QUADERNI DI CONTROINFORMAZIONE N.10 - FEBBRAIO 1995

LA GUERRA IN JUGOSLAVIA
CAUSE E SVILUPPI

Questo dossier è la prima parte di uno scritto del Gruppo di lavoro e solidarietà antimperialista (AKAS) di Heidelberg sul conflitto jugoslavo

PREMESSA EDITORIALE

Come proletari che lottano quotidianamente contro lo sfruttamento in un paese del centro imperialista come è l'Italia, pensiamo sia indispensabile costruire una concreta alleanza con i popoli del Sud e dell'Est in lotta contro l'imperialismo e contro il neocolonialismo.

Questo principalmente da quando il governo italiano ha adottato una politica estera interventista che, dall'avventura militare in Libano nell'82 a quella nel Golfo, ha fatto assumere definitivamente all'Italia il ruolo di paese imperialista e neocoloniale e all'esercito italiano quello di poliziotto internazionale, ristrutturandolo in funzione aggressiva (corpi speciali, cacciabombardieri strategici, portaelicotteri Garibaldi, ecc.).

Un neo espansionismo costruito sui sacrifici imposti ai proletari dell'occidente (privatizzazione dei servizi sociali, restrizione del diritto di sciopero, licenziamenti di massa, attacco generalizzato alle condizioni di vita dei proletari) e sulla miseria imposta ai proletari dei paesi della periferia (distruzione delle economie di sussistenza, affamamento, imposizione di governi filooccidentali subalterni alle politiche di genocidio imposte dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale).

L'odierna guerra in Jugoslavia ci impone di accelerare i tempi di questa riflessione, elaborando un punto di vista di classe antagonista al pacifismo borghese; questo anche in considerazione dei limiti che quest'ultimo ha determinato nell'opposizione all'aggressione imperialista nel Golfo: prima l'incredulità che le "civili" nazioni occidentali potessero davvero dare il via al massacro, poi il neutralismo ad oltranza e le illusioni sulla reale natura della mediazione ONU ed infine il vuoto rituale degli appelli... Con il risultato che la spontaneità di classe che aveva determinato imponenti manifestazioni in ogni città d'Italia non appena si era diffusa la notizia dei bombardamenti su Baghdad è stata ridotta quasi subito all'impotenza mentre venivano militarizzate città e fabbriche, mentre si scatenava la caccia all'arabo e mentre si criminalizzava il movimento contro la guerra. D'altro canto il pacifismo umanitario ha già offerto la sua migliore performance nella crisi somala.

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Contro l'intervento italiano in Jugoslavia

Le zone di frontiera sono in stato di guerra. Le navi della Marina italiana hanno già fatto una prima sortita nelle acque territoriali jugoslave. Numerosi mercenari neofascisti stanno combattendo assieme agli ustascia croati e i servizi segreti italiani sono attivamente impegnati nel fornire aiuti militari alla Croazia. Lo stesso territorio del paese viene utilizzato e caratterizzato come la principale porterei Nato nel Mediterraneo. Il ministro degli esteri Agnelli suggerisce l'imposizione di una tassa speciale a copertura delle spese per gli 'eventuali' interventi diretti (sic!) delle forze armate italiane. Le potenze Nato si sgomitano per occupare un posto al tavolo delle 'trattative di pace' e conquistarsi un pasto nella ricostruzione postbellica.

Tutto sta ad indicare che l'intervento militare italiano in Jugoslavia si farà comunque, con o senza copertura ONU.

I soldati italiani non andranno in Jugoslavia a difendere la "pace" ma a portare la guerra e a contribuire alla sua escalation.

Affermiamo questo principalmente per due motivi:

a) perché la guerra jugoslava non è una guerra civile, ma principalmente una guerra indotta dagli stati imperialisti con l'obiettivo della divisione dei Paesi dell'Est in tanti piccoli stati fantoccio subalterni economicamente, politicamente e militarmente.

b) perché con la spartizione della Jugoslavia le singole potenze imperialiste si giocano il proprio futuro in concorrenza e in contraddizione le une con le altre; il loro intervento diretto può quindi portare solo ad un allargamento del conflitto, anche oltre i confini della ex Jugoslavia.

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La guerra jugoslava non è una guerra civile

La tesi che la guerra in corso in Jugoslavia sia una guerra civile è una tesi falsa che fa leva su di una serie di spiegazioni parziali (conflitti etnici, religiosi, nazionalistici) con l'obiettivo di circoscrivere le cause del conflitto alle aree in cui si evidenzia come scontro armato, nascondendo le contraddizioni di portata globale che lo hanno generato e che lo mantengono in vita.

In realtà la guerra jugoslava non è che la punta dell'iceberg del processo di ridefinizione economica e politica dell'Est europeo dopo il crollo del socialismo reale.

Una ridefinizione che deve trasformare definitivamente questi paesi in "periferia" dei poli imperialisti, cioè in zone di decentramento produttivo e in zone di disoccupazione funzionale (esercito industriale di riserva), in zone cioè il cui sviluppo e/o sottosviluppo venga comunque cadenzato secondo le necessità economiche del capitale imperialista occidentale (ad esempio necessità di allargare il mercato dei prodotti capitalistici e necessità di avere manodopera specializzata a basso costo).

Una ridefinizione che è d'altra parte indispensabile alla sopravvivenza stessa dei paesi imperialisti che hanno bisogno di conquistare nuovi mercati, di allargare a nuovi territori il proprio ciclo produttivo, di impadronirsi di nuove materie prime, nel tentativo di procrastinare gli effetti della crisi economica che li attanaglia

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"Divide et impera"

I cardini di questo processo di ridefinizione sono quindi:

- smembramento dei paesi dell'Est e distruzione del loro potenziale militare

- conflitto e/o convergenza dell'imperialismo nei confronti delle borghesie vecchie e nuove di questi paesi

- alimentazione dei conflitti tra i nuovi stati (nella ex Jugoslavia, nel Caucaso, ecc.) per favorire la costruzione di entità statuali "forti" ed agguerrite in funzione antiproletaria.

Il capitale imperialista ha certamente un gioco migliore nell'imporre questo ruolo subalterno alle borghesie nazionali di tanti piccoli stati fantoccio, creati su misura.

Da qui la necessità di smembrare il più possibile gli Stati dell'Est europeo distruggendone l'eventuale potenziale militare: dall'URSS che ormai è suddivisa in una ventina di stati e staterelli, alla Cecoslovacchia divisa in due parti (Boemia e Slovacchia), alla stessa Jugoslavia.

A questo processo di smembramento segue la distruzione e/o il trasformismo delle borghesie burocratiche legate al vecchio ordine e la costituzione di borghesie asservite all'imperialismo e che cooperino con esso nel disarmare militarmente e politicamente il proletariato, per poi affamarlo e sfruttarlo seguendo i diktat del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale: privatizzazione dei servizi pubblici, accettazione della penetrazione finanziaria del capitale imperialista, affamamento del proletariato, ecc.

In questo contesto i conflitti interetnici e razziali vengono fomentati ed esasperati come arma di ricatto nei confronti dei singoli stati per costringerli ad accettare gli '"aiuti" dei paesi imperialisti, sia quelli economici che quelli militari, per trasformarli in vere e proprie neocolonie e per dotarli di governi "forti" in grado di imporre politiche autoritarie e antiproletarie.

Nello specifico jugoslavo, dal punto di vista dell'imperialismo la questione della distruzione dello Stato preesistente e dell'Armata Jugoslava è ancor più pressante, dal momento che la Jugoslavia era, tra gli Stati dell'Est, uno tra i più solidi, costituito non in base agli accordi di Yalta ma alla guerra di liberazione dal nazifascismo e legittimato da una collocazione politica autonoma dai blocchi imperialista e socialimperialista, che lo aveva portato a collocarsi nel fronte dei Paesi Non Allineati.

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Contro il nuovo disordine mondiale

La crisi jugoslava è in pieno svolgimento ed è ancora lontana da una soluzione mentre quello che è stato velleitariamente presentato come "nuovo ordine mondiale" si dimostra sempre più, giorno dopo giorno, un equilibrio instabile di rapporti di forza tra i poli imperialisti creatosi con la fine della polarizzazione dello scontro tra imperialismo occidentale (guidato dal polo USA) e socialimperialismo (guidato dall'URSS).

Un "nuovo ordine mondiale" che già immediatamente dopo l'intervento comune dei paesi imperialisti nella guerra del Golfo si è dissolto evidenziando interessi diversi e spesso antagonisti e che oggi, di fronte alla crisi jugoslava, si trasforma spesso in contrapposizione netta tra i poli imperialisti (USA, Giappone ed Europa) e tra paesi appartenenti allo stesso polo (ad esempio tra i paesi imperialisti dell'Europa occidentale) a seconda della loro possibilità di ricavare o meno un utile dalla spartizione della Jugoslavia: non c'è accordo se l'intervento deve essere dell'ONU, della Nato o della UE, gli USA erano contrari anche al riconoscimento di Slovenia e Croazia, l'Europa è per le sanzioni a Serbia e Montenegro, la Germania ha già convinto la borghesia slovena ha porsi all'ombra del Marco, l'Italia si pone in concorrenza con la Germania per il controllo della Croazia, la Francia si propone come potenza militare e nucleare della UE...

La spartizione della Jugoslavia rappresenta quindi la verifica dei rapporti di forza tra poli imperialisti e in particolare all'interno del polo imperialista europeo

Per questo l'intervento diretto delle potenze imperialiste nel conflitto jugoslavo non si configura come intervento pacificatore, neanche di parte, ma come escalation pura e semplice del conflitto e come elemento di inasprimento della crisi delle relazioni internazionali tra potenze.

La Redazione dei Quaderni

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INTRODUZIONE

Da tre anni i giornali non fanno che parlare della guerra in Jugoslavia e le notizie suscitano una reazione d'orrore dopo l'altra. Solo pochi criticano a fondo il punto di vista propagandato dai media e dai politici secondo cui da un lato si tratta di una guerra etnica, oppure religiosa, e dall'altro sembra esistere un solo colpevole ed un solo responsabile: i Serbi. Quasi nessuno dubita dei titoloni che si basano sulle notizie dei cosiddetti "radioamatori" o sulle telefonate di sindaci, come ad esempio è successo a Gorazde ed ora a Bihac.

Nella Jugoslavia appare in tutta evidenza che la storia mondiale viene messa in scena come un evento spettacolare dove non sono gli esseri umani e gli avvenimenti del luogo a determinare il copione e la regia. Esiste una realtà apparente, quasi chiusa in se stessa, che in Europa e nell'America settentrionale soddisferebbe il bisogno della maggioranza di intrattenimenti "eccitanti" e di informazioni con un "buono" ed un "cattivo" ben definiti e che dovrebbe stimolare una strisciante campagna di condizionamento per un esteso consenso sociale alla politica interventista degli Stati occidentali.

Secondo la propaganda occidentale la convivenza dei gruppi etnici in Jugoslavia era possibile solo per la pressione della repressione statale sotto "il dominio monopartitico socialista" e quindi la disgregazione e il conflitto militare erano inevitabili data la crisi del sistema socialista. Ma questa tesi è priva di ogni fondamento. Al contrario: la Jugoslavia era nata dopo la seconda guerra mondiale quale associazione volontaria e voluta da tutti i gruppi etnici. Con la divisione della Jugoslavia del 1991/92 cominciò la guerra civile e questo ha confermato il vecchio principio per cui la pace nei Balcani può esistere solo in una Jugoslavia unitaria.

La Jugoslavia era nata come Stato balcanico unitario nel quale per la prima volta la convivenza pacifica dei popoli era garantita dal rifiuto degli interessi delle grandi potenze e delle loro influenze. Intralciava quindi la strada degli interessi tedeschi verso l'oriente e doveva scomparire, come fattore di potenza nell'Europa sudorientale, dalle carte geografiche. Per molto tempo è stata un paese potente e, insieme ad Egitto, India ed altri paesi del movimento dei non allineati, anche un fattore globale di potere il quale nonostante la dipendenza economica, si poneva rispetto all'occidente in modo autonomo e conservava in ogni caso la propria indipendenza politica.

La crisi della Jugoslavia e la guerra civile che continua ancora oggi nella ex Bosnia-Erzegovina non si possono ricondurre certamente solo alla politica interventista degli Stati imperialisti e il riconoscimento della Croazia e della Slovenia, grazie alla politica estera tedesca, non è naturalmente l'unico motivo e l'unica causa della disgregazione della Jugoslavia. Comunque tutto questo ha avuto una notevole influenza nello scatenarla e nel portarla ai livelli odierni e, soprattutto, nel rendere insolubili i problemi che ne erano derivati.

Nel testo che segue si cercherà nella prima parte di descrivere brevemente lo sviluppo cronologico degli avvenimenti cercando di capire chi, in realtà, ha combattuto contro chi, quale sia stata ed è la portata dell'ingerenza dell'occidente e soprattutto della Germania nel conflitto nei Balcani, quali obiettivi perseguiva questo intervento e perché la richiesta di ulteriori interventi, sostenuta soprattutto da circoli liberali e cosiddetti di sinistra, non può portare a nessuna soluzione. Nella seconda parte viene analizzata la continuità degli interessi tedeschi nell'Europa sudorientale ed orientale, interessi intorno ai quali è più facile capire gli obiettivi dei promotori di un intervento della NATO in Jugoslavia ed esplicitare la qualità della politica di potenza della Germania nuovamente orientata alla presa del potere mondiale.

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PARTE I - LA GUERRA IN JUGOSLAVIA - CAUSE E SVILUPPI Le radici della Jugoslavia socialista

La repubblica federale socialista jugoslava era uno Stato multietnico le cui radici affondavano nella resistenza comune contro il fascismo e l'occupazione tedesca durante la Seconda guerra mondiale. La struttura dello Stato era fortemente federativa, con ampia autonomia dei suoi singoli Stati: con la costituzione del 1974 anche per quanto riguardava l'economia e le tasse.

Dal momento che gli organi federali erano occupati pariteticamente, la Jugoslavia era ben lontana dall'essere una "prigione di popoli" dominata dai Serbi, come hanno riproposto continuamente i media occidentali. Ad essere veramente precisi la popolazione serba, in rapporto alla sua percentuale rispetto all'intera popolazione, era addirittura sottorappresentata. Ed anche l'appartenenza ad un'etnia o ad una religione - nella Jugoslavia fortemente laica - rivestivano sicuramente un'importanza minima.

Anche nella Jugoslavia socialista continuavano a vivere forze nazionaliste. Der resto forze reazionarie di tutti i gruppi etnici degli Stati dei Balcani avevano collaborato con la forza di occupazione tedesca e il movimento degli Ustascia croati aveva creato, con l'aiuto dell'esercito tedesco, uno Stato "croato" fascista che si estendeva sino alla Bosnia e che aveva esercitato terribili atrocità contro Serbi, ebrei e Rom, causando migliaia di vittime.

Parte delle forze fasciste e di destra erano fuggite alla fine della guerra per combattere dall'estero la nuova Jugoslavia socialista. In particolare le associazioni di esuli croati reazionari avevano in Germania una forte base e l'appoggio delle autorità e dei servizi segreti e anche all'interno della Jugoslavia esistevano circoli reazionari in tutti i gruppi etnici.

Eppure per quasi cinque decenni la maggioranza della popolazione è stata tenuta insieme dalla consapevolezza che solo in uno Stato unitario degli Slavi del sud era possibile una pacifica convivenza tra i diversi gruppi etnici. Una consapevolezza che era nata anche da secoli di storia nei quali la grande potenza di turno aveva combattuto sulla pelle delle popolazioni per la strategica funzione dei Balcani ed aveva messo i vari gruppi etnici gli uni contro gli altri spingendoli a farsi reciprocamente la guerra.

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La crisi

Durante gli anni '80 la Jugoslavia è caduta in una crisi economica il cui corso -ormai noto in tutto il mondo- ha avuto luogo anche qui: indebitamento, tagli alle spese sociali quali condizioni imposte dal Fondo Monetario Internazionale (FMI), insoddisfazione sociale, instabilità politica ecc. L'autonomia economica delle repubbliche federali e le invariate forti differenze economiche tra le regioni incrementavano tendenze fortemente centrifughe: nella Slovenia e nella Croazia, economicamente favorite da una più forte industria orientata alle esportazioni e dalle entrate del turismo, si moltiplicavano le voci contrarie a devolvere le eccedenze alle regioni più povere come prestazioni di compensazione.

Dopo il crollo degli Stati a socialismo reale nell'Europa orientale aumentarono i canti delle sirene degli Stati dell'Europa occidentale indirizzati alla Slovenia e alla Croazia. Tentavano di allettarle, prima fra tutti la nuova grande potenza tedesca, con l'immediato riconoscimento quali Stati indipendenti e con la possibilità della loro annessione nella Comunità Europea occidentale. Circoli occidentali, statali e religiosi, hanno aspettato un po' prima che i dolci allettamenti e la lieta novella trovassero sostenitori nelle repubbliche federali più settentrionali. Così ad esempio un vescovo tedesco della Chiesa cattolica si vanta di aver racimolato da solo parecchi milioni per il sostegno a questo lavoro sotterraneo. Una dichiarazione del comitato centrale dei cattolici tedeschi del 6/9/91 chiede l'immediato riconoscimento della Croazia e della Slovenia perché queste proteggono i valori della civilizzazione cristiano-occidentale contro l'ortodossia serba orientale. La crisi in Jugoslavia si aggrava in maniera inarrestabile.

Nel 1990 in tutte le repubbliche federali hanno luogo le elezioni parlamentari che portano al potere forze politiche diverse, ovvero contrapposte. Mentre in Serbia e Montenegro, che formano oggi i cossiddetti resti della Jugoslavia, vincono le elezioni i partiti socialisti, organizzazioni che derivano direttamente dall'ex Lega dei Comunisti, nella Bosnia-Erzegovina, Croazia, Macedonia e Slovenia si impongono partiti di destra con orientamento anticomunista e pro-occidente. Questo ha offerto l'opportunità e lo spunto alle potenze imperialiste per distruggere in Europa anche l'ultimo Stato socialista. Hanno spinto le repubbliche guidate da governi reazionari ad uscire dalla Stato Federale jugoslavo. Così al potenziale interno di conflitto si è aggiunta la politica di diretta destabilizzazione dall'esterno.

Anche a questo punto non si può parlare di conflitti etnici tra i gruppi della popolazione in senso vero e proprio. Esisteva un conflitto di interessi tra quelli che volevano continuare a vivere in una Jugoslavia unitaria e quelli che speravano in vantaggi generali o personali da una scissione. Gli "jugoslavi" erano una minoranza rispetto agli sloveni e i croati mentre nelle repubbliche meridionali pochi credevano che la disgregazione della Jugoslavia potesse avere riscontri vantaggiosi; al contrario, la maggioranza era consapevole degli svantaggi che sarebbero derivati al Sud maggiormente orientato verso l'agricoltura e la produzione di materie grezze.

La maggiore resistenza contro la parcellizzazione della Jugoslavia c'è stata all'inizio tra le popolazioni non croate e non cattoliche all'interno della repubblica federale croata. Per queste l'indipendenza rappresentava il passaggio da uno Stato multietnico e multiculturale (la Jugoslavia) ad uno Stato definito etnicamente (la Croazia) che li avrebbe resi una minoranza.

Di conseguenza la difesa dell'unità della Jugoslavia è stata falsamente e spesso con intento demagogico posta sullo stesso piano dello "sciovinismo grande-serbo". Il tentativo di preservare la sovranità statale e l'ordine costituzionale anche in Slovenia e in Croazia, sono stati così condannati in Europa occidentale come un'aggressione "serba" ovvero "comunista".

Perciò la pretesa del governo federale jugoslavo secondo cui la disgregazione dello Stato federale, ovvero l'uscita di alcune repubbliche, doveva essere decisa con l'accordo dell'intera Jugoslavia era del tutto legittima. Il diritto di uscire dall'unione di Stati non era assolutamente messo in dubbio. Ma la disgregazione doveva potersi giocare in un ambito ragionevole e soprattutto dovevano prima essere chiariti gli innumerevoli problemi e questioni che comportava.

Sarebbero state da chiarire le questioni dei confini, dato che i confini tra le singole repubbliche erano stati stabiliti arbitrariamente in quanto confini amministrativi interni allo Stato, oppure la questione della permanenza [all'interno dello Stato federale] di alcune regioni, dopo l'indipendenza delle repubbliche secessioniste, nelle quali una chiara maggioranza era a favore della permanenza nella Jugoslavia, come ad esempio nella Krajna abitata principalmente da Serbi o in altre regioni non croate, come l'Istria e la Dalmazia, dove la maggioranza della popolazione era ugualmente orientata contro l'appartenenza al nuovo Stato croato.

Altre importanti questioni, tra l'altro, sarebbero state anche quelle dello status e delle garanzie giuridiche delle minoranze, così come la distribuzione delle proprietà statali, dal momento che ad esempio l'industria del turismo in Croazia era nata anche con gli aiuti delle altre repubbliche.

La soluzione di tutte queste questioni avrebbe richiesto soprattutto una cosa: il tempo. E proprio questo, al contrario, non è stato concesso.

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La disgregazione

Come ha riferito l'ex ambasciatore USA nella Repubblica Federale Socialista della Jugoslavia, il Ministro degli Esteri tedesco Hans-Dietrich Genscher nel 1990/1991 era in contatto giornaliero con il Ministro degli Esteri croato e faceva pressioni affinché Zagabria dichiarasse la propria indipendenza. Analoghe pressioni venivano esercitate sulla Slovenia. E questo valeva qualche tempo più tardi per il governo della Bosnia-Erzegovina guidato da Izetbegovic. Lo stesso Izetbegovic aveva ammonito che una secessione della Croazia e della Slovenia avrebbe costretto il suo governo a dichiarare l'indipendenza della Bosnia-Erzegovina e questo avrebbe inevitabilmente portato il paese alla guerra civile.

Le forze che volevano preservare una Jugoslavia unitaria e che si opponevano alla minacciosa disgregazione dello Stato alla fine non ebbero più alcuna possibilità. Secondo il principio costituzionale della rotazione doveva seguire al Presidente federale serbo Borisav Jovic -che avrebbe voluto proclamare lo stato d'emergenza nei confronti dei tentativi forzati di secessione della Croazia e della Slovenia- il croato a forte orientamento nazionalistico Stipe Mesic. Dal momento però che Mesic era apertamente a favore della disgregazione della Jugoslavia, ed inoltre erano state riconosciute le sue implicazioni nella spedizioni illegali di armi verso la Croazia, il posto di Capo dello Stato rimase momentaneamente scoperto. L'Occidente, prima fra tutti la RFT, intervenne massicciamente in questa situazione interna jugoslava ed impose ultimativamente che il posto venisse ricoperto dal "legittimo Presidente della Jugoslavia".

Il 25 giugno 1991 la Croazia e la Slovenia dichiararono la propria indipendenza. Il 30 giugno la Comunità Europea impose l'insediamento di Stipe Mesic come Presidente della SFRJ (Jugoslavia) il quale poi, alla fine dell'anno, espose il bilancio della sua missione davanti al Parlamento croato: "Ho portato a termine il mio compito. La Jugoslavia non esiste più"; poiché, con il riconoscimento della Croazia e della Slovenia del 19 dicembre 1991, la Germania, come promesso, le aveva create nei fatti e gli altri Stati della CEE la seguirono nel riconoscimento il 15 gennaio 1992.

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I nuovi Stati e l'immagine dell' "aggressore"

Così erano nati due nuovi Stati che si definivano etnicamente. Mentre la popolazione della Slovenia era effettivamente preminentemente slovena, la nuova repubblica croata era composta dai diversi gruppi etnici jugoslavi. Dato che la Croazia, secondo le intenzioni della direzione politica e la nuova costituzione, venne definita come "Stato dei Croati", questo significò per il resto della popolazione l'isolamento politico, la trasformazione in stranieri nella propria terra. Presto si aggiunsero anche le aggressioni violente contro le popolazioni non croate, in particolare quelle serbe. Sempre più serbi e serbe persero il proprio posto di lavoro e decaddero da incarichi pubblici.

Nella ricerca di un'identità nazionale fin dall'inizio si tentò di ricollegarsi ai simboli del primo Stato croato: lo Stato fascista degli Ustascia installato dal Reich tedesco. Le uniformi ricordano i predecessori storici, nelle strade appaiono gruppi che portano i distintivi degli Ustascia. I vecchi capi degli Ustascia, condannati dopo la guerra per genocidio e per crimini di guerra, vengono riabilitati, le loro atrocità rimangono impunite. Analogamente al numero delle vittime ebree di Ausschwitz, anche la portata dei massacri nei lager di annientamento croati viene smentita tra gli altri anche dal Presidente croato Tudjman..

Tutto quello che potrebbe ricordare il socialismo e l'unità della Jugoslavia deve essere spazzato via: scuole, strade e piazze vengono rinominate e ricevono i nomi delle personalità di spicco dello Stato degli Ustascia. Questa politica promossa dal Capo di Stato croato Franjo Tudjman ha risvegliato in molti il ricordo degli anni della seconda guerra mondiale quando prese il via la persecuzione che causò più di un milione di vittime solo perché erano di origine serba, di fede ebraica o Rom. L'opposizione contro queste misure venne messa a tacere. Un grande numero di oppositori dell'attuale corso sono in prigione, i comunisti sono costretti alla clandestinità e dopo lo scioglimento di tutti i giornali indipendenti l'Associazione dei giornalisti croati si è vista costretta ad andare in esilio a Belgrado.

Dalla primavera del 1991 gruppi paramilitari fascisti (Ustascia, Legione Nera, HOS ecc.) guadagnavano consensi in Croazia e un consistente flusso di armi, munizioni e uniformi arrivavano nel paese dalla Germania e da altri Stati occidentali. Anche mercenari di diversi paesi, tra questi un grande numero di militanti neonazisti, raggiunsero la Croazia. Presto si arrivò ad aggressioni armate contro la popolazione serba che vivena nella regione.

Di questi sviluppi non si è sentito e non si è letto nulla nei media occidentali. Qui è stato costruito appositamente un diverso nemico: lo sciovinismo serbo in espansione.

Fin dall'inizio la Germania aveva agito miratamente contro i serbi, nelle zone in cui una maggioranza elettorale si era espressa a favore dell'unità della Jugoslavia.

Nonostante che il regime croato avesse cominciato per primo le espulsioni delle popolazioni non-croate -quando si decise la tregua tra la Croazia e l'esercito federale jugoslavo la popolazione serba era stata scacciata già da 189 villaggi- l'embargo sulle armi deciso dalla CEE nel luglio 1991 venne applicato di fatto solo contro la Serbia e il Montenegro che erano rimaste fedeli alla Jugoslavia federale. Ininterrottamente arrivavano tra l'altro anche armi pesanti in Croazia e Slovenia mentre le compagnie dell'esercito federale jugoslavo rimanevano sempre più rinchiuse nelle loro caserme e contro di esse il Ministro della Difesa Tudjman (in un momento in cui la Croazia faceva ancora parte della Repubblica Federale Socialista Jugoslava) dichiarò guerra.

L'esercito federale, che era composto da tutti i gruppi della popolazione e che ovviamente era presente anche prima del conflitto in Slovenia e in Croazia, aveva, così come anche in altri Stati, il compito costituzionale di difendere l'unità della Jugoslavia. Eppure l'opinione pubblica occidentale lo dichiarò improvvisamente "potenza di occupazione" e quando questo si pose tra l'altro a difesa della popolazione serba attaccata dalle milizie croate venne dichiarato contingente di invasione dell' "aggressore serbo". La Croazia e la Slovenia invece, quali vittime apparenti di un'aggressione, ottennero la piena solidarietà internazionale.

Nel frattempo cominciò una Conferenza sulla Jugoslavia, che da allora si è riunita innumerevoli volte. Come "mediatori" entrarono in azione due ex Ministri degli Esteri di Stati NATO e membri della Commissione Trilaterale -l'americano Vance e il britannico Owen-: per coloro che osservano criticamente la politica occidentale, sicuramente non dei mediatori con posizioni neutrali. Gli ulteriori sviluppi hanno dimostrato anche che sulla "mediazione" pesava fortemente l'influsso degli interessi imperialisti sugli avvenimenti interni della Jugoslavia: la Croazia e la Slovenia vennero appoggiate praticamente incondizionatamente quali "Stati sovrani ed indipendenti" nel conflitto contro gli "ex comunisti serbi" per stimolare l'imminente disgregazione dei Balcani che combaciava perfettamente con gli interessi strategici dell'Occidente.

Quello che rimaneva della Jugoslavia, che tentava di posticipare il più possibile la separazione e di tenere insieme i propri resti, venne isolato internazionalmente ed emarginato. In seguito la Jugoslavia venne persino esclusa dalla Conferenza CEE per "mancanza di disponibilità a cooperare". Contro la Repubblica Federale Jugoslava vennero introdotte sanzioni sempre più dure. Gli Stati della NATO stimolarono contemporaneamente ulteriori tentativi separatisti dichiarando che avrebbero immediatamente riconosciuto tutte le Repubbliche jugoslave che avessero dichiarato la propria indipendenza.

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La guerra nella Bosnia-Erzegovina

Quando la Bosnia-Erzegovina dichiarò la propria indipendenza era chiaro che esisteva il potenziale per una violenza di gran lunga maggiore di quella che c'era stata in Croazia - in molti lo avevano previsto. Qui la popolazione della Jugoslavia era maggiormente mista. I differenti punti di vista cozzavano gli uni contro gli altri. E nonostante questo la CEE e gli USA misero fretta ai separatisti e riconobbero senza esitare lo "Stato indipendente". Voci critiche o di rifiuto vennero ignorate. Questa è stata la spinta decisiva al nuovo conflitto.

Dopo l'uscita della Slovenia e della Croazia, il peso numerico in Jugoslavia si era spostato fortemente a favore della popolazione serba e l'appartenenza etnica, con il rinfocolarsi del dibattito nazionalista, riacquistò ovunque importanza. Così ,ad esempio, in una delle repubbliche federali dove l'ideale jugoslavo forse era maggiormente radicato e dove un matrimonio su tre era un matrimonio misto, la maggioranza dei Musulmani e dei Croati si espressero per la soluzione separatista, mentre i circoli nazionalisti croati chiesero l'annessione alla Croazia.

La popolazione serba, un terzo della popolazione di tutta la Bosnia-Erzegovina, voleva però maggioritariamente rimanere all'interno della Jugoslavia. Tanto più che la forza politica più forte, con a capo Izetbegovic, voleva sostituire al fino ad allora Stato laico uno religioso che avrebbe isolato le popolazioni di altre religioni. Fino ad allora i Musulmani non avevano da lamentare alcun limite politico, culturale o religioso in Jugoslavia. Infatti la professione religiosa era, ovviamente, una faccenda privata e non subiva alcuna intromissione statale, così come le altre religioni. Ad esempio a Saraievo c'era l'unica università musulmana in Europa. Eppure i circoli intorno a Izetbegovic speravano, dopo l'indipendenza, con il sostegno della maggioranza della popolazione musulmana, di riuscire ad imporre i propri obiettivi sociali. Essi rappresentano gli interessi dell'ex classe osmanica dei grandi proprietari terrieri che, tra l'altro, chiedeva la revisione della riforma agraria antifeudale del 1919.

Anche qui i contingenti dell'esercito federale jugoslavo, che erano stanziati nella Bosnia-Erzegovina, si videro esposti a violenti attacchi. Dopo il loro ritiro formale circa l'80% dei soldati, che erano di casa in questa regione, rimasero nel paese. Una gran parte di loro si unì ad una delle tre parti in guerra portando con sé le proprie armi pesanti.

Al referendum sull'indipendenza del 29 febbraio e del 1 marzo 1992 presero parte solo le popolazioni croate e musulmane della Bosnia-Erzegovina. La stragrande maggioranza votò a favore della secessione dalla Jugoslavia. Gli jugoslavi e i serbi, che dopo l'ultimo affidabile censimento erano il 40% della popolazione complessiva, boicottarono le elezioni manifestando così il proprio desiderio di rimanere nell'unione di Stati jugoslava.

Ignorare la volontà e le paure del 40% della "propria" popolazione su una questione così importante avrebbe portato un paese che non era gravato dai crimini del fascismo durante l'occupazione tedesca prevedibilmente e necessariamente ad una guerra civile.

E la guerra scoppiò, anche se le conseguenze erano previste, immediatamente dopo il riconoscimento dell'indipendenza della Bosnia-Erzegovina da parte degli USA e degli stati europei. Anche in Occidente si erano levate delle voci di monito, tra le altre anche quella dell'ex ministro degli esteri inglese Hurt, che la Bosnia sarebbe diventata una polveriera e che il riconoscimento avrebbe acceso la miccia.

Nella Bosnia-Erzegovina i gruppi etnici non vivono separati, ma anzi mischiati. La propaganda nazionalista di tutte le parti e le prime azioni di violenza da parte di gruppi armati, le recriminazioni selvagge sulle atrocità della rispettiva controparte rievocavano il ricordo di vecchie atrocità e contribuirono a creare un clima di forte inimicizia. Questo sarebbe stato il momento per trattare e per questo ci sarebbe stato bisogno di un mediatore che non avesse perseguito fini propri. Invece l'Europa e gli USA agirono in fretta e senza troppe attenzioni e il 6 aprile 1992 riconobbero la Bosnia-Erzegovina come Stato indipendente. Così scoppiò una guerra condotta da tutte le parti con spaventosa crudeltà.

Dopo i primi successi militari delle forze serbe i media occidentali fomentarono l'impressione che le truppe serbe fossero arrivate dall'esterno ed avessero occupato il paese. Si faceva credere che i "bosniaci" stessero difendendo il proprio paese contro i Serbi. Quasi nessuno si si era preso la briga di spiegare che i Serbi erano altrettanto Bosniaci dei Musulmani e che i Serbi in Bosnia-Erzegovina -a differenza della popolazione musulmana principalemente cittadina- erano principalmente contadini ed abitanti di villaggi e che prima della guerra avevano vissuto su circa 2/3 del territorio.

Zone di circa queste stesse dimensioni vengono controllate oggi da contingenti serbi. Si vede facilmente come i piani sul trattato di pace, come il Piano Vance-Owen oppure l'attuale "Piando di spartizione" del cosiddetto gruppo di contatto, che attribuirebbe alla popolazione serba solo il 43-49%, non tengono conto della realtà. Il problema principale consiste comunque nel fatto che non è proprio possibile dividere equamente il territorio tra i vari gruppi etnici. Per questo sarebbe ragionevole mantenere l'unità della Bosnia-Erzegovina. Però questa società multietnica era capace di vivere solo nello Stato unitario e multietnico jugoslavo. Il paradosso della politica ufficiale occidentale è che mette in dubbio la possibilità di una convivenza duratura dei popoli in uno Stato federale jugoslavo, ma la vuole imporre anche con la violenza nella Bosnia-Erzegovina che da sola non è in grado di sopravvivere.

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Il ruolo dei media nel conflitto jugoslavo

1) La propaganda sul massacro di Gorazde

Alla fine del marzo 1994 i musulmani bosniaci avevano iniziato un'offensiva con la fanteria partendo da Gorazde. Per circa un anno i fronti attorno ad una delle poche città della Bosnia orientale ancora rette da un governo bosniaco-musulmano non si erano mossi -da quando cioè la città nel maggio 1993, era stata dichiarata zona protetta dagli USA. A che cosa servono queste cosiddette zone protette lo aveva spiegato il comandante belga delle truppe ONU, il generale Francis Briquemont, nella sua relazione finale poco prima del suo richiamo dalla Bosnia: "L'esercito bosniaco aggredisce i serbi da una zona protetta, i serbi rispondono al fuoco lungo il fronte, di conseguenza il governo bosniaco rinfaccia al UNPROFOR di non proteggerlo dagli attacchi serbi e pretende attacchi aerei contro le postazioni di artiglieria serbe". Secondo le stime il numero dei soldati bosniaci-musulmani nella "zona protetta" di Gorazde si aggirava tra i 7000 e i 14000 ben equipaggiati grazie alla locale fabbrica di armi. Alla fine di marzo i soldati di Izetbegovic avevano cominciato ad attaccare le postazioni serbe sulle colline intorno a Gorazde e nella loro avanzata avevano incendiato una mezza dozzina di villaggi serbi.

Ma solo dopo che i serbi bosniaci avevano iniziato la controffensiva, Gorazde diventava improvvisamente un avvenimento per i media di tutto il mondo. Da parte serba veniva ripetutamente sottolineato che non volevano conquistare Gorazde - ma questo non veniva mai riportato. Le notizie di qualche "radioamatore" e le disperate grida di aiuto del sindaco per cui sarebbe stato meglio che la NATO avesse raso al suolo Gorazde piuttosto che abbandonarne la popolazione agli aggressori serbi, determinavano quello che veniva riferito all'opinione pubblica mondiale. In seguito a questo martellare di notizie spaventose sembrava che a Gorazde fossero morti migliaia di civili e che non ci fosse più un mattone sull'altro. Il successo di queste immagini non tardò ad arrivare: il 10 e l'11 aprile i bombardieri della NATO intervenivano direttamente nella guerra nei Balcani e bombardavano le postazioni serbe. Quando i soldati ONU, al comando di Sir Michael Rose, alla fine delle quattro settimane del loro incarico, il 24 aprile entrarono nella città, preparati per il trasporto di parecchie migliaia di feriti e di morti, si accorsero che lo scontro aveva causato circa 200 morti e circa 200 feriti, il 70% di questi erano soldati musulmani.

2) L'offensiva dalla "zona protetta" di Bihac

Nello stesso modo sono manipolate le notizie ufficiali su Bihac: nella regione di Bihac, nella Bosnia nordoccidentale, vivono attualmente circa 180.000 persone. Nella sola città di Bihac vivevano prima della guerra 35000 abitanti di cui il 61% musulmani, il 16,9% serbi, l'8,9% croati e l'11,2% che si autodefinivano jugoslavi. Secondo un censimento del 1991 vivevano nella regione 2400000 persone di cui 30000 serbi, 6500 croati. Oggi, circa quattro anni dopo, le stime dicono che dei 180000 civili, solo circa 1000 sono serbi e 5000 croati. "Pulizie etniche" - fughe ed espulsioni - hanno avuto il loro effetto ed oggi se ne vedono le conseguenze.

La popolazione, indipendentemente dalla religione o dalla nazionalità, voleva continuare a vivere insieme pacificamente. Questo almeno quanto traspare dal forte appoggio alla politica di Fikret Abdic, ex membro della Presidenza di Stato bosniaca. Più dell'80% aveva approvato la proclamazione della "Provincia Autonoma della Bosnia Occidentale" nel settembre 1993 e gli accordi di pace con i vicini croati e serbi. Fin dall'inizio questa pace venne disturbata dalla città di Bihac che l'ONU aveva dichiarato zona protetta e in cui era stanziata la V Divisione dell'esercito bosniaco-musulmano. La politica di Abdic contraddiceva quella di Alija Izetbegovic, che mirava ad uno Stato unitario della Bosnia-Erzegovina dominato dai musulmani, e di conseguenza doveva essere combattuta.

Lo scorso anno gli USA e la RFT hanno acceso nuovamente la miccia del conflitto. Lo spunto è stato il cosiddetto Trattato di Washington del marzo 1994 dove era stata stretta una coalizione di guerra tra i rappresentanti del governo croato e i membri del partito di guerra bosniaco che si raggruppava intorno a Izetbegovic. Le forze fino a quel momento nemiche dovevano essere nuovamente riunite per poter sferrare l'offensiva con forza adeguata.

Nell'agosto del 1994 si susseguirono le offensive dell'esercito di Izetbegovic, che non sarebbero potute avvenire senza questo Trattato e senza l'aiuto occidentale:

¥ osservatori ONU riferiscono che gli americani avrebbero tenuto sotto il controllo dei satelliti per conto di Izetbegovic le postazioni serbe;

¥ un diplomatico afferma sul quotidiano francese Le Monde nel novembre 1994 che gli USA avrebbero installato su di una nave da guerra nell'adriatico il proprio quartiere generale operativo per dare al comandante militare delle truppe di Izetbegovic istruzioni tattiche;

¥ nel settembre due delegazioni Usa di alto grado militare si sarebbero recate nella Bosnia-Erzegovina per consigliare Izetbegovic sui passi futuri. Facevano parte di questa delegazione, accanto ad esponenti dei servizi segreti, tra gli altri anche l'ex generale USA John Galvin, ex Comandante capo delle truppe NATO in Europa;

¥ parallelamente vengono costruiti i contatti militari con la Croazia. Accanto all'invio diretto di materiali bellici, una ditta di consulenza militari incominciò la modernizzazione dell'esercito croato. Gli ufficiali croati avrebbero dovuto essere istruiti nelle più importanti Accademie della NATO.

Così equipaggiata la V Divisione fu messa in grado di sferrare l'attacco dalla Bosnia nordoccidentale contro la "Provincia Autonoma della Bosnia occidentale" e dopo giorni di duri scontri sconfiggerla. Dopo la conquista di Velika Kladusas da parte della V Divisione la città venne isolata per tre giorni ermeticamente, prima che ad osservatori stranieri venisse finalmente consentito l'accesso -per questo forse le notizie di esecuzioni di soldati nemici catturati, gli stupri e l'uccisione di bambini davanti agli occhi delle madri -così come hanno raccontato alcuni fuggiaschi- non erano mai giunte alla luce. L'offensiva aveva provocato un esodo di massa senza precedenti nella guerra civile jugoslava: nel giro di pochi giorni circa 50.000 persone erano fuggite dalla Bosnia in Krajina, dove da allora sono costretti a sopravvivere in condizioni pietose in due campi profughi a Turanj e a Batnoga. Questi profughi, tutti musulmani, hanno fatto un "errore": non sono fuggiti davanti all'esercito serbo, bensì davanti alla V Divisione di Izetbegovic che li aggrediva come serbi, perché volevano la pace invece della politica di Izetbegovic che ha le sue fondamenta nella guerra. In tutto questo non ha alcuna importanza il fatto che nelle tende, nei capannoni o a volte in semplici ripari di plastica in cui vivono li aspetti un inverno al quale potrebbero non sopravvivere...del resto non si tratta di Sarajevo!!! Provate ad immaginare che cosa sarebbe successo se 50.000 musulmani fossero stati scacciati dai Serbi!!! Invece l'offensiva bosniaco-musulmana è stata presa in simpatia come una specie di romanticheria militare quale "svolta della guerra in Bosnia"; non si è sentito che il Consiglio di Sicurezza dell'ONU la condannasse o che la NATO intervenisse.

Solo dopo che i serbi bosniaci hanno sferrato una controffensiva intorno a Bihac, allora l'opinione pubblica mondiale e la NATO sono state di nuovo presenti nel riconoscere di nuovo chiaramente il nemico, pronte all'attacco, e si ripetè lo scenario di Gorazde, ampliato dalla richiesta di una partecipazione tedesca ancora più forte.

Con l'offensiva contro la "Provincia Autonoma della Bosnia occidentale" è stato infranto un esempio riuscito di convivenza pacifica tra serbi, croati e musulmani e qui in occidente poteva continuare ad esistere l'immagine ormai consolidata per cui diversi gruppi etnici non potevano convivere pacificamente e di conseguenza vennero legittimati ulteriori interventi dell'Occidente.

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Embargo e blocco totale contro la Repubblica federale jugoslava

Coerentemente alla politica contraria a quello che resta della Jugoslavia, gli Stati occidentali hanno imposto contro la Repubblica Federale Jugoslava l'embargo unilaterale, provvedimenti restrittivi all'interno del Consiglio di Sicurezza dell'ONU e, nel settembre 1992, hanno fatto in modo che fosse esclusa dall'organizzazione mondiale dominata dagli imperialisti. Le sanzioni -ingiustificate- sono state continuamente inasprite ed hanno avuto conseguenze disastrose: nei primi 5 mesi del 1993 la produzione industriale della Jugoslavia è calata del 40%. Il tasso di disoccupazione è salito al 50% e il tasso di inflazione ha raggiunto livelli stratosferici. Non si tiene alcun conto dei bisogni primari della popolazione: niente olio, niente medicamenti, niente sementi.

Le sanzioni colpiscono maggiormente i bambini, gli anziani ed i malati, così come gli oltre 800.000 uomini che sono fuggiti dalla Bosnia-Erzegovina e dalla Croazia nella Repubblica Federale jugoslava. Questi sono colpiti più duramente da questo assassinio a rate.

Questa è una politica di genocidio: nella Repubblica Federale jugoslava il tasso di mortalità medio in seguito all'embargo è salito del 60%. Così come in Irak, dove l'embargo dura ormai da 4 anni, malattie ed epidemie scomparse da tempo minacciano di estendersi nuovamente e si ricomincia a morire di morbillo o di diarrea.

In questo scenario è da vedere la decisione del Presidente Milosevic di cedere alle pressioni del cosiddetto Gruppo di Contatto e di chiudere le frontiere ai serbi bosniaci. Ha fatto questo con la libertà di un uomo sul cui capo è puntato da più di tre anni un fucile della NATO, come ha sottolineato un portavoce del Centro di Informazione Serba a Londra durante un'intervista, il 3 agosto 1995, alla BBC.

La politica interventista e la diversità delle misure adottate hanno provocato un inasprimento della guerra che per molto tempo è stata condotta su quattro fronti: tra serbi e musulmani, serbi e croati, musulmani e croati, musulmani fedeli a Izetbegovic e musulmani fedeli a Ficret Abdic nella regione di Bihac. Eppure nei media occidentali si sentiva sempre parlare di truppe serbe all'attacco e di "popolazione civile bosniaca" che si difendeva; invece sono passati inosservati i rapporti sulle distruzioni compiute da bande croate nella parte orientale di Mostar che erano molto più devastanti ad esempio del bombardamento di Sarajevo, oppure domande circa il motivo della fuga di decine di migliaia di persone dalla regione di Bihac dopo la grande offensiva delle truppe governative bosniache nell'agosto 1994.

La politica di parte dell'occidente riguardo alla Bosnia -appogggiata da media unilaterali e acritici- non può portare alla pace, al contrario ridà vigore alle speranze in un intervento militare delle forze raccolte intorno a Izetbegovic: tutti gli sforzi di pacificazione vengono boicottati e le provocazioni tengono acceso lo scontro militare. Chi ne subisce le conseguenze sono le persone che vivono nella regione, a qualunque gruppo etnico esse appartengano.

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L'ONU e la Jugoslavia

Con la rappresentazione unilaterale del conflitto e la richiesta di interventi militari in Jugoslavia si è riusciti a rendere "presentabile alla buona società" la NATO quale "protettrice della pace mondiale". Nella RFT è cresciuta la disponibilità a partecipare ai cosiddetti interventi "out-of-area" e viene portata avanti la militarizzazione della società. A poco a poco si è affermata l'opinione che solo l'occidente sia in grado, grazie ai suoi "interventi umanitari", di risolvere i conflitti nel mondo, siano essi in Jugoslavia, in Ruanda o ad Haiti. Anche all'interno della sinistra è cresciuta una specie di consapevolezza morale al dovere di immischiarsi negli affari interni di altri Stati, cosa che era considerata obsoleta dopo la conquista dei cosiddetti Stati del Terzo Mondo del diritto alla sovranità e alla non ingerenza da parte di altri Stati. Gli interventi dell'ONU sono stati rappresentati quale "fiamma della speranza".

All'inizio dello scontro l'ONU si era tenuta lontana dalla questione jugoslava, in fondo si trattava di affari interni di uno Stato. L'attore internazionale all'epoca era ancora la C.S.C.E., ovvero la sua fiduciaria, la CEE. Nel settembre 1991 il conflitto jugoslavo venne portato all'ordine del giorno del Consiglio di Sicurezza dell'ONU e con la risoluzione 713 venne deciso un embargo delle armi contro tutte le repubbliche della Jugoslavia. Alla fine di maggio 1992 il Consiglio di Sicurezza impose contro la ridotta Repubblica Federale Jugoslava, ritenuta responsabile della guerra in Bosnia-Erzegovia, dure sanzioni economiche che vennero ulteriormente inasprite nell'aprile 1993 e che durano in parte fino ad oggi. Le conseguenze sono già state esposte prima.

La durata delle sanzioni veniva prolungata ad intervalli regolari dal Consiglio di Sicurezza -dominato dagli imperialisti- anche se, tra l'altro, i rapporti del UNPROFOR rendevano noto che la Repubblica Federale Jugoslava al contrario della repubblica croata, non partecipava militarmente alla guerra nella Bosnia-Erzegovina.

Il 4 giugno 1993 la risoluzione nr. 836 del Consiglio di Sicurezza ampliava il mandato del UNPROFOR nella Bosnia-Erzegovina: all'art. 9 si permetteva l'impiego di tutte le "misure necessarie (...), compreso l'uso della forza", e all'art. 10 si incaricavano dell'esecuzione "le organizzazioni o gli accordi locali sotto il controllo del Consiglio di Sicurezza". Così la NATO, quale unica organizzazione in grado di agire militarmente in tutto il mondo si era creata una legittimazione all'intervento militare in Jugoslavia. Da allora, ad intervalli regolari, vengono bombardate postazioni serbe come nei dintorni di Sarajevo, Gorazde o Bihac. I primi sviluppi -discussione sull'utilizzo di tornado e sull'utilizzo delle truppe NATO- indicano un ulteriore inasprimento della politica interventista occidentale in Jugoslavia.

Così è fissato il ruolo dell ONU quale foglia di fico degli interventi imperialisti nel "nuovo ordine mondiale": il Consiglio di Sicurezza prende decisioni di principio generali sulla cui interpretazione concreta e realizzazione intervengono gli organi decisionali della NATO, le cui truppe, sotto il comando della NATO, vengono dichiarate in caso di bisogno forze armate dell'ONU. La NATO rende noto l'ultimatum e il segretario generale allo scadere dell'ultimatum ha solo la funzione di alzare la paletta verde per dare l'avvio. Il Consiglio di Sicurezza dell'ONU è quindi solo un organo di legittimazione della politica interventista occidentale.

Con la creazione di una nuova istituzione penale internazionale - il "Tribunale Internazionale per la persecuzione dei responsabili di gravi infrazioni dei diritti umani sul territorio della ex Jugoslavia dal 1991" - il Consiglio di Sicurezza dell'ONU, cioè gli Stati della NATO, sono riusciti ad appropriarsi a poco a poco anche del potere mondiale di definire in senso giuridico-formale ciò che è diritto e ciò che invece è ingiustizia, la colpevolezza e l'innocenza. Già oggi si vede la perpetuazione della Corte penale per i crimini nella ex Jugoslavia e l'ampliamento delle sue competenze (si sta già pensando ad un istituto simile anche rispetto al Ruanda e ad Haiti). Il Consiglio di Sicurezza può semplicemente dotare l'Istituzione già esistente di nuove competenze. Chi e per quali crimini verrà e viene perseguitato, giudicato e punito internazionalmente dipende sempre da un mandato del Consiglio di Sicurezza dell'ONU e quindi dagli interessi degli Stati imperialisti.

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Gli interessi imperialisti nella distruzione della Jugoslavia

La crisi della Jugoslavia e la conseguente guerra civile nell'ex Bosnia-Erzegovina non sono riconducibili -come già espresso prima- solamente alla politica interventista degli Stati imperialisti anche se questa ha avuto un'influenza rilevante nel farla scoppiare e nel portarla ai suoi sviluppi attuali. In tutto questo gli interessi perseguiti non sono così evidenti come, ad esempio, nella guerra contro l'Irak. Gli Stati imperialisti perseguono evidentemente vari obiettivi e quelli concreti dei singoli Stati sono a volte in parte diversi. Tutti però erano d'accordo nel fare tutto il possibile per eliminare anche in Jugoslavia i resti di una società socialista e distruggere la Jugoslavia come fattore indipendente della politica internazionale. A tutti gli Stati premeva anche di avere un'influenza il più forte e più diretta possibile sugli avvenimenti nei Balcani. I Balcani, come bastione verso il Vicino Oriente e verso le repubbliche meridionali dell'ex Unione Sovietica, hanno una grande importanza sia economica che militare.

Gli interessi più facilmente riconoscibili sono quelli dell'imperialismo tedesco, che si riallacciano alla sua politica nei confronti dell'Europa sudorientale dalla seconda metà del 19° secolo fino al 1945. Ora come sempre l'imperalismo tedesco considera i Balcani come il suo "giardino di casa" naturale e come un suo ponte verso la Turchia ed oltre fino al Vicino e Medio Oriente. A questo scopo è stata fatta rivivere la tradizionale immagine dei "Serbi assetati di sangue" ed è stata utilizzata per proteggere la politica estera tedesca.

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