ed internazionale che è caratterizzata dalla caduta delle strutture sociali e politiche, da sviluppi reazionari fortemente fomentati dall'alto, brutalizzazione e violenza come 'normalità'.

Ed ogni inizio di soluzioni sensate per le masse degli oppressi e degli emarginati viene bloccato con ogni mezzo dall'alto.

Come abbiamo detto: il lungo processo distruttivo è diventato determinante e questo significa sostanzialmente anche che il senso della politica, la politica stessa, viene soffocata. Diciamo che in una simile situazione ricade sui militanti politici una particolare responsabilità.

Se dall'alto la politica viene sostituita dalla guerra e se la violenza si diffonde sempre di più nei rapporti e nelle strutture sociali (mondiali), noi dobbiamo tanto più combattere affinché i contrasti vengano trattati in maniera politicamente determinata e che vengano rese possibili sviluppi produttivi, verso questo deve essere orientato l'utilizzo dei mezzi.

Questo significa anche che la radicalità nella politica, che è urgentemente necessaria in tutti gli ambiti, deve giungere a nuovi contenuti e a nuove forme nei processi interni alla società e internazionali per conquistare vie per delle soluzioni e per impedire che il processo distruttivo estingua la politica - anche quella delle forze rivoluzionarie.

Noi l'intendiamo così e speriamo davvero che i militanti ovunque lo comprendano anche - che dopo 22 anni e tutto quello che è stato conquistato e non solo da noi, sia chiaro: contropotere rivoluzionario è un mezzo della politica, che è a disposizione di noi tutti della sinistra radicale, che è sovrano e determinato politicamente e che può essere utilizzato in modo mirato.

Appunto non un sostituto della politica, non l'espressione della mancanza di obiettivi e di parole, dove la radicalità viene trasmessa solo nella forma, ma non nei contenuti e nelle prospettive, non semplicemente 'ficcata dentro' dove può essere ficcata dentro, ma: strumento di una politica rivoluzionaria che deve essere sviluppato in modo nuovo in una nuova situazione del processo che ci troviamo di fronte e che dobbiamo affrontare insieme.

E' nostra responsabilità e anche nostra libertà.

Il pericolo è estremamente reale e già evidente ovunque, che nell'escalation generale dalle condizioni oggettive - della politica imperialista, così come degli sviluppi sociali e internazionali - la politica viene polverizzata in piena regola e i contrasti non vengono più determinati e controllati politicamente, ma esclusivamente dall'espolosione delle contraddizioni.

E qui sta la domanda, quale determinazione politica dello sviluppo verrà resa possibile, come verranno introdotti dei processi che possano dare un orientamento, che possano introdurre nuovi riferimenti e così nuovi sviluppi nei contrasti.

Questo è uno dei contenuti dei passi [fatti dalla] della RAF e anche delle nostre iniziative in quanto prigionieri dal 1988.

C'è la contraddizione e non è affatto appianata e neppure da risolvere teoricamente: che ci troviamo di fronte alla tendenza di soluzioni fasciste dall'alto - e questo giustificherebbe costantemente l'aggressione armata in 'risposta'. Bisogna decidersi. Adesso che cos'è più importante? Che cosa ci porta avanti e porta avanti l'intero processo politico?

Siamo in una fase di passaggio, non ci possono più essere [nelle forme attuali] le vecchie determinazioni e i riferimenti per il processo rivoluzionario, bisogna svilupparne di nuove in un processo che deve essere affrontato in modo totalmente diverso che fino ad oggi in modo vincolante per tutti qui e internazionalmente a partire dalla situazione globale.

Dappertutto ci sono uomini che lo vogliono, che se lo smembramento e la frammentazione dei rapporti politici sono grandi, ma questo si spiega con la situazione complessiva e non è un motivo per ritirarsi, rassegnazione e miti di superiorità. Chi abbandona la lotta per questo processo, e questo vuol dire soprattutto adesso anche la lotta per nuovi rapporti tra tutti quelli che vogliono continuare a lottare per dei cambiamenti, tradisce se stesso.

E' quindi la questione, di come decideremo - concretamente noi, i prigionieri e la RAF - per iniziare su una questione e un confronto concreto ad affermare una soluzione produttiva e ad aprirle uno spazio.

Vogliamo conquistarlo in relazione alla storia di 22 anni di strategia di annientamento contro i prigionieri, alla storia politica della lotta in quest'epoca e con un orientamento in avanti, che sottosta alla lotta per questa soluzione: la nostra libertà - nel centro di una prospettiva politica per tutti gli scontri.

Che cos'è quindi più importante:
in una fase di cambiamento, 'mantenere' praticamente nelle azioni la 'posizione armata', oppure metterla da parte in questa fase e in questo modo aprire alla questione dei prigionieri una strada per la nostra vita e la nostra partecipazione immediata al processo politico.

Noi abbiamo deciso per la seconda.
Come detto, non senza contraddizioni. Ma noi siamo abbastanza forti per questo dalla nostra storia dentro e fuori [dal carcere].

Quanto avanti andremo dipende se e come riesce di costruire una mobilitazione attraverso la quale ottenere in un processo comune tra noi e le situazioni sociali e politiche fuori (che non agiscono nell'interesse della repressione), che allo Stato venga tolta di mano la determinazione dello sviluppo di questo scontro.

Questa è anche una domanda a tutti quelli fuori il cui interesse è anche che questo scontro venga condotto politicamente - coerentemente alla storia e ai loro prigionieri - e che venga rotta strategia di annientamento contro i prigionieri che continua da 22 anni.

Bisogna arrivare al punto che lo Stato non decida da solo, non possa determinare lo sviluppo - come [invece adesso] passa sopra alle teste e agli interessi degli uomini dappertutto.

E che adesso non può tentare un'altra via (che fallirebbe come tutte le altre) per riuscire nel nostro annientamento, facendoci passare attraverso la macina della giustizia e come dovrebbe essere liquidata ad arte la nostra storia, sia quella politica che quella di tutti questi anni di isolamento. E questo è invece proprio lo scopo dell'"iniziativa KGT".

Un'espressione più precisa della non-politica statale, che non vuole altro che calpestare e depoliticizzare tutto quello che non si sottomette ai suoi interessi, e che è solamente irrazionale nei confronti dei conflitti reali, delle loro cause e delle possibili soluzioni sensate.
La sua unica "razionalità" è quella dell'annientamento.

E' così in tutti gli scontri ed invece devono essere portate avanti delle lotte per altri sviluppi.

Nel dibattito tra noi prigionieri dal 1987, quando incominciò ad abbozzarsi che ci trovavamo di fronte ad una nuova situazione storica rispetto ad ogni rapporto, da allora ci è stato chiaro, che dovevamo continuare a combattere in modo diverso, e naturalmente intendiamo anche all'interno del carcere in quanto RAF.
(quando qui parlo di 'dibattito tra noi', tutti devono avere ben chiaro in mente quanto questo sia limitato a causa delle nostre condizioni!).

Questo ha a che fare per lo meno con gli errori che abbiamo fatto in passato; anche se oggi ci rendiamo conto che per tutti gli anni '80 ci siamo concentrati troppo poco sul lavoro politico, sul processo politico. Di questo ci sarà ancora da parlare - e veramente, sul contenuto.

Ma questo non è il punto principale.
Noi prigionieri all'inizio non avevamo capito che dovevamo proseguire le determinazioni della nostra politica, così come erano delineate dal 1970, e trasmetterle semplicemente meglio, che dovevamo 'convincere' meglio la gente.

E non si trattava neppure [di definire/stabilire] in che modo qui possa trasformarsi in qualcosa d'altro la guerriglia, qualcosa che nessuno oggi può dire veramente cosa deve essere nella concezione e nella strategia.

"Arma dei movimenti sociali", "movimenti", che non esistono più e che rinasceranno negli scontri attuali.

"Mezzo estremo della resistenza", oppure le vecchie determinazioni più un allargato raggio d'azione, come ad esempio l'intervento nella lotta per la casa, il che oggi non va, perché questo oggi non può trasmettere alcuna prospettiva e salta oltre il processo politico, che può invece essere sviluppato solo insieme.

Quindi: tutto questo no. Questo non siamo noi. E le azioni armate non sono un "campo sperimentale".

Era chiaro: si tratta, a partire da tutta la nostra storia politica e da tutto il gruppo dei prigionieri, di un taglio.

Così nel 1989 abbiamo iniziato lo sciopero.

Se fossero stati ottenuti il raggruppamento e la libera comunicazione, questo avrebbe già significato all'epoca l'abbandono delle azioni dei commandos, perché nel dibattito che noi volevamo nel 1989, doveva trattarsi di nuove basi comuni per l'intero movimento rivoluzionario! Tutto questo comprende la priorità del processo politico e che questo è aperto ad una chiarificazione accurata di tutte le domande.

Questo significa anche, che una frazione della sinistra rivoluzionaria- in questo caso la RAF - pone da sola le basi, che dal suo livello [/grado di sviluppo], semplicemente già dalla qualità degli attacchi, determinano il carattere e lo svolgimento dello scontro. E questo senza poter trasmettere una prospettiva strategica.

Questo è quello che ci sta più a cuore, e lo diciamo perché noi stessi ci siamo bruciati.

La nostra politica e la nostra pratica non possono essere semplicemente una "reazione", un fare i conti con i responsabili per i misfatti dell'imperialismo, non possono essere una semplice espressione della propria situazione e delle proprie emozioni e da ciò "rispondere ai colpi" - cosa che sarebbe mille volte giustificata ogni giorno, ma non è questa una politica e comunque per niente quella della guerriglia. Quando noi stessi ci siamo immessi in questo vicolo cieco, è stato il nostro peggior errore (ad esempio l'uccisione del GI nel 1985).

Se la determinazione politica e strategica dell'azione armata non sono centrali e non vengono trasmesse, muore la politica. Questo vale oggi più che mai.

Qualcuno di Berlino mi ha appena scritto che la decisione della RAF e quello che ne hanno detto i prigionieri, hanno fatto nascere in alcune persone "sentimenti di impotenza e di sconfitta" e che vedono tutto "crollare". Questo io me lo posso spiegare da un lato con la situazione all'interno della sinistra e perché so che qui da noi [il rapporto che molti avevano] con la RAF e con le sue azioni era legato soprattutto a fattori emozionali, speranze, "la lotta continua" ... tutto qui.

Ma d'altro lato queste reazioni sono politicamente completamente vuote e il pensiero che esprimono non ci deve più bastare oggi.

Qualsiasi cosa questo possa significare, naturalmente la lotta continua.

Ma si tratta anche di speranze e prospettive reali, che vengono trasmesse anche dalle azioni e questo non è questione di incantesimi, atteggiamenti o "simbolismi", bensì una delle politiche e uno dei processi politici nella lotta mondiale di liberazione.

Quindi semplicemente: questo è adesso il duro lavoro che sta davanti a tutti e per tutti insieme, quelli che vogliono continuare a lottare.

Noi lo faremo.
In un modo o nell'altro.

La questione adesso è quali sviluppi verranno adesso resi possibili.
All'epoca del terremoto politico dalla fine del 1989 era giusto mantenere una continuità contro le tendenze alla sottomissione e la sbandierata "morte del comunismo".
Questa era anche l'opinione di noi in carcere dopo che il nostro tentativo dello sciopero dell'89 era stato annullato.

Ma adesso dobbiamo e vogliamo andare avanti.
Per noi adesso è il momento politico nel quale si puo conquistare la nostra libertà, nel quale il passo della RAF era giusto e ne era una condizione.

In altro modo la "libertà" non sarebbe che un bel sogno.

A noi non basta constatare, che ci troviamo in una fase di cambiamente, noi li determiniamo per noi stessi e per una prospettiva in avanti.

Questo adesso è il passo e il contenuto delle nostre iniziative in quanto prigionieri negli ultimi anni.

25.4.92

Eva Haule

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