QUADERNI DI CONTROINFORMAZIONE N.24 - FEBBRAIO 1995

MEDIO ORIENTE
IL MERCATO IMPERIALISTA NEI PAESI ARABI

PREMESSA

La Conferenza di Madrid e gli Accordi di Oslo hanno prodotto danni di ogni genere al popolo palestinese e alle popolazioni arabe coinvolte in questo progetto imperialista.

Le sue ricadute sull'economia palestinese sono, forse, l'elemento che i vari sostenitori di questo presunto processo di pace hanno avuto più difficoltà ad occultare, tanto sono inconfutabili e indiscutibili i dati che attestano l'assoluto impoverimento della popolazione palestinese quando sono passati solo pochi anni dall'inizio di questo negoziato.

Ma la devastazione economica della Palestina viene comunemente presentata come una triste fatalità (da parte di chi ritiene che il mondo vada costruito a partire dalle esigenze di sicurezza di Israele) o, nella migliore delle ipotesi, come una tragedia che nasce dalla mancata applicazione degli accordi di Oslo e dai ritardi dei finanziamenti internazionali.

In realtà è indispensabile, ed è uno dei pilastri di tutta la costruzione a cui ha dato ufficialmente il via la Conferenza di Madrid.

La pratica della chiusura dei Territori, che è uno degli elementi centrali dell'aggressione israeliana all'economia e alle condizioni materiali di vita dei palestinesi, si è infatti intensificata fino a diventare uno strumento sistematico di controllo di ogni aspetto della vita palestinese, proprio durante i governi laburisti di Rabin e Peres, naturalmente in nome di quell'astrazione metafisica che è la sicurezza dello stato di Israele contro i "terroristi".

In realtà questa punizione collettiva, assolutamente inutile per prevenire le azioni armate con cui le popolazioni oppresse reagiscono inevitabilmente all'occupazione, ha motivazioni ed obiettivi che vanno oltre questa superficiale lettura e che mirano allo strangolamento dell'economia palestinese, a separare in modo irreversibile l'economia di Gerusalemme da quella del resto della West Bank e all'ottimizzazione del quadro di controllo militare utilizzato in passato, che arriva a modificare le stesse basi del radicamento palestinese nelle aree che Israele considera prioritarie, a partire da Gerusalemme.

L'inasprimento della chiusura ha determinato un drastico aumento della disoccupazione sia in termini assoluti che relativi, attraverso un calo dei consumi locali accompagnato dall'aumento dei prezzi dei beni di prima necessità.

La disoccupazione nei Territori Occupati è oltre il 60%, e il surplus della maggior parte della produzione di queste zone viene assorbito da Israele, con un conseguente rialzo dei prezzi (più elevato di quello che sarebbe determinato dal basso potere di acquisto locale).

Gli effetti devastanti della chiusura non si limitano alla disoccupazione dei palestinesi che lavorano in Israele, ma colpisce con altrettanta durezza quelli che lavorano nei Territori.

Infatti dopo le ripetute chiusure, a causa di un aumento dell'offerta di forza lavoro sul mercato locale, la retribuzione media si è ridotta in modo significativo.

Questo si è tradotto in un beneficio soprattutto per le imprese israeliane, visto che quelle palestinesi sono state penalizzate da un calo di profitti legato all'impossibilità di intervenire su un mercato vasto quanto quello dei concorrenti israeliani.

L'indisturbata distribuzione di merci israeliane nei Territori Occupati significa un trasferimento di denaro dei palestinesi in mani israeliane senza un ritorno legato all'export palestinese.

Le autorità israeliane hanno anche potuto orientare in modo definitivo le scelte dei distributori palestinesi, discriminando con la negazione del visto d'ingresso in Israele quelli che non distribuivano prodotti israeliani.

Viene inoltre indirizzata dalle autorità anche la scelta degli imprenditori palestinesi rispetto all'assunzione dei lavoratori.

Infatti dopo l'inasprimento della chiusura viene richiesto loro di firmare un documento in cui si dichiarano responsabili delle azioni dei loro dipendenti residenti nella West Bank.

Naturalmente questo non significa che Israele abbia intenzione di rinunciare ai vantaggi della mano d'opera palestinese a basso costo.

Già da tempo si sta parlando della costruzione di parchi industriali, nella West Bank, per molti versi sul modello del distreto di Eretz, al confine con Gaza, anche se questo progetto per vari motivi ancora stenta a partire.

Invece di portare i lavoratori palestinesi in Israele, il lavoro sarà portato direttamente a loro, in una sorta di limbo occupazione o "duty free" territoriale.

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INTERVISTA A ADEL SAMARA

Adel Samara è un intellettuale marxista palestinese, autore di numerose pubblicazioni in arabo e in inglese e direttore del centro studi Al Mqashreq di Ramallah.

Il progetto imperialista che sottende gli accordi di Oslo e le sue articolazioni negli assetti di potere all'interno della società palestinese sono stati al centro dell'intervista realizzata con lui lo scorso agosto, a partire dalla valutazione di quali siano stati i "guadagni" della borghesia nell'aver prodotto, con l'accettazione di questi accordi, una situazione in cui l'economia palestinese è fortemente penalizzata nell'immediato e nelle sue possibilità di sviluppo dalle politiche israeliane legate ai rapporti di forza definiti da Oslo.

Altro tema della prima domanda, strettamente collegato al precedente, è stato il modo in cui gli accordi di Oslo hanno modificato i rapporti di classe nella società palestinese.

Adel Samara - Ci sono 3 settori di borghesia palestinese che hanno giocato un ruolo fondamentale in questi accordi:
- il capitalismo commerciale;
- il capitalismo burocratico, rappresentato da Arafat e dalla sua corte, arricchitosi grazie al suo ruolo nell'OLP;
- il capitalismo finanziario. I ricchi palestinesi della diaspora che sono parte integrante del capitalismo finanziario internazionale, sia nei paesi arabi che nel cuore dell'imperialismo.

Questi sono i settori che hanno deciso, architettato e anche firmato gli accordi, e i cui più noti rappresentanti sono Arafat, Abdel Shafi, Ahnan Ashrawi, ecc.

Per costoro era molto chiaro, ancor più che per noi, che il cuore di questi accordi è l'ottimizzazione dei profitti e non l'indipendenza nazionale, un obiettivo che può essere raggiunto con l'Autorità Palestinese proprio perché manca un capitalismo produttivo.

Gli interessi di un capitalismo nazionale produttivo sarebbero in contraddizione con quelli di Israele, ma non i loro.

Questi settori non sono danneggiati dalla situazione attuale: hanno il controllo politico, quello economico, e godono di una situazione di monopolio.

Con gli accordi non hanno perso nulla, anzi hanno guadagnato il ruolo che volevano ricoprire, quello di agenti del mercato occidentale e dell'economia israeliana; ed è esattamente quello che sono diventati.

Non si deve prestare attenzione alle loro lamentazioni sui media, si tratta solo di manovre tattiche, niente di più.

Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, gli accordi di Oslo e in particolare la loro applicazione hanno causato una frattura che può avere pesantissime ripercussioni sulla società palestinese.

Innanzi tutto la cerchia che ruota attorno all'Autorità Palestinese si è arricchita sfruttando la situazione.

Per fare un esempio, se qualcuno vuole importare sementi dall'estero, i tre settori che individuavo all'inizio sono il monopolio attraverso cui deve necessariamente passare.

Sono loro che possono dare i permessi e si può essere certi che pretenderanno una partecipazione agli utili della compagnia che vuole entrare nel mercato palestinese.

Ma anche dopo aver ottenuto il permesso, le richieste di denaro per i più svariati motivi, sempre da parte di questa élite, non cesseranno.

Non c'è una possibilità legale di reagire, si è costretti continuare a pagare.

Per quanto riguarda invece gli altri settori sociali, la situazione diventa ogni giorno più drammatica.

La disoccupazione è aumentata spaventosamente, e non solo causa della chiusura dei Territori da parte degli israeliani, ma anche del fatto che l'Autorità Palestinese non usa gli aiuti che provengono dall'estero per investimenti produttivi e nemmeno per sviluppare i servizi pubblici.

Investimenti nello "stato sociale" rappresenterebbero un'opportunità per le categorie di palestinesi più svantaggiate, i disoccupati, le donne (che nel settore pubblico, a differenza che in quello privato, non sarebbero discriminate); la stessa Autorità Palestinese in prospettiva ne trarrebbe beneficio.

Ma il governo non investe né nel settore produttivo, né nel settore pubblico: spende tutto per mantenere le sue strutture di intermediazione finanziaria, la polizia e i servizi di sicurezza.

La chiusura dei Territori da parte di Israele e la strategia economica dell'Autorità Palestinese hanno reso la situazione davvero insostenibile.

Naturalmente ci sono settori economici più dinamici di altri, come ad esempio quello delle costruzioni, che è stato stimolato dagli accordi ed ha iniziato a muoversi con una certa autonomia.

Gli investimenti in questo settore sono stati attirati dall'enorme possibilità di sfruttamento e hanno prodotto livelli di sfruttamento altissimi, visto che oggi il proletariato palestinese non può in genere lavorare in Israele, e quindi è più ricattabile che mai.

A godere di questo boom delle costruzioni sono da un lato la borghesia palestinese che utilizza forza lavoro a basso costo, ormai priva di ogni potere contrattuale, dall'altro quella israeliana, visto che tutto il materiale necessario per le costruzioni proviene da Israele.

Questo significa che il capitalismo palestinese, sia quello della diaspora che quello dei Territori, sta investendo nell'economia israeliana.

L'altro settore, oltre all'edilizia, che è diventato particolarmente attivo dopo gli accordi è quello speculativo.

Un elemento da evidenziare è che le banche palestinesi investono il risparmio palestinese prevalentemente all'estero.

Molta gente sta cercando di avviare un'attività e di acquistare immobili e il settore speculativo, in questo quadro, ha avuto un ruolo decisamente distruttivo: è evidente che in una situazione di monopolio la speculazione fa il gioco di settori ristretti ed esclude dall'accesso al credito la maggior parte dei palestinesi facendo lievitare i prezzi di tutto.

D - Che ruolo avranno i parchi industriali nello sviluppo dell'economia palestinese e nelle relazioni israelo-palestinesi?

Adel Samara - In realtà i parchi industriali sono ancora in una fase di ideazione. Quello di Eretz (al confine nord di Gaza) esiste da molto tempo, ma ora sono in programma altri 2 parchi a Gaza e 3 o più nella West Bank, tutti sul confine.

Lo scopo di questi parchi è ovvio: attrarre mano d'opera palestinese a basso costo che il capitalismo israeliano o internazionale potranno utilizzare a loro piacimento.

I parchi industriali non dovranno rispettare i parametri previsti in Israele per la protezione dell'ambiente visto che saranno delle "free zone" al di fuori della giurisdizione dei vari stati.

Comunque, anche se dovessero essere sotto l'A.P. questa non sarebbe in grado né avrebbe la volontà di applicare i moderni criteri per la salvaguardia ambientale.

Queste aree fortemente inquinanti saranno contigue ai territori palestinesi, che sono piccole aree densamente popolate.

Anche la costruzione di questi "parchi" si inserisce nella strategia israeliana, che è caratterizzata da 2 elementi: separare i palestinesi dagli israeliani ma nello stesso tempo integrare l'economia palestinese in quella israeliana. I parchi industriali permettono di raggiungere questi obiettivi senza consentire alcuna libertà di movimento ai palestinesi.

Nonostante si parli tanto di libera circolazione di capitali, merci e forza lavoro, quello a cui assistiamo non è altro che la libera circolazione della produzione israeliana nel mercato palestinese.

D - Fino ad ora quali sono i più importanti progetti di investimento internazionali e quali effetti ha nell'economia regionale la competizione Stati Uniti-Francia?

Adel Samara - La competizione tra i diversi centri del potere imperialista nell'area non è destinata a durare a lungo perché indirettamente c'è una spartizione del mercato arabo.

Basta uno sguardo a quello che sta succedendo: l'Unione Europea e egemone nel Mahgreb, gli Stati Uniti dominano completamente gli stati del Golfo e per certi aspetti Egitto, Siria, Iraq e Giordania, mentre i Giapponesi stanno cercano di entrare ma sono ancora sul confine.

Per quanto riguarda Stati Uniti e Unione Europea la divisione è già avvenuta.

Perché ci fosse una reale competizione, Europa e Stati Uniti dovrebbero considerare interessante il mercato palestinese.

In questo caso essi potrebbero entrare in conflitto per aggiudicarsi accordi commerciali, licenze, permessi dell'Autorità Palestinese, o per spingerla ad essere partner o agente di questi progetti.

La competizione sarebbe reale se le aree palestinesi fossero giudicate attraenti per gli investimenti economici delle multinazionali, ma io non penso che sia così.

Qualcuno sostiene che in Palestina c'è una forza lavoro di prim'ordine, ma in realtà la nostra forza lavoro si è formata in settori industriali tradizionali, mentre oggi i settori trainanti sono altri, comunicazioni, settore informatico, ecc.

Per questo non penso che la nostra forza lavoro sia giudicata interessante. Comunque penso che le contraddizioni potrebbero svilupparsi ad un altro livello, partendo da settori di capitalismo nazionale produttivo arabo, che hanno un certo peso in paesi come Siria, Iraq e Egitto.

Non sto parlando del capitalismo finanziario di questi paesi, ma di quello che ha il controllo strategico della produzione e che se non vorrà essere assorbito dal capitalismo internazionale dovrà combattere.

Questo è il motivo per cui la normalizzazione in Egitto e in Siria è diversa da quella in Giordania e in Palestina: in Egitto e in Siria ci sono strutture produttive e sociali, qui non c'è niente.

Per questo penso che la resistenza comincerà in questi paesi, e non solo ad opera del capitalismo produttivo e dei militanti nazionalisti, ma degli intellettuali, delle organizzazioni dei lavoratori e anche dei regimi, almeno in parte.

Si può parlar male quanto si vuole del regime in Siria, ma sicuramente anch'esso teme la normalizzazione con Israele e settori importanti del governo non la vogliono assolutamente.

È da là che partiranno le contraddizioni più significative, non dalla Palestina o dal capitalismo internazionale.

D - Recentemente hai analizzato i progetti della Banca Mondiale per la Palestina. Quali sono le tue valutazioni?

Adel Samara - Nei documenti relativi a questi progetti gli agenti della "Banca Mondiale", compresi quelli palestinesi, non hanno fatto nulla per nascondere i loro veri obiettivi.

Questi documenti si concentrano su come sostenere il regime e gli accordi di Oslo, su come migliorare la vita quotidiana dei palestinesi, ad esempio portando l'acqua nei villaggi a cui ancora non arriva e altri miglioramenti che allentino la tensione nei confronti dell'Autorità Palestinese, ma non parlano assolutamente di sviluppo agricolo e industriale.

Si concentrano inoltre su come educare, o rieducare i palestinesi ad essere gente "per bene", ad apprezzare la stabilità, a rispettare il settore privato, a capire il libero mercato, a non cercare di resistere più all'occupazione, ecc.; una vera e propria rieducazione, insomma, che deve cancellare aspirazioni estradizioni.

È un programma che si inserisce in pieno nel progetto generale di adeguamento delle classi lavoratrici e delle popolazioni in genere alle esigenze del capitalismo internazionale che è proprio della Banca Mondiale e di cui si analizza ora l'applicazione in Palestina.

Su questi progetti si è tenuta una conferenza in luglio, all'Università di Birzeit.

Ho studiato attentamente tutti i documenti: al di là della campagna pubblicitaria su questi progetti e del linguaggio sofisticato, per addetti ai lavori, dei documenti, non si trovava assolutamente nulla rispetto a quello di cui avrebbe bisogno la gente qui, e cioè di uno sviluppo economico strutturale.

Per fare un esempio, uno dei documenti analizza come attirare nelle aree palestinesi gli investimenti dei palestinesi della diaspora.

La cosa sconcertante è che porta avanti questa analisi facendo un parallelo tra la diaspora palestinese e quella cinese in relazione al ruolo che quest'ultima ha avuto nel Taiwan.

Si tratta di un paragone assurdo, la borghesia taiwanese è costituita da circa un milione di persone emigrate dalla Cina con tanto di beni e strutture.

Se proprio si vogliono fare paragoni, Taiwan può essere assimilata ad Israele, uno stato coloniale capitalista.

Anche gli investimenti dei capitalisti taiwanesi in Cina non possono essere utilizzati come esempio o modello, perché la Cina è un paese con un fortissimo settore pubblico (oltre alle altre enormi differenze), mentre nelle aree palestinesi anche quel poco di simile al pubblico che esiste, come il settore elettrico e la gestione dell'acqua, sta per essere smantellato proprio su raccomandazione di questi organismi internazionali.

Una volta la Palestina era il simbolo della rivoluzione, ora sta per diventare il simbolo della più totale acquiescenza al libero mercato, alle privatizzazioni e ad ogni tipo di aggiustamento strutturale.

D - Come valuti l'azione e la strategia della sinistra palestinese, in particolare rispetto alla situazione economica?

Adel Samara - Purtroppo la sinistra palestinese e inadeguata.

Non tanto per quanto riguarda la pratica rivoluzionaria ma per quanto riguarda la concettualizzazione di cosa significhi "essere sinistra", dell'ideologia radicale, del significato di marxismo-leninismo.

La nostra è una sinistra politica, ma non intellettuale o teorica.

Si può parlare ore e ore di politica, fare mille conferenze, ma ciò che è realmente importante è che alla base vi siano forti categorie, che devono essere adattate alle esigenze delle masse in un determinato momento o situazione.

La sinistra palestinese era adeguata nel periodo della lotta armata, all'interno di una fase che possiamo definire di liberazione nazionale, nell'ambito della quale potevano essere sufficienti idee guida non eccessivamente articolate.

Ora ci troviamo in una fase di lotta sociale e nazionale e la sinistra palestinese, troppo povera di contenuti, è in parte scomparsa, soprattutto sul terreno della critica e della economica.

La maggior parte dei quadri della sinistra palestinese non capisce che c'è qualcosa che non funziona se ha lo stesso programma economico del governo. Se questo avviene si perde il senso stesso e l'utilità della sinistra.

Questo è proprio l'aspetto a cui attualmente sto dedicando tutte le mie energie: la sinistra deve elaborare una propria piattaforma economica indipendente, un suo pensiero economico collegato alla situazione.

Ci sono tantissime cose da discutere, la gente è senza lavoro, affamata, oppressa, repressa.

Ci sono tutti gli elementi per definire una strategia in questa direzione, ed è nostro dovere lottare per la crescita della sinistra, perché solo questa crescita può rappresentare un miglioramento reale delle condizioni di vita delle masse palestinesi.

D - La sinistra non è attiva nelle organizzazioni sindacali?

Adel Samara - La sinistra è presente nelle organizzazioni sindacali solo a livello di rappresentanza politica e questo è un problema.

Uno dei punti che la sinistra dovrebbe comprendere, e che fino ad oggi non sembra aver capito, è che la borghesia con cui si confronta ora si è modificata dai tempi dell'O.L.P. e che ha tradito ogni aspirazione sociale e nazionale delle masse palestinesi.

Il problema della sinistra è di non essersi saputa adattare questa nuova fase.

Oggi la priorità è quella di rianalizzare la situazione partire dal fatto che la borghesia palestinese non solo è pronta a farlo, ma ha già tradito la causa nazionale.

La sinistra non può continuare ad agire insieme alla rappresentanza politica della borghesia, come avveniva nella leadership dell'O.L.P., ma deve sviluppare un'azione totalmente autonoma a partire dai bisogni delle masse e senza compromettersi con il governo.

La povertà teorica della sinistra le impedisce di comprendere che non c'è un'economia nazionale da difendere, che oggi, in tutto il mondo, si può ragionare solo in termini di classe.

Anche qui in Palestina c'è l'economia della borghesia e quella delle classi popolari. Le donne, i lavoratori, i disoccupati e anche le organizzazioni politiche vivono questa divisione.

Una volta i partiti della sinistra avevano due canali di finanziamento: amici nei paesi arabi e alcuni gruppi a livello internazionale da un lato, e l'OLP dall'altro.

Da quando l'O.L.P. coincide esattamente con Arafat e la sua cerchia, questo canale è stato chiuso.

La sinistra deve capire questa nuova situazione per cui ogni partito ha la sua economia, e quella della organizzazioni di sinistra deve essere integrata con quella delle masse popolari.

Questo deve essere un modo per radicarsi nel sociale e cercare di creare, insieme a settori di classe, un'economia alternativa.

D - Pensi sia possibile un adeguamento delle organizzazioni tradizionali della sinistra alla nuova fase o ritieni più probabile un processo di formazione di nuove organizzazioni, a partire da altri soggetti, come, ad esempio i comitati di base?

Adel Samara - In primo luogo oggi è difficile immaginare la formazione di una nuova organizzazione di sinistra dal basso, ed in secondo luogo le organizzazioni di sinistra che esistono non sono totalmente da buttare.

Ci sono molti buoni quadri, quello che si deve fare non è portare avanti una battaglia contro questi quadri, ma contro la leadership, o settori di leadership.

Il problema è come riattivare un corpo militante che è già fino in fondo presente nelle organizzazioni di base, non come cancellarlo.

Almeno per ora penso che le organizzazioni tradizionali abbiano ancora una possibilità di utilizzare al meglio la propria eredità e di riattivarsi. Ma se il momento e le circostanze in futuro richiederanno qualcosa di diverso, perché no?

Comunque per ora sono contrario allo slogan, oggi molto in voga, "distruggiamo le vecchie organizzazioni", anche perché questo è diventato lo slogan di molti intellettuali e accademici liberali palestinesi, coinvolti nel governo a diversi livelli, che stanno cercando di formare un nuovo partito.

Ci sono stati molti dibattiti pubblici su questo tema, e io ho sempre contrastato questa opzione.

Se la borghesia liberale e intellettuale palestinese vuole fare un partito, lo faccia, ma è assurdo che insista per coinvolgere quelle che dovrebbero essere le rappresentanze politiche delle classi popolari.

Secondo questa gente, in questo nuovo partito, le masse dovrebbero costituire la base e la struttura, e loro dovrebbero essere la leadership.

Quest'idea ha già influenzato alcuni dei quadri più deboli della sinistra che sono affascinate da figure come Abdel Shafi e Hanan Ashrawi.

Abdel Shafi gode di una certa popolarità tra la gente, ma non bisogna dimenticare che è stato, insieme ad Hanan Ashrawi, uno dei veri artefici degli accordi di Oslo, molto più che Arafat.

Non solo. Shafi e Ashrawi hanno iniziato a negoziare con gli israeliani già nell 1985: questi accordi sono stati un piatto cucinato a lungo.

Quando allora mi capitava di parlare di quello che si stava preparando venivo accusato di estremismo. Purtroppo la mia analisi si è poi rivelata corretta.

Per molti versi Abdel Shafi è molto più pericoloso di Arafat, per la gente Arafat è una figura molto più chiara, è il leader dell'Autorità Palestinese che è subalterna agli israeliani, mentre Abdel Shafi viene visto, a torto, come una figura indipendente.

Anche la Ashrawi è vista come una figura indipendente, ed ha anche creato un'associazione per i diritti umani, ma sarebbe bene ricordare che è diventata ministro dell'Autorità Palestinese.

Abdel Shafi, inoltre, sta usando tutta la sua influenza per la creazione di quella nuova organizzazione di cui parlavo prima, una terza forza tra l'Autorità Palestinese e Hamas che chiama "opzione democratica".

Ma cosa vuol dire "democratica"?

Arafat è "democratico", re Hussein è "democratico". La sinistra deve cercare di creare l'"opzione di classe".

Se questo settore di borghesia vuole creare l'"opzione democratica" non abbiamo nulla in contrario, possiamo anche fare battaglie comuni su specifici punti, ma la sinistra non può essere assorbita da questo tipo di opzione, perché deve puntare più in alto.

La democrazia per noi deve avere contenuti economici di classe e avere come obiettivo la giustizia sociale.

D - Vedi come possibile, in un futuro non lontano, una nuova intifada che nasca spontaneamente dalla frustrazione della gente?

Adel Samara - Una nuova intifada non può nascere solamente dalla gente o solamente dalla leadership.

Finora abbiamo avuto tante piccole rivolte spontanee, qua e là, ma le organizzazioni radicali e marxiste ora non sono pronte a lavorare perché queste singole esplosioni si sviluppino in un modo più efficace e si allarghino.

La gente ha bisogno di strategie credibili per essere coinvolta, visto che è chiaro praticamente a tutti che questi accordi e questa normalizzazione sono sostenuti con forza dagli Stati Uniti ancor prima che da Israele e dall'Autorità Palestinese: in una nuova intifada migliaia e migliaia di persone potrebbero essere massacrate.

Questa consapevolezza fa sì, ci piaccia o no, che quello che succederà qui non potrà che essere direttamente collegato a quello che avviene nel mondo arabo.

L'imperialismo ha disegnato questi accordi per la regione, non per i palestinesi, e solo a livello regionale potranno essere contrastati.

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IL MERCATO IMPERIALISTA NEI PAESI ARABI

di Adel Samara

Ci sono due diversi progetti imperialisti che riguardano i paesi arabi:

il piano per il Bacino del Mediterraneo, prevalentemente di ispirazione europea, e il piano per il Medio Oriente, più funzionale agli interessi degli Stati Uniti e di Israele.

Anche se molti arabi hanno sostenuto, più che comprensibilmente, le posizioni europee contro quelle israeliane e statunitensi, non si deve pensare che per i paesi arabi i progetti dei primi siano meno pericolosi di quelli dei secondi, soprattutto rispetto alla riproposizione e al rafforzamento della dipendenza politica ed economica.

Entrambi i progetti hanno come punto centrale la separazione tra le popolazioni arabe e i regimi e le classi dominanti arabe, che sono gli agenti degli interessi imperialisti.

Una delle esigenze della globalizzazione è l'indebolimento dei regimi della periferia contestualmente al rafforzamento di quelli del centro, e il passaggio dall'imperialismo di singoli stati-nazione a quello regionale o continentale.

Entrambi i progetti imperialisti, quello del Medio Oriente e quello Mediterraneo, sono concepiti per soddisfare queste esigenze.

Entrambi i progetti sono motivati dalla determinazione degli stati del centro dell'ordine mondiale di liberare il commercio internazionale dal protezionismo dei singoli stati- nazione e di mantenerne saldamente il controllo delle riserve petrolifere nelle mani del centro.

Un altro motivo comune ai due progetti è il grande interesse che i sostenitori di entrambi hanno rispetto alla penetrazione dei mercati arabi.

Il motivo di questo interesse è la grande quantità di capitali liquidi presente nel mondo arabo, insieme all'enorme dimensione di questi mercati.Questi particolari sono di grande importanza alla luce del fatto che l'ordine mondiale soffre di una crisi legata all'iperproduzione di merci mentre la capacità di consumo è bassa.

La nozione di "partnership tra capitale e governo" nel mondo arabo (che è stata alla base del summit economico di casablanca nel 95) indica la politica necessaria allo sviluppo del progetto imperialistico che è quella di ampliare i tradizionali confini delle elite politiche arabe fino ad inserivi, con un ruolo significativo, i possessori di capitali, in particolare gli agenti economici dell'imperialismo.

Questo significherebbe, alla luce della subalternità di questi soggetti, la partecipazione diretta dei capitalisti stranieri al governo dei paesi arabi.

Quest'opzione aumenterebbe la dipendenza dei paesi arabi, facilitando la realizzazione di entrambi i progetti imperialisti di cui si diceva all'inizio, e allontanerebbe ulteriormente ogni prospettiva di integrazione araba.

Le fasi della colonizzazione

Il primo passo del progetto per il Medio Oriente, di ispirazione statunitense, è quello di dare legittimazione al controllo di Israele su West Bank, Gaza e Giordania, come è chiaramente avvenuto con gli accordi tra Israele e la Giordania e i Palestinesi.

La questione che si pone ora è se questo piano rimarrà confinato a queste tre entità o se si allargherà alla Siria e ad altri paesi arabi., una questione legata alla limitata autonomia futura del mondo arabo e ai rapporti di forza nella lotta di classe delle popolazioni arabe.

Ma anche il progetto europeo sta procedendo e producendo effetti: l'Unione Europea ha recentemente firmato due accordi bilaterali con Tunisia e Marocco e sta conducendo negoziati bilaterali con Egitto e Giordania.

La parte più consistente della cosiddetta "partnership" con l'Unione Europea consiste nella creazione graduale di qui al 2010 di una zona di libero scambio tra l'U.E. e i paesi del Nordafrica e del Bacino del Mediterraneo.

Questo prevede la graduale rimozione di dogane e di ogni forma di limitazione e controllo sui commerci dell'U.E. con i paesi firmatari dei vari accordi bilaterali.

La proposta di partnership prevede anche il sostegno ad uno sviluppo ed un'economia "liberi", la rimozione degli ostacoli agli investimenti, includendo gli investimenti nel settore bancario, i trasferimenti di tecnologie e la garanzia di circa 6 milioni di dollari di assistenza finanziaria da parte del Consiglio Europeo: la Banca Europea di sviluppo ha aggiunto a queste cifre una quantità di prestiti cumulativi.

L'U.E. si oppone a una zona di libero scambio che includa i prodotti agricoli o i prodotti dell'industria estrattiva e che sarebbe molto più utile dal punto di vista del Medio Oriente.

Per esempio l'accordo firmato con la Tunisia esclude esplicitamente i prodotti agricoli, questo significa che il tessile e i prodotti alimentari esportati dalla Tunisia all'U.E. non saranno sgravati dalle tasse doganali anche quando la zona di libero scambio sarà pienamente operativa (questo tipo di condizioni sono state imposte anche al Sud Africa ).

L'egemonia economica di Israele

Israele è destinato ad avere una posizione egemonica nel mercato regionale del Medio Oriente, comunque le caratteristiche strutturali della società israeliana sono un ostacolo alla formazione di un mercato regionale con le caratteristiche di quelli di altre aree del mondo.

Per esempio, il NAFTA, nonostante sia diretto contro le popolazioni del Messico e del Canada e contro la classe operaia statunitense, almeno riflette l'accordo delle forze del capitale nella regione.

Lo stesso si può dire per l'U.E. ed il MERCOSUR.

Invece, come dicevamo sopra, le caratteristiche della società israeliana impediscono il costituirsi anche di questa limitata partnership che contraddistingue gli altri accordi regionali.

Oltre all'enorme dislivello in termini di sviluppo economico e reddito pro capite tra Israele e i Paesi Arabi, la struttura culturale ed ideologica della società israeliana, insieme al suo eurocentrismo e alla sua subalternità all'ideologia sionista contribuiscono ad impedire lo sviluppo di quel "triangolo" che è il prerequisito di qualsiasi mercato comune, cioé il "libero movimento" dei 3 fattori produttivi essenziali: merci, capitale e lavoro.

Israele compie sforzi considerevoli per incrementare l'esportazione delle sue merci e dei suoi capitali, ma non è disponibile a permettere una contropenetrazione di capitali arabi che cerchino qualsiasi forma di partecipazione all'economia israeliana.

Ma non c'è solo questo elemento: Israele soprattutto non intende permettere l'ingresso di migliaia di lavoratori dai paesi Arabi e dalla Turchia perché in questo vedrebbe una minaccia per la sua struttura sociale ebraico-sionista.

"L'integrazione attraverso la dominazione" di Israele nel mondo arabo è un interesse fondamentale degli Stati Uniti nella regione.

Per raggiungere l'obiettivo dell'egemonia israeliana, la "normalizzazione" (a livello politico, economico e culturale) è una condizione necessaria, sebbene insufficiente. Da questo deriva l'importanza di rompere il boicottaggio arabo di Israele - un processo già decisamente sottotono almeno rispetto a sei stati arabi.

Si potrebbe dire che l'economia israeliana dopotutto non è così spaventosa, e che quindi il suo ingresso nel futuro mercato del Medio Oriente non dovrebbe gettare nel panico i Paesi Arabi. In realtà, anche se la questione non è puramente economica, le sue implicazioni economiche sono più complesse di quelle generalmente riconosciute. La profonda relazione tra il capitale israeliano e quello del centro dell'imperialismo, significa che il mondo arabo è destinato a subire un attacco da parte del capitale internazionale, non solamente israeliano.

Dobbiamo ricordare che, nelle sue guerre contro le popolazioni arabe, lo stato israeliano non ha mai dovuto contare solo sulla sua forza; nello stesso modo, nella guerra economica contro il mondo arabo, che costituisce l'essenza stessa del progetto del " nuovo mercato del Medio Oriente", Israele non combatte da solo. In altre parole, la potenza economica israeliana non può essere misurata avendo come riferimento solo i suoi confini geografici.

Deve essere considerata la struttura economica israeliana nel suo complesso, incluso il suo livello tecnologico, le sue infrastrutture, le sue infrastrutture finanziarie, la sua capacità produttiva in campo tecnologico. E tutti questi elementi devono essere interpretati alla luce della posizione, del ruolo e delle strette relazioni con il capitale imperialista dello stato di Israele.

Un semplice esempio delle implicazioni di questi fattori è fornito dagli scambi commerciali tra l'Egitto ed Israele: L'industria tessile egiziana è stata in gran parte appaltata ad alcune grosse compagnie tessili israeliane: Israele fornisce a compagnie come la Marks & Spencer (catena inglese di vendita al dettaglio) le merci prodotte in Egitto. Ma i mediatori israeliani guadagnano 8 dollari per ogni dollaro guadagnato dagli imprenditori egiziani.

Un altro esempio del tipo di penetrazione in atto è il fatto che le più importanti imprese israeliane hanno già impiantato una quantità di filiali in Giordania: nel solo distretto industriale di Irbid (El-Hassan) ci sono già 5 impianti israeliani.

Sebbene il trattato tra Israele e la Giordania sia recente, Israele ha già iniziato a trasferire la sua industria tessile dalla Palestina del 48 alla Giordania, per sfruttare i vantaggi di un più basso costo del lavoro e per creare una testa di ponte israeliana in Giordania che permetterà di penetrare il più ampio mercato arabo con maggiore facilità.

Le conferenze economiche di Casablanca, Amman e del Cairo erano mirate più a facilitare l'ingresso del mercato israeliano nel mondo arabo che ad attrarre investimenti dall'estero, come sia i regimi arabi che l'Autorità Palestinese hanno lamentato.

La quota di investimenti diretti dall'estero di cui ha beneficiato il mondo arabo è stata solo il 3% del totale (che nel 1995 a livello mondiale ammontava a 20.7 miliardi di dollari). Agli stati del Golfo è stato destinato lo 0.5%, a quelli asiatici il 55%, all'America Latina il 16% e all'Europa dell'est l'11%.

Inoltre il 50% degli investimenti nei paesi arabi è arrivato sotto forma di prestiti delle banche commerciali e da partecipazioni finanziarie e solo il restante 50% sotto forma di investimenti.

Va anche considerato che non esiste possibilità che i palestinesi attraggano investimenti internazionali, nonostante le rassicurazioni in questo senso che ricevono continuamente. Questo a causa dell'instabilità che deriva dall'assoluta inadeguatezza economica e finanziaria dell'Autorità Palestinese, soprattutto alla luce del fatto che il debito estero dell'A.P. ha ormai raggiunto i 760 milioni di dollari.

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IL NUOVO MEDIO ORIENTE

di Eli Aminov (pubblicato su "NEWS FROM WITHIN" di Gennaio 97 )

(sintesi di un articolo di Eli Aminov apparso su Meida l'Haverim dell'autunno 96. Questo periodico viene pubblicato da "The Society of St. Yves", centro cattolico di monitoraggio delle violazioni dei diritti umani con sede a Gerusalemme - Eli Aminov è un intellettuale israeliano di orientamento trotskista (Mazpen) molto attivo nel campo dei diritti umani.)

Se qualcuno avesse bisogno di ulteriori prove di come il nuovo ordine del Medio Oriente seguito alla conferenza di Madrid e voluto dagli Stati Uniti, altro non sia che un'alleanza dei ricchi della regione contro i poveri, il recente raddoppiamento del prezzo del pane in Giordania, ordinato dalla Banca Mondiale e dal F.M.I., costituisce una prova inconfutabile.

La rivolta del pane, nell'Agosto del 96, è stata repressa con il pugno di ferro: decine di dimostranti sono stati feriti, centinaia arrestati, è stato imposto il coprifuoco, le zone dei disordini isolate telefonicamente, le attività politiche completamente censurate, il tutto nel più assoluto silenzio internazionale.

Le misure repressive messe in atto da re Hussein hanno avuto l'appoggio degli Stati Uniti e di tutti i regimi della regione, persino la Siria ha evitato di condannare apertamente Hussein.

In questo contesto la visita di Netanyahu in Giordania, avvenuta due settimane prima che venissero decretati i provvedimenti che eliminavano i sussidi per i beni di prima necessità, ha un senso preciso.

Netanyahu non solo esprimeva il suo sostegno a queste misure, così come ogni governo israeliano ha sempre sostenuto il re giordano contro il suo popolo, ma aveva anche l'obiettivo di conquistarsi la fiducia dell'elite economica giordana.

La composizione della delegazione di Netanyahu ne è la prova. Oltre agli esperti militari infatti erano presenti tre figure centrali del business israeliano: Dov Lautman, Saul Eisenberg e Benny Gaon, tutti e tre coinvolti in lucrosi affari in Giordania.

Lautman, manager della DELTA TEXILES, ha aperto una fabbrica di tessuti a Irbid, Eisenberg, ISRAEL CHEMICALS, ha firmato un accordo per la creazione di uno stabilimento per la lavorazione del bario insieme ad una fabbrica giordana e Gaon, manager della KOOR (una holding israeliana impegnata in diversi settori industriali), ha aperto una fabbrica tessile vicino ad Amman.

Almeno per quanto riguarda gli aspetti economici del "nuovo Medio Oriente", Netanyahu dimostra di seguire le linee tracciate da Shimon Peres, il tutto sotto la costante supervisione della Banca Mondiale.

Gli israeliani hanno scoperto "le gioie" dello sfruttamento della manodopera giordana ed egiziana solo dopo l'espulsione di quella palestinese dal mercato del lavoro israeliano attraverso la politica di separazione e chiusura dei Territori Occupati che il governo laburista aveva sviluppato.

C'è un enorme dislivello tra il costo del lavoro in Israele e nei paesi vicini.

Nell'industria tessile, per esempio, dove la maggioranza della forza lavoro è costituita dai palestinesi del 48, il salario medio in Israele è di circa 900 dollari al mese, contro i 50/60 dollari in Egitto e i circa 120 dollari in Giordania.

È più che evidente, quindi, che cosa spinga gli industriali israeliani a creare impianti in questi paesi.

Uno dei principali settori di intervento è quello tessile: gli israeliani esportano con il marchio del paese in cui avviene la produzione o con quello israeliano a seconda della destinazione, riuscendo così a sfruttare tutti i trattati internazionali o bilaterali più vantaggiosi per le esportazioni.

Ma naturalmente l'attenzione israeliana è rivolta a tutti i settori industriali.

Un passo fondamentale di questo processo di penetrazione israeliana è, ovviamente, la distruzione dei sindacati indipendenti in Giordania e in Egitto e la cooptazione, da parte dei regimi di questi paesi, di settori delle loro leadership.

C'è molto di più che un astratto simbolismo nel fatto che il principale oppositore del piano di re Hussein per eliminare le libere elezioni nei sindacati giordani, Leith Sh'beilat, sia finito in carcere per motivi legati alla questione palestinese. È stato condannato a 3 anni di carcere per reato di "lesa maestà" solo per aver osservato che la regina Nur ai funerali di Rabin aveva esibito grande dolore e versato molte lacrime, mentre non aveva versato una sola lacrima per Fati Shakaki, il leader della Jihad Islamica palestinese assassinato dal Mossad.

Comunque, non sono tanto Israele o le borghesie locali che potranno sviluppare il piano economico alla base del nuovo quadro regionale: il loro ruolo è quello di agenti del capitale finanziario internazionale, soprattutto americano.

Si possono fare molti esempi: la OSEM, industria alimentare israeliana che ha investito 7 milioni e mezzo di dollari per costruire una fabbrica in Egitto in collaborazione con un esportatore locale, sta diventando una sussidiaria della NESTLÈ; la ISRAEL CHEMICALS è proprietaria della compagnia concessionaria della licenza per lo sviluppo di nuove tecnologie per la desalinizzazione, ed è una compagnia americana di progettazione, la PARSON, che sta sviluppando questo progetto, con un investimento di 250 milioni di dollari, insieme alla ISRAEL CHEMICALS.

Per la Giordania la desalinizzazione è un bisogno molto urgente, soprattutto dopo che re Hussein ha garantito ad Israele la maggior parte dell'acqua dei fiumi Giordano e Yarmuk, con la firma degli accordi del 1994.

Sarà un'altra compagnia americana, oltre alla PARSON, a fare la parte del leone in questo settore. La ANRON infatti ha già un contratto per 2 miliardi di dollari per costruire delle raffinerie ad Aqaba, dopo aver costruito la centrale elettrica che permetterà lo sviluppo del progetto di desalinizzazione.

Perchè non ci sono investimenti nelle aree palestinesi.

Nell'Ottobre del 95 Bill Clinton ha stabilito che le Aree Autonome Palestinesi venissero considerate zone di libero scambio : i palestinesi avrebbero potuto esportare la maggior parte dei prodotti industriali negli Stati Uniti senza pagare imposte di dogana. Come parte di questo progetto dovevano essere creati i "parchi industriali", che sarebbero nati con capitale multinazionale, soprattutto statunitense, consiglieri ed esperti israeliani e forza lavoro palestinese, controllata da sub-agenti palestinesi.

Un esperimento di questo genere è in corso già da anni al checkpoint di Heretz, al confine tra Israele e Gaza.

Il progetto economico dei parchi industriali riprende lo schema di sfruttamento della forza lavoro messicana da parte degli Stati Uniti che costituisce uno degli elementi centrali del NAFTA.

Il primo passo per preparare la forza lavoro palestinese a svolgere il suo ruolo all'interno di questo progetto, quello che prevedeva di ridurre lo standard di vita dei palestinesi al punto di trasformarli in forza lavoro docile, economica e ricattabile, è in gran parte già stato compiuto grazie alle politiche israeliane di chiusura dei territori e all'attività dei servizi di sicurezza dell'Autorità Palestinese.

Ai lavoratori è proibito organizzarsi in sindacati, con l'esclusione di un unico sindacato controllato dall'Autorità palestinese, e l'A.P. ha anche fornito il quadro normativo generale adeguato a questo progetto, limitando la possibilità di creare organizzazioni indipendenti in generale e limitando la libertà di stampa.

Comunque, nonostante la chiusura dei territori, la confisca delle terre ed il confinamento dei palestinesi in "bantustan", allo scopo di separarli dalle loro risorse e fonti di sopravvivenza, il costo della forza lavoro palestinese non è calato a sufficienza. Sembra che il piano della Banca Mondiale, così efficace in Egitto, in Palestina proceda meno rapidamente.

L'impossibilità di separare completamente palestinesi e israeliani, insieme al fatto che in Israele esiste ancora un minimo salariale definito per legge, impedisce che i livelli salariali, almeno in Cisgiordania, precipitino . Perciò il progetto dei parchi industriali, il cui supervisore è un ex capo dei servizi di sicurezza, ha subito alcuni ritardi.

Nei Territori c'è poi un altro problema per lo sviluppo del progetto economico del nuovo Medio Oriente, oltre al costo relativamente troppo alto della forza lavoro palestinese: questo problema è l'assenza del "clima adatto al business". Ne è in gran parte responsabile il fatto che la chiusura dei Territori da parte di Israele, indispensabile per abbassare il costo della forza lavoro palestinese, ha avuto anche l'effetto di destabilizzare, in qualche misura, il regime di Arafat. Ciò ha reso necessario che le forze di sicurezza impiegate dall'Autorità Palestinese fossero oltre 3 volte quelle previste dagli accordi di Oslo.

La spese per il mantenimento di questo apparato assorbe la quasi totalità del budget dell'Autorità Palestinese (fatti salvi naturalmente gli stipendi per i funzionari dell'A.P.) .

L'esigenza di sempre maggiori strumenti di repressione, unita alla mancanza di mezzi per mantenerli, ha dato luogo a fenomeni crescenti di corruzione all'interno della società palestinese. Per fare solo un esempio, ma decisamente significativo, le nuove reclute di FORZA 17 (la guardia personale di Arafat) non ricevono stipendi, ma devono procurarsi le paghe estorcendo denaro alla gente, compresi gli imprenditori (Kol Ha'ir 26/7/96).

Altri aspetti del quadro regionale

I piani del capitale finanziario internazionale per stabilizzare il quadro regionale e ridurre i costi dello sfruttamento delle risorse vanno oltre la liquidazione della questione palestinese e lo sfruttamento delle popolazioni arabe come forza lavoro: gli enormi aiuti americani ad Israele non hanno come obiettivo il mantenimento dei vantaggi relativi della forza lavoro israeliana.

Questo aspetto è emerso con forza dalle dichiarazioni dell'assistente del segretario al commercio statunitense che sottolineava come Israele avesse ancora "un'economia socialista" e come fossero di tipo socialista i valori che ancora guidavano lo stato di Israele (per gli americani il socialismo è rappresentato dalle contrattazioni collettive, diritti sociali e salari minimi stabiliti per legge).

Moltissimi segnali indicano che il capitale statunitense intende aumentare la sua partecipazione ai profitti nello stato di Israele intervenendo nei settori strategici (settore elettrico in testa). È chiaro che per sviluppare questi progetti anche il potere dei sindacati israeliani, così come quello dei sindacati egiziani e giordani, deve essere smantellato.

Il più forte sindacato israeliano, che anche la burocrazia dell'Histradut (il sindacato di regime, con enormi partecipazioni al potere) non è mai riuscita ad addomesticare, è quello dei lavoratori del settore elettrico.

Il nuovo ordine economico, basato sulle privatizzazioni, la mobilità e la flessibilità del lavoro, la liquidazione dei contratti collettivi e la rimozione di tutte le barriere alle importazioni dei prodotti del capitale nordamericano, richiederà l'annientamento di questo, e di ogni forte sindacato, come una delle misure necessarie per liquidare tutte le organizzazioni dei lavoratori nella regione.

La classe operaia israeliana è destinata a pagare a caro prezzo la sua alleanza con la borghesia nella realizzazione del nuovo ordine regionale diretto dagli Stati Uniti, realizzazione che ha avuto luogo attraverso la politica di apartheid, chiusura dei Territori Palestinesi, supersfruttamento della forza lavoro palestinese ed espulsione della stessa dal mercato del lavoro israeliano per essere rimpiazzata da forza lavoro ancora meno in grado di difendersi.

Anche i lavoratori israeliani cominciano a vedere il massacro delle loro organizzazioni sindacali, la riduzione dei loro diritti sociali, l'aumento della disoccupazione e l'abbassamento del loro tenore di vita.

I licenziamenti nell'industria tessile, per esempio, stanno crescendo di pari passo con le esportazioni. Grazie alla possibilità, recentemente acquisita, di sfruttare la forza lavoro in tutta la regione, gli imprenditori israeliani hanno potuto scaricare il costo della crisi interamente sulle spalle dei lavoratori continuando ad aumentare i propri profitti.

Questo è il "nuovo Medio Oriente" che Peres, Netanyahu, Hussein, Mubarak e Arafat stanno cercando di costruire, seguendo il piano imposto dagli Stati Uniti.

Le forze che impediscono la liberazione nazionale Palestinese e l'insediamento del popolo Palestinese nella sua terra, sono le stesse forze che stanno cercando di distruggere le organizzazioni dei lavoratori nella regione.

Questo ha inevitabilmente come corollario il fatto che la classe operaia, le sue organizzazioni e i suoi alleati sono gli unici che possono assumersi la responsabilità di sviluppare una lotta credibile su tutte le questioni con cui si confronta il Medio Oriente, compresa la questione nazionale palestinese.

La liberazione del popolo palestinese sarà possibile solo nel contesto di una lotta democratica complessiva che attraversi tutto il Medio Oriente.

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