| QUADERNI 
            DI SENZA CENSURA - N.1 - NOVEMBRE 1997  | 
         
       
      PER LA LIBERAZIONE!
      Intervento di Joelle Aubron, Nathalie 
        Menigon e Jean Marc Rouillan all'assemblea del 19 giugno 1997 a Bruxelles 
        in occasione della Giornata Internazionale del Rivoluzionario Prigioniero
      
      Prendiamo la parola oggi, in occasione 
        di questa giornata internazionale del prigioniero rivoluzionario, al fine 
        di portare il nostro sostegno alla campagna per la liberazione dei compagni 
        delle CCC. 
      Questi compagni hanno scontato più 
        di 10 anni della loro condanna e il loro rimanere in stato di detenzione 
        ora è solo competenza del potere politico. Il governo belga usa 
        questo potere arbitrario già da molti mesi.  
      E' molto chiaro che questa campagna non 
        ha niente a che vedere con le numerose messe in scena "soluzioniste" 
        che abbiamo visto spesso attorno alla questione della detenzione politica. 
         
      Qui si tratta invece di una lotta per la 
        liberazione senza compromessi, senza rinnegare, senza niente che possa 
        intaccare il senso della lotta rivoluzionaria passata e presente di questi 
        compagni.  
      Noi abbiamo combattuto al loro fianco spesso 
        impugnando le armi e di conseguenza conosciamo bene tutto il loro valore. 
         
      Sicuramente abbiamo avuto e abbiamo ancora 
        delle divergenze politiche, ma mai queste divergenze potranno servire 
        da pretesto per un passo indietro nell'espressione di tutta la nostra 
        solidarietà proletaria combattente.  
      Per questo oggi noi siamo ancora al loro 
        fianco in questa nuova lotta.  
      Bisogna strappare la libertà 
        di Pascal, Pierre e Bertrand! Subito!  
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          | 1. 
            UN PATRIMONIO DI LOTTA RIVOLUZIONARIA | 
         
       
      
      La lotta per la liberazione dei prigionieri 
        rivoluzionari è una lotta per la memoria collettiva di tutto il 
        movimento rivoluzionario, un momento della lotta di emancipazione di tutti 
        i proletari. 
      In Europa, dopo il maggio '68, migliaia 
        di militanti hanno fatto la scelta della lotta armata per il Comunismo. 
         
      Dopo la lotta extraparlamentare degli studenti 
        di Berlino e dopo la grande rottura nei confronti del revisionismo dei 
        partiti e dei sindacati della sinistra istituzionale, che si è 
        data con i comitati di occupazione della Primavera francese e l'Autunno 
        Caldo italiano... le guerriglie hanno sperimentato, accumulato e diffuso 
        tutto un sapere combattente.  
      Oggi questo sapere è uno dei principali 
        patrimoni della classe.  
      E malgrado tutto la sua memoria resta innegabilmente 
        viva.  
        Malgrado le campagne di disinformazione orchestrate dalla propoaganda 
        dei media, malgrado la permanente riscrittura storica di questa epoca, 
        malgrado i processi-spettacolo, malgrado le calunnie e le deformazioni 
        a oltranza, malgrado i braccetti di isolamento, la tortura e l'omicidio... 
      Numerosi esempi evidenziano questa verità. 
         
      Qualche mese fa in Italia quando un giornalista 
        pose la domanda a degli operai per sapere chi difenderà meglio 
        i loro interessi, hanno risposto "sicuramente non un nuovo patto 
        sindacati-padroni-governo, quello che ci manca sono le Brigate Rosse". 
      A Vilvaorde, gli operai manifestando la 
        loro rabbia hanno pubblicato e largamente diffuso un manifesto sul quale 
        si legge: "Besse è stato il primo, chi sarà il successivo?". 
         
      Questa rivendicazione dell'azione del commando 
        Pierre Overnay della nostra organizzazione, da parte della classe, come 
        sua propria azione, come parte della sua memoria di lotta, dimostra bene 
        che ogni volta che i proletaririalzano la propria bandiera, quella dell'autonomia 
        di classe nelle lotte, ristabiliscono immancabilmente il legame tra la 
        lotta degli anni 60-80 e le prospettive attuali di trasformazione sociale 
      E non può essere diversamente nella 
        dialettica delle lotte rivoluzionarie.  
      Niente nasce dal niente. Nessun movimento 
        rivoluzionario sorge senza fare sua la storia della sua classe e il patrimonio 
        della sua lotta, di ieri e di prima di ieri, a livello locale e internazionale. 
         
      Noi stessi quando abbiamo intrapreso queste 
        lotte alla fine degli anni '60, portavamo in noi il patrimonio del movimento 
        rivoluzionario che ci aveva preceduto, quello della Resistenza al nazismo, 
        delle rivoluzioni cinese e cubana, dei maquis antifranchisti, delle lotte 
        di liberazione algerine e vietnamita, quello dei grandi scioperi operai 
        del '48 e degli anni 50...  
      Senza fare nostro questo patrimonio, senza 
        collocarci in rapporto ad esso, senza apportare una critica costruttiva 
        e militante, noi non avremmo mai potuto sperimentare le vie che abbiamo 
        preso. 
      Mai avremmo potuto definire e praticare 
        l'unità dei tre fronti: fronte anticapitalista, fronte antimperialista, 
        fronte antirevisionista. 
      Mai avremmo potuto ridare il suo posto 
        all'iniziativa delle masse stesse nel loro processo di autoeducazione 
        e autodeterminazione e concepire nuovi rapporti tra le avanguardie di 
        lotta e gli organismi di massa. 
      Mai avremmo potuto rivitalizzare un internazionalismo 
        proletario indebolito dalla collusione tra il revisionismo e l'imperialismo 
        che durava da vari decenni.  
      Mai avremmo potuto definire un nuovo internazionalismo 
        proletario che per noi aveva le sue linee principali nell'unità 
        dei rivoluzionari in Europa e nel Fronte antimperialista nell'area geo-strategica 
        Europa occidentale e orientale- Medio Oriente-Mediterraneo. 
      Mai avremmo potuto riattualizzare il progetto 
        rivoluzionario sul nostro continente, facendo così nostro l'insegnamento 
        della guerra rivoluzionaria delle masse dei tre continenti e facendo dell'unità 
        del politico e del militare la direttrice che attraversa tutti gli aspetti 
        del processo e dell'attività rivoluzionaria, orientando così 
        tutte le questioni nate con il procedere della lotta verso la risoluzione 
        rivoluzionaria.  
      Dal'inizio e ad ogni fase del processo, 
        non avremmo potuto dimostrare che senza risolvere la questione della violenza, 
        nessuna politica rivoluzionaria è praticabile, né è 
        possibile nessuna rottura e critica dei regimi di "democrazia spettacolo". 
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          | 2. 
            RIFIUTARE IL RINNEGAMENTO DELL'IMPEGNO RIVOLUZIONARIO | 
         
       
      
      I prigionieri rivoluzionari portano in 
        loro questo patrimonio.  
        Rappresentano il legame più diretto che ci sia tra lotte passate 
        attualità della resistenza con le sue prospettive di emancipazione. 
         
      Ed è per questo che da molto tempo 
        sono in corso manovre da parte di coloro che vogliono distruggere questa 
        sperimentazione, magari riscriverla al servizio della liquidazione e dell'opportunismo. 
      Così i prigionieri non solo devono 
        lottare contro la sottomissione e l'annientamento quali obiettivi dello 
        Stato nella gestione controrivoluzionaria della detenzione politica, ma 
        devono anche lottare continuamente contro le illusioni di un ritorno alle 
        tradizioni gruppettare, sedicenti m–l, o a quelle anarchiche. 
      Perchè rinnegare quello che è 
        stato il proprio impegno nel corso di quegli anni, vuol dire essenzialmente 
        tornare alle parzialità tollerate dal sistema "democratico" 
        borghese e partecipare all'illusione della formalità sempre più 
        di facciata sempre più alienante di questi regimi.  
        Vuol dire lasciar credere che sia sempre possibile una rottura rivoluzionaria 
        nell'accumularsi delle proteste di routine, settorie o sindacali, che 
        si possa acquisire l'esperienza necessaria senza lo sviluppo di momenti 
        rivoluzionari capaci di indebolire il dominio e di rafforzare la coscienza 
        antagonista dei proletari. 
      l nostro discorso non deve far pensare 
        che noi privilegiamo unicamente l'azione armata e che consideriamo secondarie 
        tutte le altre pratiche.  
        Non è così.  
      La questione è sapere qual è 
        la strada rivoluzionaria sul nostro continente, qual è la sua strategia 
        principale, qual è l'organizzazione sociale sovversiva che corrisponde 
        allo scontro storico in corso, quale preparazione, e agitazione-propaganda 
        essa esige... 
      Le lotte passate hanno scavato un fossato 
        tra il disimpegno permanente di fronte ai compiti della lotta di classe 
        rappresentato dalle pratiche senza sbocco e dalle delegazioni inamovibili 
        dei "bonzi", e la guerra rivoluzionaria di lunga durata che, 
        in presenza dello sviluppo del sistema controrivoluzionario di controllo 
        totale, della generalizzazione del militarismo e della gogna mediatico-ideologica 
        dell'opinione pubblica, è la sola via adeguata ad una ripresa dell'iniziativa 
        rivoluzionaria, capace di sostenerla, di operare per l'unità dei 
        proletari europei con le immense masse proletarizzate del Tricontinente 
        e di orientare il fronte comune con tutte le resistenze nelle fabbriche, 
        nei quartieri, nelle diverse lotte sociali. 
      Questo fossato esiste ancora, più 
        che nel passato, per coloro che sanno vederlo, che vogliono superare i 
        limiti dell'illusione.  
      E' sempre lo stesso vecchio fossato tra 
        riformismo e rivoluzione. Due posizioni che rimangono incompatibili nello 
        sviluppo-imputridimento del capitalismo.  
      Di conseguenza e per preservare interamente 
        il senso del processo rivoluzionario degli anni 60-80, i prigionieri della 
        guerriglia devono rifiutare di passare sotto le forche caudine dell'istituzione 
        in quest'altro modo, cioè quello di fargli rifiutare la propria 
        storia di rottura e di critica, la propria memoria, per tornare da dove 
        sono partiti.  
      Vale a dire la strada senza sbocco dell'impotenza 
        e della contestazione istituzionale tipica della sinistra pacifista, legalitaria, 
        pontificante ed eurocentrica.  
      Come se niente fosse veramente successo, 
        come se rimettendo all'ordine del giorno "i tempi dei partigiani", 
        più di due decenni di lotta fossero messi tra parentesi e cancellati 
        con tutto il loro patrimonio per la classe. 
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          | 3. 
            IL FILO ROSSO DI UN PASSAGGIO DI FASE DELLA LOTTA DI CLASSE | 
         
       
      
      Alla fine degli anni '80, si è innegabimente 
        prodotta una frattura storica. 
        Con la crisi del capitalismo - la manifestazione dei suoi limiti - e a 
        causa dei cambiamenti del modello di accumulazione intrapresi dalla borghesia 
        nel tentativo di restaurare il suo dominio e i suoi profitti, un ciclo 
        di lotte si è esaurito.  
      Non per questo si è conclusa la 
        storia, come sostiene un cantore del neoliberismo, semplicemente nella 
        storia - e quindi nella storia rivoluzionaria - si è voltato pagina. 
        Siamo entrati in un'epoca di transizione. 
      Evidentmente è un fatto di importanza 
        cruciale, ma ciò non ha niente di straordinario o di catastrofico. 
         
        Situazioni analoghe si sono già verificate due o tre volte nel 
        corso di un secolo.  
      Dopo le barricate della Comune di Parigi, 
        la storia rivoluzionaria sul nostro continente ha dovuto evolvere, sperimentare 
        e conoscere e riconoscere la sconfitta, risollevarsi e ripartire per "l'assalto 
        al cielo".  
      Così come con la seconda rivoluzione 
        industriale, i proletari abbandonarono le antiche tattiche cospiratrici 
        e insurrezionali e optarono per la costruzione di grandi partiti e sindacati. 
         
      Ma questi, dopo essere stati strumenti 
        di un salto qualitativo innegabile, vennero superati perché si 
        dimostrarono incapaci - malgrado la loro potenza - di rovesciare o anche 
        correggere le logiche del capitalismo e, peggio, gettarono milioni di 
        proletari legati mani e piedi nella carneficina della prima guerra mondiale. 
         
      Della critica di questa esperienza e spinti 
        dalla speranza della Rivoluzione russa del 1917, nasceranno i partiti 
        comunisti e la Terza Internazionale.  
      Due decenni più tardi questi partiti 
        e il loro pensiero a loro volta cominciarono a cadere in altri errori, 
        altrettanto gravi, fino alla collusione con il sistema borghese imperialista 
        nel dopoguerra, quando nei principali centri industriali il regime di 
        accumulazione fordista riuscì a integrarli nella gestione del sistema 
        del Welfare-State. 
      Ma le masse popolari, sempre più 
        mondializzate e proletarizzate dal gigantesco movimento di industrializzazione 
        che nel corso degli anni 50-70 si diffondeva dal centro verso la periferia 
        sperimentarono altre strade di lotta per i loro interessi, per la loro 
        unità.  
      Una nuova ondata rivoluzionaria si concretizza, 
        rompendo i grandi assiomi del revisionismo moderno "il passaggio 
        graduale al socialismo attraverso le riforme di struttura", "la 
        coesistenza pacifica con l'imperialismo ", "la centralità 
        della lotta parlamentare nazionale"...  
      Nel 1967 l'Organizzazione Latinoamericana 
        di Solidarietà proclamava:  
       
        "la lotta rivoluzionaria armata 
          costituisce la linea fondamentale della rivoluzione in America Latina. 
          Tutte le altre forme di lotta devono servire e non ritardare lo sviluppo 
          della linea fondamentale che è la lotta armata". 
       
      La comparsa della guerriglia europea si 
        colloca in questo grande movimento storico e nelle determinazioni politico-pratiche 
        che esso implica. 
      Di fronte a una industrializzazione mondializzata 
        sempre più polarizzata tra un centro sempre più finanziario 
        e una periferia sempre più sfruttata e spossessata, e di fronte 
        alla globalizzazione dei rapporti sociali dominanti, la guerriglia ha 
        dovuto sperimentare e generalizzare, nella lotta sul nostro continente, 
        l'unità delle lotte anticapitaliste e antimperialiste. 
      Nella nuova congiuntura, la lotta dei popoli 
        dipendenti diviene sempre più una lotta proletaria internazionale. 
         
        Essa non è più semplicemente parte della rivoluzione proletaria 
        mondiale, innegabilmente essa è il cuore dell'unità della 
        classe. 
      Ogni salto in avanti dello scontro rivoluzionario 
        nel centro, nella "patria delle casseforti" non solo deve appoggiare 
        e rappresentare un'avanzamento reale degli interessi reali dei proletari 
        qui, ma deve essere anche e principalmente un momento di unità 
        internazionale della classe intera.  
      Vale a dire un attacco che realmente distrugge 
        e sovverte il funzionamento degli strumenti e dei rapporti imperialisti 
        che mantengono, rafforzano o anche ridistribuiscono qui, i dividendi tratti 
        dallo sfruttamento e dall'oppressione di centinaia di milioni di proletari 
        e delle masse dipendenti del Tricontinente. 
      Si tratta di un imperativo ineluttabile, 
        perché rinasca nei paesi della Triade imperialista coscienza e 
        organizzazione per la trasformazione sociale. 
       
        "La guerriglia è la forma 
          dell'internazionalismo proletario nelle metropoli. E' il soggetto della 
          ricostruzione della politica proletaria a livello internazionale". 
       
      Il filo rosso di 150 anni di lotte sociali 
        è il cammino verso l'autonomia politica del proletariato come unica 
        classe effettivamente rivoluzionaria, capace di sbarazzarsi dello sfruttamento 
        economico e di ogni sfruttamento, una lungo cammino che va dall'unità 
        con la borghesia degli inizi, alle lotte popolari, fino alla lotta per 
        la propria autoorganizzazione, per la costruzione del suo partito autonomo 
        e infine per la sua unità mondiale. 
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          | 4. 
            UN NUOVO MODELLO DI ACCUMULAZIONE, UN NUOVO CICLO DI LOTTA BORGHESIA 
            / PROLETARIATO | 
         
       
      
      La dinamica propulsiva dei salti qualitativi 
        da un'epoca all'altra del capitalismo, diviene sostanzialmente traumatica 
        quando si rivelano i limiti raggiunti dal modello di accumulazione e si 
        scatena quindi una lotta generale economica, politica, culturale... tra 
        i principali attori sociali.  
      In quanto la borghesia (proprietaria / 
        non lavoratrice / sfruttatrice) deve lottare per rivoluzionare i rapporrti 
        di produzione nel quadro del capitalismo e quindi della loro riproduzione 
        allargata e il proletariato (non possidente / lavoratore / sfruttato) 
        lotta per sottrarsi alle condizioni di sfruttamento e di miseria, per 
        rivoluzionare radicalmente tutti i rapporti sociali e quindi i rapporti 
        di produzione capitalisti e farla finita con il capitalismo stesso. 
        Per tutti i marxisti questo è molto chiaro.  
      Il capitalismo si suddivide in diversi 
        stadi e tappe e con esso i cicli di lotta, le forme e i metodi rivoluzionari, 
        sotto "l'effetto storico della lotta di classe".  
        Sappiamo che tutti lo sanno, tuttavia crediamo importante dirlo e se occorre 
        ripeterlo, poiché questa comprensione generale è troppo 
        spesso assente dalle analisi delle trasformazioni e dell'antagonismo di 
        classe degli anni 80 e 90, che possiamo leggere qua e là sulla 
        stampa militante, spesso troppo occupata a seguire le mode lanciate da 
        sociologi, filosofi, o altri mandarini del sapere servile. 
      In assenza di un rovesciamento rivoluzionario 
        decisivo, l'unico capace di far nascere nuovi rapporti di produzione, 
        si realizza il superamento guidato del vecchio modello di accumulazione 
        in crisi, sotto l'azione della lotta di classe della borghesia, sotto 
        la sua direzione politico-ideologica.  
      Solo in questo modo la borghesia riesce 
        ad imporre un nuovo insieme di rapporti e di strumenti di regolazione 
        e per questo tali cambiamenti corrispondono inevitabilmente all'intensificazione 
        dei caratteri e dei limiti propri dei rapporti di produzione capitalisti. 
      Di conseguenza e a dispetto del "riformismo 
        radical-chic" in presenza di questi rapporti di produzione e dell'estensione 
        del dominio reale del capitale all'intero pianeta, non vi sono possibilità 
        di capitalismo "dal volto umano", di mutamenti graduali di questo 
        modo di produzione come vorrebbero far credere la religiosità del 
        progresso e la visione socialdemocratica.  
      La globalizzazione della crisi di sovrapproduzione 
        assoluta di capitale generalizza la concorrenza accanita, caotica e distruttrice, 
        tra le corporation transnazionali, tra tutte le imprese, i settori, tra 
        i paesi, tra le aree continentali, tra tutti gli esseri umani, tra i maschi 
        e le femmine, tra le popolazioni...  
      La concorrenza alimenta i conflitti, la 
        diffusione del militarismo, le lacerazioni, i saccheggi... ma soprattutto 
        alimenta la guerra di produttività. 
        E questa guerra non porta alla pace poiché inesorabilmente la competitività 
        produttiva, nel suo sviluppo, comporta la caduta tendenziale del saggio 
        di profitto e quindi maggiore guerra di concorrenza.  
      Gli sforzi di competitività e le 
        controtendenze alla caduta del tasso di profitto sono altrettanto espressioni 
        della lotta di classe della borghesia.  
        Lotta tra le diverse frazioni della classe borghese, ma soprattutto un 
        antagonismo nella polarizzazione sociale tra una frazione della borghesia 
        sempre più ridotta e un proletariato sempre più esteso e 
        sfruttato.  
      Di conseguenza, il nuovo modello di accumulazione 
        rappresenta lo stato reale del rapporto di forza a favore della classe 
        borghese.  
      Non c'è alcun dubbio che lo stato 
        del rapporto di forza tra le classi si sia considerevolmente modificato 
        nel corso del passaggio tra il modello fordista-keynesiano e quello toyotista-neoliberale. 
      Secondo Marx, i due cardini essenziali 
        per ristabilire i tassi di profitto poggiano sullo sfruttamento intensivo 
        e sull'espansione della classe proletaria.  
      Egli ha sempre legato "l'intensificazione 
        del lavoro", "la riduzione del salario al di sotto del valore 
        della forza lavoro" che il capitale impone nei centri industriali, 
        con lo sviluppo del "commercio estero", "l'investimento 
        di capitale nei paesi economicamente arretrati", "la creazione 
        di sovrappopolazione relativa" che si estendono tramite le relazioni 
        imperialiste a partire dal periodo coloniale fino alla dipendenza intensiva 
        di oggi. 
      La classe proletaria internazionale è 
        stretta così nella doppia morsa dello sfruttamento capitalista. 
         
      Una parte (principalmente nel centro e 
        nelle fabbriche ad alta tecnologia) è sempre più sfruttata 
        all'interno del ciclo di ricerca permanente di produttività (aumenta 
        il tasso di plusvalore estorto ad ogni singolo lavoratore).  
      Il dominio del capitale morto sul capitale 
        vivo, della macchina sull'uomo...  
      Simultaneamente l'immensa maggioranza dei 
        proletari è sempre più sfruttata tramite il rafforzamento 
        della natura imperialista del sistema, è sfruttata più intensamente 
        di fatto dalla "legge del valore mondializzata" ("il differenziale 
        di retribuzione del lavoro... è più scarso di quello della 
        sua produttività").  
      Nello stadio imperialista, la natura dello 
        sfruttamento intensivo assume sempre questo duplice carattere. 
      In ognisituazione, a livello mondiale, 
        "la produzione capitalistica non può fare un passo avanti 
        senza diminuire la parte del prodotto sociale che spetta al lavoratore". 
         
      Nel corso dello stadio imperialista il 
        capitale si è esteso all'intero pianeta e tale movimento si è 
        considerevolmente accelerato con l'ondata di industrializzazione del Tricontinente 
        negli anni 50-70.  
        Con il nuovo modello neocoloniale il dominio reale del capitale si è 
        globalizzato. 
      Ma il capitale può accaparrasi la 
        produzione mondiale solo proletarizzando "e non può continuare 
        a vivere, ad essere fruttifero, ad accumularsi, a moltiplicarsi e a trasformarsi" 
        se non a condizione di salarizzare coloro che ha proletarizzato a livello 
        internazionale. 
      E così non può impedire lo 
        sviluppo della sua contraddizione principale, il proletariato, e con esso 
        i limiti indotti dalla formazione di questo avversario irriducibile.  
      Il capitalismo inforna nel suo inferno 
        centinaia di milioni di nuovi lavoratori, e lo fa in maniera sempre più 
        ineguale e caotica, aggravando la polarizzazione sociale e la contraddizione 
        tra lavoro e non-lavoro.  
      Esso riduce le masse a non poter vivere 
        senza essere sfruttate, ma contemporaneamente la produttività delle 
        strutture fa sì che il lavoro tenda a divenire superfluo.  
      Così "l'esercito industriale 
        di riserva è tanto più grande, quanto più sono consistenti 
        la ricchezza sociale, il capitale in funzione, l'estensione e l'energia 
        della sua crescita...". 
      Il supersfruttamento, la sovrappopolazione 
        e la pauperizzazione della classe proletaria si accentuano con la sua 
        espansione e la sua internazionalizzazione.  
      Questo è il marchio indelebile della 
        nuova epoca sempre più dominata dalla lotta irriducibile tra capitale 
        e lavoro. 
      La storia del capitalismo è la storia 
        della contraddizione tra borghesia e proletariato.  
      Oggi in vista delle nuove condizioni di 
        questa contraddizione, si può affermare che è stato superato 
        un limite decisivo, e di conseguenza, per i comunisti, il primo comoito 
        è quello di analizzare e risolvere le questioni poste dalla nuova 
        composizione-lotta di classe (le classi esistono in quanto si contrappongono) 
        che deriva dai grandi mutamenti degli anni 80-90. 
      [torna 
        all'inizio della pagina] 
      
       
      
      Oggi per iniziare correttamente l'analisi 
        della composizione-lotta di classe, è assolutamente necessario 
        superare l'ambito strettamente nazionale e partire dal salto qualitativo 
        dell'espansione mondiale del capitalismo, così come si è 
        affermata dall'inizio degli anni '80.  
      Se durante l'epoca precedente, lo studio 
        doveva basarsi sul quadro locale, era perché il regime di accumulazione 
        fordista gravitava attorno allo spazio nazionale e alla sua espansione 
        nello spazio internazionale.  
        Era questo il quadro del suo funzionamento e quindi quello dei rapporti 
        salariali.  
      Ma non è più la stessa cosa 
        alla presenza del modello toyotista-neoliberale. 
      Il nuovo modello di accumulazione ha globalizzato 
        i principali processi della produzione di merci, e ha preso corpo una 
        nuova divisione mondiale del lavoro. 
        Di conseguenza qualsiasi composizioni-lotta di classe può concepirsi 
        solo nella sua mondialità. 
      Certo, in ogni periodo del capitalismo, 
        le due principali classi antagoniste sono state classi internazionali, 
        ma oggi il cambiamento risiede nel fatto che lo scontro si colloca immediatamente 
        e in tempo reale sullo spazio mondiale nel processo di lavoro. Un processo 
        sempre più ineguale e sempre più contraddittorio tra lavoro 
        e non lavoro, tra sfruttamento intensivo e sovrappopolazione, ma sempre 
        più globalizzato. 
      Dicendo questo noi non neghiamo che ogni 
        situazione locale o Stato-nazione, o ancora Stato comunitario, rimangano 
        centri particolari di importanza cruciale come spazio e rapporti dello 
        scontro di classe.  
      Giustamente uno dei caratteri fondamentali 
        della mondializzazione è proprio la contraddizione tra la sua autonomia 
        e gli imperativi permanenti delle forme statali di accumulazione. 
      Da un lato la mondializzazione è 
        una estensione-contraddizione del rapporto sociale dominate (gli scambi 
        di merci, di tecnologe, culturali e ideologici, la circolazione dei capitali, 
        il credito, la migrazione delle popolazioni, il modello di consumo...) 
        ed è quindi uno slancio che struttura e unifica supernado continuamente 
        le forme e i contenuti passati dell'organizzazione sociale. 
      Dall'altro lato, la mondializzazione non 
        può mai separarsi totalmente dalle forme statali perché 
        i capitali monopolistici esigono sempre più l'intervento economico, 
        politico e militare dello stato a livello locale, nazionale, continentale 
        e inter-statuale. 
      Di fatto, questa contraddizione è 
        il riflesso della contraddizione intrinseca al capitale stesso, tra le 
        esigenze della concorrenza e quelle della socializzazione. Il processo 
        di mondializzazione sarà dunque sempre più destabilizzato 
        dalla contraddizione in divenire tra la sua autonomia e le forme di regolazione 
        statale. 
      L'epoca che si è aperta con la svolta 
        degli anni '80 segna inesorabilmente il passaggio alla dominanza dello 
        spazio mondiale. 
        Riconoscere pienamente l'importanza della dimensione mondiale serve per 
        valutare le soluzioni contenute nella mondializzazione dello scontro di 
        classe.  
      E' chiaro che i disastri e le barbarie 
        acuiti da questo processo non potranno mai essere trasformati radicalmente 
        né essere corretti con un ritorno ai particolarismi religiosi o 
        allo sciovinismo.  
      Poiché per l'immensa maggioranza 
        dei proletari, queste strade constituiscono di fatto strade verso la subordinazione 
        alla mondializzazione che aggrava la polarizzazione e la gerarchizzazione. 
         
      Per un comunista, la questione non è 
        se accettare o rifiutare la mondializzazione, ma di sapere come affrontarla 
        per ribaltarla in liberazione dell'umanità intera, come lavorare 
        per l'unità della classe proletaria e per la sua autonomia politica, 
        e inserirsi nella guerra di classe di lunga durata, e farla finita con 
        l'alienazione economica e le relazioni imperialiste Triade imperialista/Tricontinente. 
         
      E nel nostro caso specifico, a partire 
        da qui dove lottiamo, vale a dire nel centro imperialista europeo. 
      [torna 
        all'inizio della pagina] 
      
       
         
          | 5A. 
            LA MONDIALIZZAZIONE È GLOBALE E LA SUA SOLUZIONE DEVE ESSERE 
            GLOBALE | 
         
       
      
      Allo stesso modo riconoscere la dimensione 
        mondiale della nuova composizione-lotta di classe consente di superare 
        gli interrogativi localisti senza fine seguiti alle grandi trasformazioni 
        degli anni '80, in particolare la deindustrisalizzazione, la delocalizzazione, 
        la fine del pieno impiego, del posto fisso per gli operai... 
      "Su quale classe, su quale soggetto 
        deve basarsi la lotta rivoluzionaria?" si chiedono alcuni compagni 
        in un testo recente.  
      Se si rimane al localismo europeo, saranno 
        possibili tutti gli errori.  
        Sia quello di nagare i mutamenti e persistere nel far sopravvivere artificiosamente 
        i miti operai degli anni '30.  
      Sia quello di inventarsi nuovi soggetti 
        di classe sul piano degli interessi elettorali o di semplici mode: i "tecnici" 
        per il Partiti "Comunista" o "l'intellettuale massa" 
        per il movimento "autonomi" a Weston?  
      Sia infine riproporre il "realismo" 
        interclassista del populismo, visto che per certi "compagni", 
        il proletariato deve rinunciare "per il momento" ancora alla 
        sua autonomia politica e inserirsi nelle lotte delle masse popolari nazionali. 
         
      Peggio, lo si snatura battezzando con il 
        termine proletariato tutti i salariati, cosa che rimanda comunque all'interclassismo, 
        poiché le masse popolari, piccola borghesia compresa, costituiscono 
        in tal modo "il nuovo proletariato" dei centri industriali. 
      Nella metropoli imperialista, queste sono 
        tutte versioni dell'ostinazione a cercare ad ogni costo - fino al ridicolo 
        - di risistemare il progetto rivoluzionario in base a realtà di 
        classe essenzialmente nazionali, che rimandano ad un progetto di liquidazione 
        rivoluzionaria e ad un opportunismo quotidiano nelle lotte.  
      Mentre la dimensione mondiale della composizione-lotta 
        di classe, ci permette di individuare e di cogliere pienamente i nuovi 
        contorni, le condizioni e gli interessi generali della nostra classe: 
        il proletariato internazionale.  
      Non c'è altra soluzione, questa 
        comprensione è alla base di ogni nuova prospettiva di ripresa rivoluzionaria 
        sul nostro continente, e dunque alla base di una tattica adeguata alla 
        congiuntura e alla necessità dell'unità cella classe e dell'a 
        sua più ampia autonomia. 
      [torna 
        all'inizio della pagina] 
      
       
         
          | 6. 
            IL PROLETARIATO INTERNAZIONALE | 
         
       
      
      Ora bisogna cercare di determinare più 
        precisamente quali sono i principali caratteri della nostra classe oggi. 
      a) La classe proletaria costituisce 
        ormai la maggioranza dell'umanità 
      Si tratta di un cambiamento profondo di 
        considerevole importanza storica. In meno di trenta anni il peso mondiale 
        del proletariato si è moltiplicato. Tutte le altre classi popolari 
        tendono a perdere importanza.  
      La classe contadina che dominava ancora 
        nella fase precedente si dissolve rapidamente e strati consistenti delle 
        borghesie locali si proletarizzano sotto gli effetti della crisi. 
      Di fronte alla borghesia monopolista, il 
        proletariato è la sola classe che si sviluppa a livello mondiale. 
         
        Sicuramente, se si studia questo problema solo su scala locale, nei paesi 
        della Triade imperialista, si viene fuorviati dalle controtendenze metropolitane 
        e soprattutto dalla caduta dell'occupazione industriale.  
      Mentre a livello mondiale stiamo vivendo 
        l'epoca della rivoluzione della maggioranza contro la minoranza.  
        La maggioranza dell'umanità: i proletari contro gli sfruttatori 
        e contro coloro che traggono vantaggi da questo sfruttamento. 
      Con la rivoluzione della maggioranza, la 
        rivoluzione democratica e quella proletaria diventano una cosa sola. 
      Ormai, non possono più esserci rivoluzioni 
        democratiche se non si rimette in discussione l'alienazione economica 
        e la polarizzazione Triade/Tricontinente, senza distruzione della dittatura 
        degli apparati e dei rapporti borghesi, perciò il proletariato 
        internazionale è la sola classe a poterla condurre fino in fondo. 
         
        Ovunque la lotta è prima di tutto una lotta per la rivoluzione 
        democratica proletaria.  
        E ovunque la classe deve lavorare per la vittoria della sua autonomia. 
         
        E' la condizione principale per la realizzazione dei suoi propri interessi, 
        degli interessi della maggioranza.  
      I proletari non hanno più alcun 
        vantaggio da trarre dalle rivoluzione democratico borghesi e dalle alleanze 
        con le borghesie locali. Al contrario, queste lotte parziali e settoriali, 
        li allontanano sempre più dalle necessità del momento. 
        Le lotte interclassiste e populiste rafforzano la loro alienazione e la 
        loro divisione, a scapito della loro coscienza e della loro unità 
        internazionale.  
      E' il momento della costruzione del partito 
        autonomo della classe, un partito che può essere solo internazionale. 
         
        La risoluzione di questo nodo si fa sempre più pressante ed essa 
        è possibile con tutta la radicalità intravista da Marx ed 
        Engels.  
       
        "L'emancipazione della classe operaia 
          non può essere che l'opera della classe operaia stessa, perché 
          tutte le altre classi e tutti gli altri partiti si mantengono sul terreno 
          del capitalismo e, malgrado i loro contrasti di interessi, essi hanno 
          tuttavia uno scopo comune, la conservazione e il consolidamento delle 
          basi della societa' attuale" 
          
      b) la classe proletaria è una 
        realtà fortemente tricontinentale 
      La classe proletaria si sviluppa circa 
        quattro volte più velocemente nel Tricontinente che nella Triade. 
         
      Già alla fine degli anni '70, su 
        1600 milioni di lavoratori attivi censiti, solo un quarto era localizzato 
        nei vecchi paesi industriali  
        Ed è un processo lungi dall'interrompersi. 
       
        "Circa il 99% del miliardo di persone 
          che si prevede raggiungeranno la massa mondiale dei lavoratori nel corso 
          dei prossimi trent'anni, vivono oggi nei paesi a basso e medio reddito". 
           
          
      Il cuore stesso della classe operaia - 
        la classe produttrice di valore - si è spostato verso la periferia 
        del sistema e anche questo è un capovolgimento di importanza storica. 
         
      Poiché prima l'assioma rivoluzionario 
        nei centri metropolitani si basava sulla concentrazione operaia nei centri 
        finanziari che si era stabilita nelle precedenti fasi dell'imperialismo. 
         
      Bene o male, i progetti (rivoluzionari) 
        potevano ancora articolarsi in un programma politico locale marginalizzando 
        le questioni internazionali. 
      Questo, oggi, è semplicemente impossibile. 
      Nessuna azione e nessuna rivendicazione 
        può essere considerata un reale momento rivoluzionario se non implica 
        soluzioni di emancipazione internazionale, se non rimette in discussione 
        alle fondamenta la polarizzazione Triade/ Tricontinente, se non consente 
        di liberarsi dalla stretta dell'oppressione imperialista 
      Ma nel centro, questa determinazione internazionalista 
        è difficile da praticare tanto più che lo sviluppo della 
        classe media locale, dell'aristocrazia operaia, (cioè le frazioni 
        di classi che traggono vantaggio dallo sviluppo del sistema di sfruttamento 
        mondiale), e naturalmente il rafforzamento del loro peso politico ideologico 
        nelle istituzioni e sulla classe, tengono a fraeno nella gogna della concilizazione 
        e collaborazione le potenzialità dell'autonomia di classe.  
      Diretti da queste forze, partiti e sindacati, 
        stanno alla base del controllo controrivoluzionario permanente, attraverso 
        la gestione del conflitto di classe, il militarismo interventista, la 
        denuncia delle azioni di resistenza...  
      Quindi, nel centro, due strade inconciliabili 
        si contrappongono...  
      La prima è quella della falsa unità, 
        l'unità di tutte le espressioni "popolari" locali in 
        un progetto di conquista e di gestione dell'istituzione nazionale, in 
        un progetto di rivoluzione democratica borghese eternamente da ricominciare. 
      Per i proletari questa strada è 
        un vicolo cieco, essa è già caduta, cade e cadrà 
        sempre nel pantano della riforma. 
      Essa non rinforza la classe, ma al contrario 
        ne aggrava la divisione in termini non rivoluzionari ma imperialisti. 
        E paralizza la presa di coscienza della sua reale situazionbe storica. 
         
      Come ricordava Lenin:  
       
        "L'unità con gli opportunisti 
          non essendo nient'altro che la scissione del proletariato rivoluzionario 
          di tutti i paesi, segna nei fatti oggi, la subordinazione della classe 
          operaia alla sua borghesia nazionale, l'alleanza con questa in vista 
          dell'oppressione di altre nazioni e della lotta per i privilegi imperialisti". 
           
       
      Su questa strada, la classe è divisa, 
        aderisce ad opposti partiti capitalistici ed è reclutata nella 
        guerra internazionale di produttività, nella guerra per una nuova 
        spartizione del globo tra i tre grandi poli triadici, USA Giappone e UE 
      La seconda è la strada della vera 
        unità di classe, l'unità internazionalista. 
      In presenza della mondializzazione, il 
        proletariato deve conquistare il necessario punto di vista internazionalista 
        non attraverso la semplice solidarietà di classe, ma attraverso 
        i suoi interessi generali.  
      Alla "coalizione del capitalismo mondiale", 
        ai suoi strappi sempre più caotici, ai suoi conflitti, alle sue 
        divisioni deve corrispondere l'unità del fronte proletario.  
        Non esiste altra soluzione rivoluzionaria. 
      Rompendo la sottomissione organizzata nello 
        spazio locale, le lotte sul nostro continente devono operare per l'unità 
        internazionalista, devono concretizzare la prospettiva.  
      Devono creare organismi di lotta, reti, 
        ponti concreti tra i nella metropoli e le avanguardie proletarie nel Tricontinente, 
        e quindi stabilire una dinamica con le grandi masse, rappresentarne qui 
        gli interessi e sostenere con tutte le forze il trionfo di questa unità. 
      E' a questo prezzo che le lotte rappresenteranno 
        un'azione critica reale e uno spazio autonomo di sperimentazione e auto-educazione, 
        e forgeranno così le reali avanguardie di lotta nel centro (la 
        Triade).  
      Su questa strada, autonomia di classe e 
        internazionalismo sono un unico momento rivoluzionario. 
      c) La classe proletaria è una 
        realtà principalmente urbana 
      Da oggi la metà dell'umanità 
        è una realtà urbana e da qui all'anno 2025, i due terzi 
        della popolazione mondiale vivranno nelle "megalopoli".  
        La popolazione urbana passerà da 2,6 miliardi a 3,3 miliardi di 
        persone, di cui il 93% nei paesi del tricontinente. 
      Il cuore di questo vasto movimento di urbanizzazione 
        selvaggia sta nei ghetti di tutte le miserie e delinquenze che si formano. 
         
        Il proletariato internazionale diviene così essenzialmente "megalopolitano". 
        Un proletariato delle "barriadas".  
      L'80% della popolazione asiatica soffre 
        la fame, il 60% in Africa, il 40% in America Latina.  
        Più di 10 milioni di persone muoiono ogni anno per le condizioni 
        di insalubrità di questi nuovi quartieri. 
        Due miliardi non hanno medicine, né acqua potabile.  
      Prima del duemila, la popolazione di 45 
        paesi del Tricontinente avrà una durata media della vita al di 
        sotto dei 60 anni, in alcuni paesi dei 42 anni, mentre raggiungerà 
        i 79 anni nei paesi della Triade. 
      Un immenso proletariato emerge dalle periferie 
        urbane, una nuova classe "pericolosa" che non si batte più 
        semplicemente per la divisione della terra e per il miglioramento della 
        spartizione dei frutti del lavoro salariato, ma direttamente contro l'oppressione 
        dei proprietari dei mezzi di lavoro, contro i monopoli degli sfruttatori... 
      Essa deve far fronte all'incertezza della 
        propria esistenza "sottomessa sia ad altri uomini sia alla propria 
        miseria" sempre più sfruttata ed oppressa, sempre più 
        terrorizzata dalle nuove dittature poliziesche, dagli "squadroni 
        della morte" e dai sicari di tutte le mafie paragovernative. 
      Così compare un'immenso esercito 
        proletario impoverito e in rivolta, che non ha più niente da perdere 
        se non le proprie catene. 
      [torna 
        all'inizio della pagina] 
      
       
         
          | 7. 
            IL SOGGETTO DI CLASSE ATTUALE | 
         
       
      
      In ogni epoca e fase del capitalismo e 
        quindi dello scontro tra borghesia e proletariato, le forme della produzione 
        mettono in primo piano una figura proletaria antagonista.  
      Nel corso della storia, diversi soggetti 
        si sono susseguiti, dall'operaio di mestiere del XIX° secolo, all'operaio 
        industriale, poi all'operaio professionale, "i similaires" o 
        i "siderurgici" ed infine nel dopoguerra l'operaio massa, l'operaio 
        dell'impresa tayloristica.  
      Dopo i grandi cambiamenti degli anni '80 
        è dunque di primaria importanza chiedersi: qual'è il nuovo 
        soggetto di classe che corrisponde a questi cambiamenti?  
      Nel taylorismo-fordismo, la rigidità 
        del processo di lavoro, del processo tecnico, faceva sì che il 
        capitale variabile, i lavoratori, fosse una categoria fissa tanto quanto 
        il capitale costante adoperato.  
      La rigidità organizzativa si estendeva 
        dunque a tutta la struttura e alla sovrastruttura stessa (consumo di massa, 
        welfare, rappresentanze istituzionali).  
        Questa rigidità divenne il carattere fondamentale del modello di 
        accumulazione, ma finì per ritorcersi contro di esso durante la 
        crisi. 
      Dopo gli anni '80, il cambiamento fondamentale 
        indotto dalla generalizzazione del modello toyotista-neoliberale, verte 
        sull'introduzione della flessibilità.  
        Flessibilità indispensabile al superamento della rigidità 
        e quindi alla redditività del capitale e alla restaurazione dei 
        profitti. 
      E flessibilizzazione è prima di 
        tutto immissione sul mercato di una nuova "generazione" di macchine 
        basate sulla microinformatica e quindi riorganizzazione della catena produttiva 
        e del suo "flusso continuo", per aumentare i guadagni di produttività, 
        l'intensità del lavoro e il tasso di rendimento degli impianti. 
         
        Un miglior tasso di impiego delle macchine e degli uomini. 
      La logica di tutti i modelli di accumulazione 
        è quella di concepire lo sfruttamento dell'uomo negli stessi canoni 
        di quello della macchina. 
      E così come ieri alla rigidità 
        delle macchine monofunzionali delle grandi catene tayloriste corrispondeva 
        ieri la rigidità del lavoro fisso ultraspecializzato e dequalificato, 
        oggi, alla polivalenza dell'automazione corrisponde una forza-lavoro polivalente, 
        una flessibilità della forza lavoro e della sua retribuzione salariale. 
      E naturalmente, il cambiamento qualitativo 
        dalla rigidità alla flessibilità attraversa tutti i cambiamenti 
        negli accordi di compromesso per un nuovo regime di regolazione.  
      a) dalla flessibilità alla precarietà 
      Il fordismo è stato essenzialmente 
        smantellato, ma a causa della persistente crisi di sovrapproduzione assoluta 
        di capitale e dei limiti sempre più tirannici del capitale stesso, 
        il modello di accumulazione toyotista neoliberale non riesce a giocare 
        pienamente il suo ruolo.  
      L'accumulazione è troppo debole, 
        caotica e diseguale. E così nel gestire questa impossibilità 
        ad organizzare l'accumulazione, il modello modifica e deforma il suo carattere 
        principale da flessibilità in precarietà. Generalizza la 
        precarietà della sua crisi. 
      In tutti i rapporti sociali, dietro la 
        flessibilizzazione compare la precarizzazione, punta estrema del dominio 
        del capitale, ma anche della crisi generale. 
      Di conseguenza, il soggetto storico del 
        proletariato internazionale che è emerso e che si riproduce nel 
        cuore di questa qualità che domina la produzione sociale è, 
        appunto, il proletario precario. 
      Un terzo della popolazione attiva mondiale 
        è disoccupata o sottoccupata. 
        Frazioni sempre più grandi di lavoratori sono progressivamente 
        allontanate dal salario stabile e a contratto.  
        Negli USA, il 90% degli occupati nelle 500 maggiori imprese è a 
        tempo determinato e precario.  
      Nel Tricontinente, ci sarebbero tra il 
        miliardo e il miliardo e mezzo di lavoratori precari, senza tener conto 
        dei lavoratori informali.  
        In India, ad esempio, 9 lavoratori su 10 sarebbero occupati nel settore 
        informale. 
        Su 37 milioni di lavoratori messicani, 21,5 non hanno un posto fisso... 
      Ma la precarietà non può 
        assolutamente essere circoscritta allo studio di un particolare segmento 
        del processo di lavoro, per quanto importante esso sia, o a un tipo di 
        lavoro parziale, o alla pauperizzazione, all'economia informale o alla 
        disoccupazione, perchè la precarietà è oggi la qualità 
        primaria che attraversa tutte le linee dell'antagonismo tra capitale e 
        lavoro.  
      La precarietà attuale corrisponde 
        alla rigidità fordista.  
      Il proletario precario non è solo 
        colui che ha il compito "dirty difficult and dangerous" (sporco, 
        difficile e pericoloso) o colui che in quanto giovane non dispone che 
        di un contratto fasullo di formazione, oppure, se disoccupato a lungo 
        termine, di un contratto parziale e limitato di "solidarietà", 
        o ancora colui che è deportato verso aree di lavoro (50 milioni, 
        principalmente donne, nell'immigrazione interasiatica). 
      Precarietà sono anche le forme globali 
        del lavoro, il dominio intensivo del capitale morto sul capitale vivo, 
        le forme di comando del capitale come classe sulla forza lavoro, le forme 
        della divisione tra lavoro pagato e non pagato. 
      E' la razionalizzazione di ogni posto di 
        lavoro (non per questo il posto fisso e ultraproduttivo è garantito, 
        vedi Vilvoorde), è la polivalenza funzionale (un lavoratore deve 
        svolgere più volte varie decine di mansioni differenti)... 
      Precarietà è la ricerca permanente 
        di produttività, l'aumento delle cadenze e dei ritmi di lavoro, 
        della sua intensità; è la collaborazione dell'auto-controllo 
        ("zero guasti, zero sbagli, zero giacenze di magazzino"), è 
        individualizzazione e forme di coercizione consensuale; è tendenza 
        accentuata alla svalorizzazione-dequalificazione del lavoro, è 
        la perdita di specializzazione dei lavoratori nella maggiore parcellizzazione 
        del lavoro tecnico... 
      La precarietà è lo sfruttamento 
        crescente delle donne, la tendenza a farne un "sotto"-proletariato, 
        una riserva di schiave-casalinghe e/o sessuali, la frazione di classe 
        più vulnerabile di fronte alla pauperizzazione e alla svalorizzazione 
        sociale.  
      E' lo sfruttamento dei "deportati", 
        degli stranieri, degli immigrati, delle popolazioni di colore nell'aparthaid 
        generalizzato e nel risveglio di politiche razziste e scioviniste. 
      Precarietà sono 1400 milioni di 
        persone che vivono al di sotto della soglia di povertà, 600 milioni 
        in Asia, più di un centinaio di milioni di "poveri assoluti" 
        negli USA e nella UE. 
      E' la spaventosa esplosione delle diseguaglianze 
        sociali nella Triade imperialista e nel Tricontinente, dato che il divario 
        abissale tra la frazione più ricca e i più poveri si è 
        considerevolmente aggravata negli ultimi 30 anni.  
      La differenza di reddito tra il 20% più 
        ricco e il 20% più povero è passata da 30 a 1 a 60 a 1! 
         
        Secondo l'ONU, il numero di patrimoni personali superiore a 100 milioni 
        di dollari è aumentato nel corso di questi ultimi 7 anni da 145 
        a 358, e questi rappresentano l'equivalente dei redditi annuali del 45% 
        della popolazione mondiale, cioè 2,3 miliardi di persone.. 
      Marx ha descritto questa  
       
        "legge che stabilisce una correlazione 
          fatale tra l'accumulazione del capitale e l'accumulazione della miseria, 
          in tal modo che l'accumulazione della ricchezza in un polo è 
          uguale accumulazione di povertà, di sofferenza, di ignoranza, 
          di abbrutimento, di degrado morale, di schiavitù, al polo opposto, 
          dalla parte della classe che produce il capitale stesso".  
          
      b) la polarizzazione triade imperialista/tricontinente 
      Simultaneamente il divario tra i paesi 
        della Triade e quelli del Tricontinente si è anch'esso accresciuto 
        in proporzioni enormi.  
      E' chiaro che si sarà sempre nell'incapacità 
        di comprendere la precarietà come qualità globale del modello 
        attuale e del soggetto proletario antagonista, se non si coglie concretamente 
        la tendenza di questa polarizzazione ed il suo divenire. 
      Questa tendenza fondamentale è apparsa 
        con lo stadio imperialista, e ne è il marchio indelebile. 
      In un secolo circa, lo scarto tra il reddito 
        delle popolazioni del centro e della periferia si è moltiplicato 
        per 8.  
      Il rapporto del reddito pro-capite dei 
        paesi più ricchi e quelli più poveri è passato da 
        11 nel 1870 a 38 nel 1950, e infine a 52 nel 1985. 
      Con il nuovo modello,  
       
        "in totale, il 48% dei paesi poveri 
          hanno avuto uno sviluppo meno rapido rispetto alla più lenta 
          delle economie dell'OCSE, e il 70% ha conosciuto una crescita inferiore 
          rispetto alla media OCSE. Essendo la crescita dei paesi poveri in media 
          meno rapida, la dispersione internazionale dei redditi (misurata attraverso 
          lo scarto tipo del logaritmo naturale del reddito pro-capite) fra il 
          1960 e il 1990 è aumentata del 28% (passando dallo 0,86% all' 
          1,1) e il rapporto tra il reddito dei più ricchi e quello dei 
          più poveri è aumentato del 45% dal 1960"  
          
        (FMI "Finanze e Sviluppo"). 
      
         
      I redditi annuali sono aumentati del 2,6% 
        all'anno nell'OCSE contro l'1,8% del resto del mondo.  
      Così, malgrado la forte industrializzazione 
        del Tricontinente, 88 paesi su 93, quindi il 94% della popolazione mondiale, 
        durante il periodo 1975/83 e oltre, rimangono nella stessa zona limite 
        nella quale si trovavano tra il 1938 e il 1950. 
      Sicuramente la situazione è estremamente 
        diseguale a seconda dei paesi del Tricontinente, cosa che dimostra per 
        altro come la loro integrazione nella nuova divisione internazionale del 
        lavoro avviene all'interno di una forte gerarchizzazione.  
      A partire dal "Rapporto sullo sviluppo 
        nel mondo 1995", (che abbraccia il periodo 1980-93) possiamo constatare 
        che più della metà di questi 93 pesi hanno avuto una crescita 
        negativa.  
        E nessuno di essi, neanche quelli con una forte crescita, potrà 
        raqggiungere a breve termine redditi uguali a quelli della fine degli 
        anni '70. 
      Inoltre, anche se numerosi paesi del Tricontinente 
        hanno avuto, malgrado tutto, una crescita positiva, per l'80% dei casi 
        essa è rimasta più debole rispetto a quella dei paesi della 
        Triade imperialista. 
      A partire da queste due constatazioni, 
        e secondo le stesse stime del FMI, ci vorrebbero "33 anni al Brasile 
        per ritornare ai suoi redditi record (al ritmo di crescita annuale dello 
        0,3% tenuto dal 1980 al 1993) e 487 anni per raggiungere i paesi a reddito 
        elevato".  
      Peraltro, "un gruppo ristretto di 
        paesi in via di sviluppo hanno effettivamente avuto una 'convergenza' 
        grazie ad una crescita maggiore che negli USA.  
        Quando li raggiungeranno? 
      L'India, per esempio, ha avuto una crescita 
        annuale media del 3% tra il 1980 e il 1993. Se sosterrà questo 
        ritmo per 100 anni ancora, raggiungerà il livello attuale dei paesi 
        ad alto reddito. E se potrà mantenere questo differenziale di crescita 
        per 377 anni..." l'India supererà il limite della "convergenza"! 
      Sebbene numerose attività industriali 
        o di servizi siano state delocalizzate verso il Tricontinente, bisogna 
        anche dire che solo 10 paesi sono riusciti a cavarsela ottenendo l'1% 
        della crescita in più rispetto alla media dei paesi della Triade. 
         
      Per questi paesi, le speranze di "convergenza" 
        sarebbe qualsi palpabili (50 anni circa per le Filippine), ma solo se 
        la loro eccezionale crescita si mantenesse allo stesso livello senza cedimenti, 
        senza crisi, senza delocalizzazione di attività verso altre zone 
        più redditizie... 
      Dopo un secolo nessuna politica di "sviluppo", 
        nessun piano di aggiustamento, nessuna politica "terzo-mondista", 
        nessuno sforzo dei paesi del Tricontinente ha potuto rompere questa polarizzazione. 
         
      La polarizzazione è prodotta dal 
        funzionamento stesso della legge del valore che opera su scala mondiale. 
         
        La si può cogliere per via dei caratteri sempre più deformati 
        dell'accumulazione capitalista, ed essa può sparire solo con la 
        sparizione di quest'ultima. 
      La polarizzazione tra la Triade imperialista 
        e il Tricontinente è oggi una delle realtà e una delle contraddizioni 
        principali del modo di produzione capitalista.  
        Per questo, e in modo evidente, essa opera con tutto il suo peso nel cuore 
        stesso della nuova composizione-lotta classe.  
      E non si può cogliere pienamente 
        l'emergere del nuovo soggetto di classe, il proletario precario, solo 
        se si colloca la contraddizione della polarizzazione Triade imperialista/Tricontinente 
        al centro della definizione della posta in gioco e delle sfide della congiuntura 
        dominata dalla mondializzazione. 
      La figura del proletario precario è 
        emersa nelle lotte, nelle rivolte, nelle resistenze anche qui sul cuore 
        delle metropoli.  
        Si è manifestata in un antagonismo che è il riflesso della 
        precarietà della propria esistenza sociale.  
      "E' una parola che grida una rabbia 
        profonda, ma è anche impregnata di un profondo sentimento di paura. 
        Paura di esser stati cacciati dalla storia, da un "progresso" 
        che, oggi più che mai, si misura con l'accumulazione di ricchezza, 
        solo per degli strati sempe più ridotti di individui.  
      Paura di essere ormai ridotti ad una maggioranza 
        pletorica e soffocante, definitivamente condannata all'impotenza perché 
        privata delle minime briciole di potere contrattuale rispetto ai meccanismi 
        di accumulazione di ricchezza". 
      Tuttavia, questa classe sempre crea la 
        ricchezza, il suo sfruttamento è invariabilmente la base di questa 
        società mondializzata, ma essa non ha alcun diritto di cittadinanza. 
         
        Essa non è altro che la massa informe che vive nelle periferie, 
        periferie delle metropoli, periferie delle megapoli, periferie della periferie... 
      La coscienza alienata che il proletariato 
        oggi ha dei limiti della sua condizione, della sua azione, dei suoi ambiti 
        e dei suoi metodi, diviene essa stessa parte inscindibile del suo stato 
        di precarietà, dello stato di precarietà di tutta la classe. 
      Polarizzazione Triade/Tricontinente, polarizzazione 
        sociale tra borghesia e proletariato, sfruttamento intensivo, precarietà, 
        sovrappopolazione, periferizzazione, pauperizzazione, esclusione politica, 
        sono le basi sulle quali si forgia oggi la figura sociale del proletario 
        antagonista.  
      Un soggetto descritto da Marx quando affronta 
        le logiche profonde della polarizzazione tra le due classi principali. 
         
       
        "Lungi dall'elevarsi, con il progresso 
          dell'industria l'operaio moderno scende sempre più in basso, 
          al di sotto anche delle condizioni della propria classe. L'operaio diventa 
          un "pauper" e il pauperismo si sviluppa più velocemente 
          della popolazione e della ricchezza"  
          
      Evidentemente, come per i suoi predecessori, 
        la comparsa sulla scena mondiale di questo soggetto sociale determina 
        tutta una serie di questioni tattiche che i rivoluzionari dovranno porsi 
        e risolvere. 
      Il comunismo è il divenire delle 
        contraddizioni reali.  
        E oggi questo proletariato antagonista è il pilastro della contraddizione 
        principale. 
        Se si elude dalla sua prospettiva di lotta e dalla sua azione pratica, 
        si esce ineluttabimente dal movimento reale.  
      Oggi, a partire da ogni situazione e in 
        particolare nelle metropoli, il compito dei rivoluzionari è dunque 
        quello di rendere leggibile il reale contro tutte le illusioni mantenute 
        dall'insieme delle varianti della via socialdemocratica (dai partiti di 
        governo, alle confederazioni sindacali, ai gruppetti metropolitani). 
      Non c'è altra alternativa: solo 
        mettendo in pratica le conclusioni relative alla presenza del soggetto 
        proletario precario con tuto ciò che questo implica, noi potremo 
        agire in nome di un comunismo possibile, di una ricomposizione di classe 
        attorno all'unità di identità e di interessi comuni di trasformazione 
        sociale. 
      [torna 
        all'inizio della pagina] 
      
       
         
          | 8. 
            DALLA SCONFITTA ALLE PROSSIME INIZIATIVE | 
         
       
      
      Nel corso degli anni 80, il movimento rivoluzionario 
        ha conosciuto numerose sconfitte.  
      Di fronte a questa evidenza, e di fronte 
        ai capovolgimenti in atto, alle rimesse in discussione, al crollo del 
        "socialismo reale", di fronte all'impotenza o all'apparente 
        impotenza di poter cambiare le cose, di fronte alle dimensioni attuali 
        della lotta di classe, si è ampiamente diffusa, nel guazzabuglio 
        di critiche e disfattismi di ogni genere, una critica irrazionale all'esperienza 
        rivoluzionaria dagli anni '60 in poi. 
      Ciò è avvenuto in particolare 
        a proposito dell'esperienza della guerriglia, poiché di fronte 
        alla controffensiva politico-ideologica della borghesia, invece di criticare 
        i nostri reali errori (e ne abbiamo commessi molti), e di rettificare 
        ciò che doveva essere rettificato, di valorizzare questi anni di 
        lotta e progredire verso le prospettive aperte da due decenni di prassi, 
        tutto è stato buttato via in un clima di panico e contrizione. 
         
      Tuttavia, molto rapidamente, queste critiche 
        assolutiste hanno dimostrato di non avere niente a che fare con la costruzione 
        di ponti verso nuove prospettive; tutte, senza eccezione alcuna, rimandano 
        ad un capitalismo sognato oppure a posizioni illusorie in cui si mischiano 
        indistintamente principi, teorie, analisi... con uno spirito di parrocchia. 
         
      Queste critiche invece di partire dalle 
        lotte per intraprendere nuove lotte, partecipano alla battaglia per la 
        liquidazione della sinistra anticapitalista e antimperialista in Europa, 
        per la liquidazione di una sinistra capace di far vivere il legame tra 
        la liberazione dei proletari del Tricontinente e quelli della Triade imperialista. 
      Se è vero che in Europa le guerriglie 
        della sinistra rivoluzionaria hanno subito importanti rovesci che le hanno 
        rimesse in discussione fino alla loro stessa esistenza, ciò non 
        dimostra tuttavia la loro incapacità ad essere uno degli assi fondamentali 
        della lotta di emancipazione proletaria e dell'unità internazionale 
        della classe per l'avvenire. Tutt'altro. 
      Il massacro dei comunardi non significò 
        la fine della rivoluzione proletaria. Anche quest'esperienza proletaria 
        non può essere superata se non da una nuova esperienza rivoluzionaria 
        capace di farsi carico, meglio di essa, degli interessi generali di tutta 
        la classe. 
      Nel corso degli anni '80 e '90 la sinistra 
        istituzionale ha forse dimostrato l'utilità del suo riformismo? 
        E altre espressioni del movimento hanno forse dimostrato il loro valore 
        superiore nel risolvere la questione rivoluzionaria? 
      I partiti di sinistra sono sempre più 
        invischiati nella loro natura di bravi gestori e trascinano su questa 
        strada i sempiterni gruppetti che gli si incollano dietro.  
      I sindacati confederali hanno definitivamente 
        abbandonato il sindacalismo di classe e rincorrono la conservazione del 
        loro ruolo istituzionale acquisito nell'epoca fordista moltiplicando gli 
        accordi trilaterali con il governo e il padronato. 
      Di fronte all'aumento delle lotte operaie 
        (nel '95 c'è stato un numero di conflitti 5 volte maggiore che 
        nel '94 e due volte maggiore che nell'84) e della resistenza proletaria, 
        questi partiti e sindacati non hanno più niente da proporre se 
        non programmi elettorali e neo-corporativi tutti legati alla vecchia concezione 
        dell'accumulazione, allo Stato nazionale imperialista e ai suoi limiti 
        e divisioni. 
      Dappertutto il concetto di "proletario 
        senza patria" è rimpiazzato dal concetto di cittadino.  
        Cittadino di uno stato imperialista. Cittadino dunque che, come tutti 
        gli altri "partecipanti" a questo Stato, trae dei vantaggi dalla 
        relazione imperialista Triade/Tricontinente, e dall'aggravarsi dello sfruttamento 
        che essa rappresenta.  
      L'insieme del progetto opportunista poggia 
        essenzialmente sulla divisione nazionale e imperialista del proletariato. 
         
      Una delle sue funzioni principali nel controllo 
        sociale è quella di mantenere questa divisione e di promuovere 
        false unità popolari, di mantenere e promuovere la collusione interclassista 
        populista contro l'unità del proletariato internazionale. 
      La maggior parte delle espressioni auto-organizzate 
        e antimperialiste che, insieme alle guerriglie, sono state la punta di 
        lancia delle lotte nel continente europeo, non sono riuscite purtroppo 
        a radicarsi e a svilupparsi in questa fase cruciale.  
      Al contrario, esse hanno spesso ripiegato 
        su lotte e resistenze particolari o settoriali: lotte per la casa, lotte 
        per la regolarizzazione degli immigrati... sono delle lotte giuste che 
        bisogna condurre.  
      Ma il movimento autonomo ha sempre più 
        la tendenza a dare preponderanza a questi particolarismi e tende di nuovo 
        alla vecchia religiosità del concreto, alimentando continuamente 
        rotture e divisioni delle condizioni sociali, trasforma questo concreto 
        in illusione.  
      Così può apportare solo una 
        coscienza frammentata, senza prospettiva di reale trasformazione sociale, 
        radicale e durataura. 
      Il localismo e il settorialismo non sono 
        nient'altro che nuove forme di gestione.  
        Pratiche "di base" che corrispondono alla gestione dell'economia 
        e alla gestione dei riformisti.  
        E in un modo diverso esse ricadono nel pantano del riformismo che pretendono 
        criticare.  
        La meta è niente, il movimento è tutto!! 
      Rosa Luxemburg ha già denunciato 
        tutto il significato opportunista di questo modo di procedere,  
       
        "il cammino non è attraverso 
          la maggioranza verso la tattica rivoluzionaria, ma verso la maggioranza 
          attraverso la tattica rivoluzionaria". 
       
      La rivoluzione non è e non è 
        mai stata un condensato di azioni riformiste a breve scadenza, ma un salto 
        qualitativo decisivo.  
      Tutto il processo rivoluzionario fin dalle 
        sue origini porta in sé questa qualità.  
      E' la coscienza della necessità 
        e possibilità di abbattere fino agli ultimi ostacoli che bloccano 
        lo sviluppo delle forze produttive, la volontà di darsi tutti gli 
        strumenti reali per liberarle e sottometterle ai bisogni degli individui. 
      Vale a dire un autentico processo di critica 
        e di rottura, un processo di azione e di preparazione dell'azione rivoluzionaria 
        in cui "il movimento in sé, senza relazione con lo scopo non 
        è niente, lo scopo è tutto". 
      Noi tutti che abbiamo partecipato ai grandi 
        movimenti rivoluzionari sul nostro continente, noi che siamo stati sulle 
        barricate del '68, nella resistenza contro la dittatura in Spagna, in 
        Grecia, in Portogallo... nelle lotte contro la guerra in Viet-Nam, e contro 
        l'imperialismo USA, per la rivoluzione palestinese, noi che siamo stati 
        nei comitati di base o nei primi fuochi della guerriglia...  
      Noi che siamo sempre stati per una stretta 
        interazione tra le avanguardie di lotta e gli organismi autonomi della 
        classe, sappiamo, per averlo sperimentato, che nulla si può fare 
        senza questo rapporto.  
      Noi tutti comunisti rivoluzionari e anti-imperialisti 
        dobbiamo criticare senza debolezza queste due deviazioni opportuniste 
        e gli ex compagni che deviano dalla loro storia per queste illusioni. 
      Nessun movimento rivoluzionario può 
        né potrà concretizzarsi su queste rinunce.  
        Si sa bene che la rivoluzione non torna indietro se non come caricatura. 
         
        La riattualizzazione del binario istituzionale o paraistituzionale "partito-sindacato" 
        è la dimostrazione del "concreto" illusorio che abbaglia 
        intere parti del movimento, disorientato da falsi dibattiti.  
      Un disorientamento che andrà aggravandosi 
        proprio a causa di questi abbandoni e del dogmatismo, che non permettono 
        di affrontare le questioni attuali della congiuntura. 
      Come agire negli interessi generali del 
        proletariato internazionale, per la sua ricomposizione come classe rivoluzionaria 
        e del suo attuale soggetto antagonista: il proletario precario? 
      Come creare relazioni vive e costruttive 
        con le espressioni rivoluzionarie di questo proletariato nel Tricontinente? 
      Come lavorare ad un'organizzazione sociale 
        che sia adeguata allo scontro storico attuale? 
      Come affrontare la congiuntura generale 
        delle contraddizioni del capitalismo? 
      Come affrontare la contraddizione tra i 
        3 poli concorrenziali imperialisti USA, Giappone, UE? 
      Come lavorare all'unità dei rivoluzionari 
        nel nostro continente e al sabotaggio del militarismo e della guerra economica? 
      Come superare il quadro della contro-rivoluzione 
        permanente nei regimi borghesi del centro? 
      Come criticare e rompere l'illusione di 
        questi regimi autoritari?  
      Come opporsi al processo di fascistizzazione 
        che essi materializzano e perpetuano nella separazione sempre maggiore 
        tra i poteri formali (partiti, parlamenti,...) e i poteri reali (i poteri 
        concentrati nell'economia, nel capitale finanziario)? 
      E' solo a partire da questi problemi e 
        dalla loro soluzione rivoluzionaria che potrà essere affrontata 
        e criticata la sperimentazione delle organizzazioni rivoluzionarie armate 
        degli anni '70 - '80.  
      Vale a dire che non si tratta solo di una 
        questione di solidarietà, ma di una cocente attualità per 
        tutti coloro che vogliono davvero riprendere la lotta e svilupparla sul 
        terreno del movimento reale. 
      E' solo in questo processo di risoluzione 
        rivoluzionaria che la memoria riprende tutto il suo valore come arma per 
        la lotta collettiva. 
      Giugno 1997 
       
        Joelle Aubron, Nathalie Menigon, J.Marc 
          Rouillan 
          Prigionieri dell'organizzazione Action Directe 
       
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