QUADERNI DI CONTROINFORMAZIONE N. 26 - MAGGIO 1998

Le Madri di Plaza de Mayo
Intervista con Hebe De Bonafini

Presidente delle Madri della Plaza de Mayo.
I militari le strapparono tre figli e i democratici neoliberisti (e la loro polizia) le hanno aperto la testa a colpi di calcio di fucile…


Intervista con Hebe de Bonafini nel 19° anniversario dell’Associazione delle Madri della Plaza de Mayo.

E’ forte, tenace, combattiva, non si zittisce di fronte a niente e nessuno quando si tratta di difendere la giustizia. Hebe de Bonafini, presidente delle Madri della Plaza de Mayo -Argentina- lotta da 19 anni con lo stesso slancio e conosce molto bene la repressione. I militari le strapparono tre figli e i democratici neoliberisti (e la loro polizia) le hanno aperto la testa a colpi di calcio di fucile, l’hanno calpestata, vessata e hanno inzuppato di sangue il suo fazzoletto bianco. Il primo fatto accadde 20 anni fa, l’altro meno di un mese fa, a La Plata. Ha cuore per difendere tutti noi: i suoi nuovi figli.

Hebe, come, quando e perché nascono le Madri della Plaza de Mayo?
Il 30 aprile 1977. Eravamo in piazza per portare una petizione a Videla. Perché? perché avevano fatto sparire i nostri figli. Cioè ognuna per un proprio caso personale.
Siccome al principio eravamo diverse, prima ci mobilitammo e poi ci organizzammo, eravamo diverse alla nascita perché eravamo nate nella strada. Riguardo al come, penso che per ognuna fu diverso; io racconto sempre che mi avvertì la madre di un prigioniero, che non seppi mai chi era.
Avevo molta paura per il viaggio da El Dique a Buenos Aires, per chi andavo ad incontrare, per come andavo ad incontrarle. La Plaza de Mayo era una cosa troppo grande, aveva troppi significati per me: il Cabildo, gli ombrelli, il peronismo, le fucilazioni.
In quel momento, la Plaza de Mayo era troppo grande. Non so con che coscienza andai; a volte voglio pensare a quel giorno e non posso, so che andai con la paura.

Chi era Azucena Villaflor de Devincenti?
Azucena era la donna che ci organizzò, che ci guidò, che ci riunì nella piazza, era una donna molto coraggiosa; ma essenzialmente ciò che Azucena ci insegnò fu un modo di lottare, ci insegnò che la piazza era il luogo -credeva nella piazza-, aveva militato nel sindacato, sapeva che cos’era la lotta.
Era una donna con diversi figli -quattro con quello scomparso-, moglie di un uomo che vendeva cherosene; una donna che ci insegnò un grande solidarismo, ma anche una grande concezione della classe sociale a cui apparteneva.
Credo che mi sentii vicina ad Azucena per questo; in certe occasioni il tema della classe sociale é stato fondamentale; la lotta di classe si manifestò tra le Madri.
Mi ricordo la prima riunione fuori dalla piazza, ci riunimmo in un bar e venne una Madre di una classe sociale alta, tutta vestita di viola; pioveva, aveva ombrello viola, cappello viola, come se fosse una modella, e disse (imitando l’accento del Barrio Norte): «Voi come vi chiamate?». E Azucena le disse: «Azucena». Allora l’altra donna le rispose (con lo stesso accento di prima): «Ah, lo stesso nome della mia cuoca!».
E Azucena da quel momento non la volle più vedere. Allora cominciammo a parlare delle nostre radici, della nostra gente, del suo quartiere, del mio e credo che oltre alla lotta, nel tempo che divisi con lei, fummo compagne per queste cose.
Io questo tema non lo consideravo molto perché ancora non avevo capito certe cose che i miei figli mi facevano notare, ma allora, durante la dittatura, questa questione era molto presente. Quelle che se lo potavano permettere, volevano riunirsi in pasticcerie care a prendere il te, e noi altre dicevamo: «non possiamo pagare i prezzi di questa pasticceria». Sembra una sciocchezza.
Col passare del tempo capii. Bene, Azucena ci ha insegnato questo: che le classi sociali esistono e che i nostri figli erano scomparsi per questo.

E chi é Hebe de Bonafini?
Sono nata il 4 dicembre del 1928, a El Dique, in un quartiere operaio, di fronte alla fabbrica di cappelli dove lavorava mio padre, mi sono sposata a 19 anni.
Ho avuto tre figli. Jorge, Raul e Alejandra; Jorge e Raul sono scomparsi, insieme con Maria Elena - che divenne mia figlia quando si sposò con Jorge -, ed é rimasta Alejandra che oggi ha 30 anni, e ora ho un figlio in più che é Sergio (Shocklender).
Essenzialmente sono una Madre che si é resa conto che i figli non si possono regalare a nessuno, che ha preso coscienza della lotta dei propri figli, dello sfruttamento, che ha acquistato una coscienza rivoluzionaria.
Sono una Madre che ha deciso di impegnare tutte le proprie forze in questo, di dedicare la propria vita a questo, cioè ai 30.000 desaparecidos, alla lotta della gente, a questo Terzo Mondo che amo, allo scontro quotidiano.
In questi giorni sono molto addolorata, nel vedere tanta ipocrisia nella dirigenza politica argentina, che litiga per l’amministrazione della Capitale Federale mentre ogni volta che cammino per le strade di notte, vedo tanti ragazzi che cercano da mangiare nella spazzatura. E questo non lo sopporto. Lo vado ripetendo tutti i giorni perché non lo sopporto.

Andiamo al tema allora: come si comportarono i diversi settori della dirigenza argentina durante la dittatura militare?
Il primo politico che andai a trovare fu (Raul) Alfonsin.
Era domiciliato in Via San Jose, nel quartiere del Congreso, a Buenos Aires, e apparteneva all’Assemblea Permanente per i Diritti Umani.
Noi Madri, in piazza, ci passavamo delle liste con dei riferimenti per incontrare gente che avrebbe potuto aiutarci.
Bene, uno di quelli che andai a trovare fu Alfonsin; ci andai con la mia carpettina, tutta precisa, come una madre di quartiere.
Arrivai la mattina e la sua segretaria, Margarita Ronco, mi disse che non c’era, che sarebbe tornato il pomeriggio. Bene, tornai più tardi e non c’era nemmeno. Alla fine, quasi di notte, ritornai e il posto era pieno di gente. C’era una sala grande e su un lato, una cucinetta, e io mi sono messa lì, in cucina, ad aspettarlo.
Poco dopo Alfonsin venne in cucina e mi disse: «Signora, stia tranquilla, ho già parlato per voi», e così mi si manifestò il comitato, il vecchio comitato di radicali e conservatori.
Allora gli dissi: «Come può dire questo se io ancora non le ho detto nulla, non le ho spiegato niente, né sa di cosa si tratta». Allora se ne rese conto e disse: «Ah, bene, bene, allora non si faccia problemi, me ne occupo immediatamente».
Io gli dissi tutto, ma con una delusione, un senso di vuoto… in quel momento lo conobbi realmente Alfonsin. Perché non si possono ingannare le persone che vivono con il dolore, con l’angoscia… mi ricordo che afferrò la carpettina e disse: «Sì, sì, ecco fatto».
Il secondo politico che incontrammo fu (Ricardo) Balbin.
Andai con Azucena e altre due Madri. Balbin si comportò come un pazzo. Noi conoscevamo già il loro comportamento (della Union Civica Radical), come avevano bussato alla porta delle caserme, ma quella volta Balbin toccò il fondo.
Disse: «Dannazione, quattro donne non possono venire a dirmi quel che devo fare!». Tutto questo ci é capitato fin dal primo giorno che incontrammo dei politici. Devi sapere che a mio padre, che era radicale, non piaceva che gli raccontassi tutto questo, lo addolorava molto, non poteva crederci.
Noi li abbiamo conosciuti fin dal primo momento. La gente crede che quando parliamo dei politici non sappiamo ciò che diciamo. Non lo sapessimo davvero! Io mi convinsi dall’inizio che non si poteva dar credito a questi soggetti. Dopo parlano e ti rigirano la storia, ma la verità é quella che ti sto raccontando.
Quanto ai politici peronisti, non ne abbiamo potuto incontrare quasi nessuno, perché chiedevamo degli incontri e loro non ce li concedevano. Avevano la sede qui in Via Parana (nella zona centrale della Capitale Federale), ci andammo diverse volte e non li potemmo incontrare.
L’unico che incontrammo fu (Antonio) Cafiero che una volta ci ricevette. Fu molto simile ad Alfonsin, «Sì, si, ce ne occupiamo subito» ci disse, e probabilmente non ha fatto nulla.
Altre Madri incontrarono i dirigenti della Democrazia Cristiana, e anch’esse tornarono deluse, perché questi erano ancora peggio, se ne uscivano con affermazioni del tipo che il desaparecido «in qualche posto sarà andato», le Madri si sentirono davvero aggredite.
Con la Chiesa, ci capitò lo stesso, perché qualcuna andava sempre a discutere con la gerarchia: andammo alla Conferenza Episcopale, da Galan, da Primatesta, da Plaza, da Montes, dai peggiori. Ci trattavano per quello che stavano facendo: molto male, perché loro collaboravano direttamente con la dittatura.
Nella burocrazia sindacale, lo stesso: li incontrammo e ci attaccarono, ci minacciarono, fu tutto una grande delusione.
Molta gente che sosteneva (Saul) Ubaldini si arrabbiò con noi perché raccontavamo ciò che veramente ci era successo e non riuscivano a credere che i sindacalisti si fossero comportati così.
Io credo che tutte queste cose bisogna viverle sulla propria pelle per poterle denunciare. Non siamo andate a chiedere denaro a nessuno di loro, siamo andate a chiedere per delle vite umane, a chiedere solidarietà, per quanto non ci sia stato un gesto… niente.

Ricordi delle eccezioni?
Le lettere di monsignor De Navares. Mi rispose a tutte le lettere, una per una, personalmente.
Le parole di monsignor Novak: «La Chiesa é al servizio delle Madri».
Molti preti della Zona Sud della Grande Buenos Aires, preti umili. Anche monsignor Hesayne si comportò molto bene. A volte celebravano semplicemente una messa per le Madri, ma ci accontentavamo di questo, perché almeno dimostrava buona volontà.
C’è stata anche gente delle altre Chiese, molti pastori assai combattivi, che oggi continuano la lotta. Offrivano le loro chiese per farci riunire, mi ricordo di Enrique Lavigne, dei pastori che stanno nell’Assemblea Permanente per i Diritti Umani. In queste Chiese accadeva qualcosa di strano: i pastori ci davano spazio e i loro parrocchiani, che erano di classe elevata, no.
Il contrario di quanto accadeva con la Chiesa cattolica: la gente del quartiere voleva che ci fosse dato spazio e le autorità ecclesiastiche no. Questo era un po’ strano.
In sintesi, non c’è niente, oggi non c’è nessun politico di cui possiamo fidarci, la dirigenza politica é collocata nell’élite: vedo che i politici, se non sono borghesi, vogliono trasformarsi in borghesi. Non pensano a noi.
Io non riesco a credere che gruppi come il Frente Grande, che ebbe il suo battesimo nell’Hotel Bauen, con un gran pranzo e tutto il resto, si preoccupino di noi. Qualcuno può pensare che io serbi dei rancori, o che mi sia risentita, non so, pensino ciò che vogliono, ma io credo che i borghesi non si preoccupino di noi. Per questo bisogna lottare perché vada al governo qualcuno che pensi realmente a noi.
Questa é la lotta delle Madri. Io non voglio che la gente soffra, ma è chi ha sofferto che sa come bisogna muoversi per fare del bene al popolo.

Nel periodo di transizione hanno governato prima il partito radicale e poi lo justicialismo. Ti chiedo una breve valutazione di entrambi i periodi.
Il periodo radicale, diretto da Raul Alfonsin, è stato come quando si compiono i 15 anni e si aspetta ansiosi il compleanno, lo aspetti con una voglia matta. Poi il compleanno passa e non ci si sente cambiati, tutto continua ad essere molto simile a prima. Qua é accaduto lo stesso.
Alfonsin fu l’illusione dei 15 anni, stavamo in piazza il giorno della sua proclamazione - non perché noi madri avessimo fiducia in lui, come ho già detto - era stata un’elezione molto importante, c’erano tante illusioni che svanirono immediatamente con la riconferma dei giudici della dittatura, la promozione dei militari assassini, il ricevimento con la banda presidenziale di un assassino come Bignone, e «Buona Pasqua», «la casa é in ordine», tutta una catastrofe, un grande inganno. E poi il disastro economico, il fallimento del plan Austral.
E ora questo menemismo, justicialismo, liberismo, come lo si chiama, è arrivato ancora più prostituito, con l’ingerenza degli Stati Uniti ancora più chiara.
C’era anche prima però ora è scoperta, per questo la presenza del Fondo Monetario Internazionale è tanto forte e per questo c’è (Domingo) Cavallo al Ministero dell’Economia.
L’indulto (per i militari, ndt.) ha finito di completare il quadro. Con questo piano economico stanno uccidendo più che durante la dittatura. Con questo processo hanno molto a che vedere alcuni mezzi di comunicazione, in particolare la televisione, che disinforma e parla più degli avvenimenti passeggeri che delle città, delle lotte operaie, cioè delle radici dei problemi.
Che accade? Opprimono il popolo, lo lasciano senza lavoro, ci uccidono i figli, non si può andare all’ospedale perché distruggono la sanità pubblica, non si riesce a comprare da mangiare, non si riesce ad avere una casa… e chiaramente quando ti scaldi e protesti e vuoi dar fuoco alla Casa de Gobierno, ti dicono: «ora negoziamo». No! Non abbiamo niente da negoziare!
Questo è ciò che accade. Per questo credo che ci troviamo in una situazione fottuta, con un governo con mezzi dittatoriali e senza alternative. Questo governo continua perché non ci sono alternative credibili, in cui si possa riporre fiducia, su cui poter scommettere un po’. Parlo con i ragazzi e sono stanchi: « e chi sosteniamo?
Li abbiamo appoggiati tutti - ci dicono - i radicali, il Partido Intransigente, il Movimiento Todos por la Patria, il Frente Grande… e tutti sono caduti, perché tutti pensano allo tesso modo». Questa recente follia del Frente Pais Solidario (Fresapo) é tragica. I menemisti sono astuti, perché hanno messo (Gustavo) Beliz in condizione di discutere per creare una rottura, e Bordon e gli altri sono stati al gioco. Qualche volta perché quelli del Fresapo pensano solo a loro.

Che differenze e quali coincidenze vedi tra la dittatura e questo periodo di transizione?
Durante la dittatura si ammazzava la gente, si sparava per strada ai ragazzi, ti venivano in casa e ti sequestravano, ti rubavano tutto, ti toglievano i libri, non ti lasciavano leggere, non ti permettevano nulla, non ti lasciavano pensare e ti incutevano un terrore spaventoso.
Ora fanno tutto questo lo stesso ma con la legge. Stanno promulgando tutte le leggi necessarie per legittimare ciò che hanno fatto durante la dittatura. Sono due cose diverse ma il risultato é lo stesso.
Ora puoi leggere, però ti mettono tanta porcheria per televisione che la gente non legge perché tiene acceso tutto il giorno questo apparecchio. Si pubblicano libri interessanti, ma non hai soldi per comprarli.
Prima, i miei figli si compravano tre o quattro libri al mese, ora non c’é nessun ragazzino figlio di lavoratori che possa comprarsi questi libri. Nessuno te lo proibisce, ma non te li puoi comprare. Poi ci sono le morti per le malattie della povertà. Per il colera, la tubercolosi, l’AIDS e i bambini che nascono e non arrivano a un anno di vita, quelli che neanche arrivano a nascere.
L’altro giorno ero a Bariloche - provincia di Rio Negro - e parlavo con un prete che si prende cura di un mucchio di ragazzi, e tra questi due che mi fece conoscere e mi disse: «Guarda Hebe, per la denutrizione questo sembra avere sette anni e l’altro nove o dieci, e hanno 25 anni». Il prete sta cercando di avere una casa per loro perché «il giorno che io non ci sarò più dove andranno a finire questi ragazzi?».
Allora, se non danno da mangiare nemmeno ai bambini, come succede in tanti posti dell’Argentina - perché a Buenos Aires e nei centri urbani c’è l’immondizia, ma in molti posti dell’interno non c’è neppure l’immondizia da mangiare - una si chiede: quanta gente ammazzano?
E’ impossibile saperlo, se la maggior parte dei bambini che muoiono prematuramente non sono nemmeno registrati.
- Poco tempo fa mi raccontavano del quartiere degli indios Tobas a Rosario. Li tengono ammucchiati. Un compagno si mise a parlare con loro e domandò: «Perché accettate di restare qui?». E un uomo, un Toba di mezza età, gli rispose: «Perché qui c’è l’immondizia».
E’ così. Si procurano il mangiare dalla spazzatura. Il problema è tragico, perché quante persone stanno ammazzando? chi pagherà per questi crimini? chi pagherà per quelli che si suicidano, sparandosi o ubriacandosi tutti i giorni perché non hanno lavoro né una via d’uscita per la propria esistenza? chi pagherà per la gente che si sta lasciando morire senza speranza? chi pagherà per quell’assurdità che é il vedere tutti gli impianti industriali fatti a pezzi?
L’altro giorno ero davanti a una fabbrica di oli, una fabbrica enorme, con due o tre aree grandissime, e io dissi chiaramente, la possono abbandonare perché è stata costruita col sangue dei lavoratori, mentre a questi soggetti (gli imprenditori) non è costata nulla. Non gli conveniva e l’hanno chiusa. E chi parla di tutto questo?
Bisogna farglielo capire alle persone che uno non è povero perché gli é capitata una disgrazia, ma perché loro ci rendono poveri.
Durante la dittatura sono stati assassinati in 30.000, ci sono stati un milione di esiliati, tantissimi prigionieri politici, persone assassinate per strada di cui nessuno ha tenuto il conto, e noi altre questo no lo perdoneremo.
Ma oggi, in questi anni di cosiddetto governo costituzionale, perché democratico non é nemmeno per caso, non potremmo contare quante persone stanno morendo per cause economiche e sociali? e chi sono i responsabili?
Menem, Cavallo, il Fondo Monetario, e tutti i deputati e senatori figli di puttana che approvano le leggi! Tutti sono responsabili. E gli amministratori locali? Ma se un consigliere comunale guadagna tanti soldi quanti lo Sha di Persia!
E che ci stanno a fare, se non fanno niente? Tutti si azzuffano per questa “Reina del Plata” (lett: Regina dell’Argento, ndt.) che é l’amministrazione di Buenos Aires.
Allora, questo é ciò che andrò a proporre dopo il 24 marzo, con una specie di proclama. Voglio proporre di metterci in allarme rosso nel denunciare con nome e cognome, mostrandone le foto, dov’era il tal tipo, che leggi ha votato, cosa ha fatto, perché non possiamo continuare ad illuderci che loro siano la soluzione.
Non sono la soluzione per noi. E dobbiamo mostrarlo alla gente il perché non sono la soluzione. Dirle: guarda, per esserci tutti questi poveri, di tutte queste città, devono esserci tutti questi ricchi, tutte queste imprese, e queste imprese finanziano la campagna politica del tal partito, del tal dirigente… dobbiamo portare alla luce tutto questo! Io impegnerò la mia vita, tutto, in questo, perché devo farlo.
Basta con lo stare zitti e col dire: «no, questo non devo attaccarlo…», a me non importa chi sia, ma se ci tocca affrontarlo dobbiamo farlo, perché è peggio che noi ammazziamo noi stessi, il popolo.
Nemmeno per noi Madri, né per te Gabriel (l’intervistatore, ndt.), ma per il tuo bambino! per i bimbi ed i più giovani!
Io per me non chiedo nulla, neanche per mia figlia che ha 30 anni, ma dobbiamo chiederci che paese stiamo costruendo per quelli che verranno. Possiamo ottenere qualcosa azzittendoci? Dicendo: «no, non denuncio il tal tipo perché é utile a uno o ad un altro». Basta! E’ finito questo chiudersi gli occhi! Se mi vogliono processare, lo facciano, e se provano che mento andrò in galera. E se dico la verità la gente dirà: «visto quello che hanno detto le Madri? Hanno ragione».

Quali sono i principi delle Madri? Se dovessi enumerarli, quali indicheresti?
Guarda, il primo é vivere come uno qualunque. Non accettare nessun tipo di privilegio. Ci sono molti modi di essere privilegiati, sai che quando ti trovi in questa situazione, e hai un posto di riguardo, la gente ti riconosce e vuole che tu abbia l’auto, che viaggi comodo. Io non voglio nulla di questo. Ovviamente, se fai un viaggio e un compagno ti affitta una stanza in un hotel, vai lì, ma se ha modo di alloggiarti a casa sua o in qualche altro posto, lo accetti. Nessun tipo di privilegio.
Un altro é non promettere nulla che non faremo. Non comprometterci con affermazioni retoriche, siamo quello che siamo e più di quel che facciamo non possiamo farlo. Questo é un principio molto serio, perché molti promettono troppe cose e fanno poco.
Bisogna promettere ciò che uno farà, e assumere come propria la lotta dell’altro. Non andare a tenergli compagnia per dargli un volantino e dirgli «siamo con voi». Bisogna stare con chi lotta, seriamente. Starci seriamente significa andare, restarci, condividere la lotta, il dolore, le sconfitte, le gioie, condividere tutto. Questa é la solidarietà, in tutta l’estensione che ha la solidarietà.
E un altro principio è, essenzialmente, la lotta per la vita, contro ogni forma di morte. Essere contro ogni forma di persecuzione e di razzismo. Quando uno parla da fratello, da persona solidale, che lo sia veramente. Dare il meglio che uno ha, dare la vita per la causa.
Io non posso dire che tutte le Madri siano disposte a dare la vita per la causa, ma ti posso parlare di me, e a me non importa quel che può accadermi per quello che ho da dire, so che continuerò a mettere in gioco tutto. Anche se è duro ciò che ho da dire, non mentirò alla gente. A volte ciò che dico è molto duro, e alcune persone lo prendono male, sono colpite profondamente, ma sono così.

Occasioni in cui, per questo tipo di posizioni, ti hanno accusato di essere settaria, tu che rispondi?
Bene, lo so che mi hanno accusata di essere settaria, una dittatrice, ma quel che dico alla gente é di venire alla Casa delle Madri, di venire a conoscerci, a vedere come lavoriamo, quel che facciamo. Noi non perdiamo tempo a lanciare inutili strali, impieghiamo il nostro tempo a fare inchiesta su ogni cosa, perché se non voglio che un ragazzo cerchi da mangiare nella spazzatura, debbo denunciare chi sta facendo il possibile perché questo ragazzo debba cercare da mangiare nell’immondizia.
Ma non perché voglia accaparrarmi una carica, io non voglio fare l’amministratrice locale, la deputata, la senatrice, io non chiedo di essere altro che ciò che sono, di essere una Madre. Questo dev’essere chiaro alla gente.
Se la gente che ci sta intorno, che ci ha accompagnato e che ci accompagna, riesce a costruire qualcosa, fantastico!, saremo lì con tutte le nostre forze, ma dev’essere qualcosa in cui possiamo credere, se non ci crediamo non appoggeremo nulla.
Continueremo ad incitare, a lavorare, a cospirare, a scavare il solco, a darle, darle e farle. Se da lì esce qualcosa, ojalà, lì impegneremo tutte le forze. Non importano gli anni che occorrono, forse dovranno passare altri 18 anni, non lo so.

Nell’ultima Marcia della Resistenza avete ribadito un concetto che avevate ricordato negli anni precedenti, e che ha richiamato l’attenzione. Quello della “Festa”, voi avete parlato della “Festa della Resistenza”.
Dicci un po’ cosa significano il dolore e la gioia per le Madri, giacché il familiare di un desaparecido è visto generalmente come uno che patisce solamente il dolore, e le Madri hanno insistito sul fatto che sanno sentire anche l’allegria.
Chiaro, perché guarda che non é la stessa cosa restarsene a casa a piangere davanti alla foto di un figlio, o al cimitero, e scendere in strada a combattere per ciò per cui combatteva questo figlio. Allora senti la gioia della lotta, la Festa che significa riempire la piazza e sentire che sono lì, che sono i desaparecidos che stanno manifestando. E ora che ci sono i figli dei nostri figli, a maggior ragione.
All’inizio questo non lo capivo bene, ma l’ultima volta che vidi Raul, lo vidi in una pasticceria qui a Buenos Aires. Io stavo molto male perché non sapevamo nulla di Jorge (prima sequestrarono Jorge e poi Raul), e avevo scritto sui tovagliolini di carta della pasticceria molte cose, parlavo a mio figlio desaperecido dicendogli “ti aspetto, ti ascolto, e non posso vederti sorridere, non sento altro che grida e non so cosa ti starà accadendo”. Avevo un grande dolore.
Quando arrivò Raul mi disse: «Che c’é mamma», «Sto molto male, non riesco a pensare che Jorge stia bene, lo immagino sempre che grida, neanche riesco ad immaginarmi com’é ridotto il suo corpo, sento le sue grida». «Ma mamma, no. Non devi stare così, devi uscire, andare al cinema, ascoltare della musica, perché sai che noi abbiamo intrapreso questo cammino con gioia, convinti di quel che facciamo, e nonostante sapessimo che ci sarebbero potute accadere certe cose, eravamo contenti».
Ed é vero, loro cantavano sempre, erano sempre allegri. E aggiunse: «Jorge sarebbe molto triste, e io se mi capitasse qualcosa del genere anche, perché so che tu puoi far questo, ma puoi anche gioirne. Altrimenti, non potrai andare avanti. Se ti leghi solo al dolore e non pensi ad altro che a questo, non puoi andare avanti, e… vuoi andare avanti, vecchia?».
E io gli dissi: «Certo che voglio andare avanti». Tutto questo l’ho tenuto a mente, mi restò impresso, e cominciai ad accorgermi di gioire delle cose che faccio, comunque siano andate le cose, sento di avere ossigeno, di avere una piccola speranza che possiamo far presa nella gente, dandole coraggio. A volte qualche ragazzo viene, mi abbraccia e piange e allora gli dico: «Non piangere, le cose vanno così».
E giustamente ora organizzeremo un raduno rock, la notte del 23, dalle 21 alle 24, si chiamerà “Encuentro de rock para contar” e alla mezzanotte del 24 salirò sul palco e glielo racconterò io ai ragazzi cos’è stato il 24 marzo, quante persone ci sono che ancora oggi continuano a lottare sebbene loro non le vedano, che non tutto é perduto, che non é tutto nero. Perché per me, un giorno di tanto dolore, debba contenere anche la musica, e i ragazzi con la loro musica.

Negli ultimi anni c’è stata una forte presenza giovanile nelle attività delle Madri. Sebbene i giovani siano sempre stati vicini alle Madri, sembra esserci una vera e propria ondata.
E vediamo ragazzi che hanno gli stessi anni dell’Associazione e ne sembrano i Figli, che riflessione merita per te tutto questo?
Io credo che i giovani vengano in piazza e dalle Madri perché trovano un referente, gente che non gli mente, che non li inganna, che gli da uno spazio, che gli dimostra che la piazza e le strade sono nostre, che le possiamo vivere per fare questo… la Festa della Resistenza, el Encuentro para Contar, le radio libere dove leggiamo le liste dei giornalisti che furono complici della dittatura, dei giornalisti che scomparvero per aver lottato contro la dittatura e i giornalisti che se ne infischiarono e continuano a infischiarsene malgrado tutto.
Gli raccontiamo la storia, e non dal punto di vista del terrore, della morte, della tortura, ma da quello della vita che diedero i nostri figli, della vita che fecero, della vita che fanno e della vita che vorremmo che facessero loro. Giacché i nostri figli non poterono godere di un mondo migliore, che ne godano loro. La lotta si dà così, con la bontà, la chiarezza.
Non potresti gioire del tuo bambino se stessi tutto il tempo a pensare a ciò che é accaduto durante la dittatura, ciò nonostante hai delle speranze, puoi cambiare perché hai avuto un figlio, e avere un figlio in un paese come questo, significa avere delle speranze, speranze di cambiamento, di trasformazione, di migliorare, perché se non le avessi, diresti no, mi rinchiudo.
Ciò nonostante tutti abbiamo grandi speranze di poterlo fare, perché lo stiamo facendo, stiamo ponendo le basi perché questo cambi. La cosa passa di qui, per la speranza che uno ha e che può trasmettere agli altri.

Come sarà questa società che immaginano le madri?
La società che immagino è una società a cui possiamo partecipare. Una società in cui tutti i giovani - e considero giovani per lo meno fino ai 50 anni - dibattono, leggono, discutono e prendono parte alla trasformazione passo a passo. In cui chi sta al potere non sia una persona armata. In cui i lavoratori hanno il posto che gli spetta perché sono quelli che sanno, lavorano, che creano tutto ciò che fa crescere il paese, in cui siano presenti in tutti i posti necessari, nel Congresso - o quello che faremo, non so se sarà un Congresso -.
Una società in cui, se tu hai poco, tutti abbiamo poco. A me non importa di avere poco se tutti abbiamo poco, anche se credo che in un paese così ricco questo no accadrà. In cui la terra sia produttiva, in cui non ci siano chilometri e chilometri di campi incolti. In cui la società possegga la terra, e in cui la terra dia frutti.
Immagino un paese in cui non esiste la rivista “Caras”, né gli uomini e le donne che vi appaiono, voglio immaginare un paese in cui in televisione non abbia spazio Neustadt, né Grondona, né Mirtha Legrand, né Susana Gimenez, né Cacho Fontana e tanti altri che mi sto dimenticando.
Voglio un paese dove non si debbano fare mense per i poveri, dove non ci siano ragazzi che vivono in strada, senza case per i bambini di strada, né madri adottive per i bambini di strada, né tutto quello che si fa intorno ad essi.
Voglio un paese in cui nei giardini d’infanzia non dobbiamo dire ai ragazzini che la madre scriva il loro nome sul loro quaderno, sulla matita, in cui una volta per tutte insegnamo loro che c’è una borsa dove ognuno prende qualcosa che é di tutti e prima di andarsene a casa torna a riporlo lì, così non gli inculchiamo quell’individualismo per cui ogni cosa é solo sua.
Voglio un paese dove non ci sia spazio per i mercanti di droga, quelli che la vendono, voglio un paese senza Coppola, senza il divismo di Maradona, mi addolora la tristezza del Maradona di oggi, voglio un paese dove mi possa avvicinare al lago Nahuel Huapi e in cui non mi dicano «questo é un club privato, non può passare», dove mi avvicino alla riva del Parana e non mi dicano «qui non può perché questo é dell’impresa».
E’ molto ideale, ma credo che non sia impossibile. Tutti i paesi sono possibili se noi che a milioni non accettiamo ciò che ci accade ci mettiamo a lavorare nel posto in cui stiamo per costruirlo.


Intervista di Gabriel Fernandez ad Hebe de Bonafini, pubblicata su “Resumen”, aprile 1996.


[torna all'inizio della pagina]