QUADERNI DI SENZA CENSURA - N.1 - NOVEMBRE 1997

PER LA LIBERAZIONE!

Intervento di Joelle Aubron, Nathalie Menigon e Jean Marc Rouillan all'assemblea del 19 giugno 1997 a Bruxelles in occasione della Giornata Internazionale del Rivoluzionario Prigioniero

Prendiamo la parola oggi, in occasione di questa giornata internazionale del prigioniero rivoluzionario, al fine di portare il nostro sostegno alla campagna per la liberazione dei compagni delle CCC.

Questi compagni hanno scontato più di 10 anni della loro condanna e il loro rimanere in stato di detenzione ora è solo competenza del potere politico. Il governo belga usa questo potere arbitrario già da molti mesi.

E' molto chiaro che questa campagna non ha niente a che vedere con le numerose messe in scena "soluzioniste" che abbiamo visto spesso attorno alla questione della detenzione politica.

Qui si tratta invece di una lotta per la liberazione senza compromessi, senza rinnegare, senza niente che possa intaccare il senso della lotta rivoluzionaria passata e presente di questi compagni.

Noi abbiamo combattuto al loro fianco spesso impugnando le armi e di conseguenza conosciamo bene tutto il loro valore.

Sicuramente abbiamo avuto e abbiamo ancora delle divergenze politiche, ma mai queste divergenze potranno servire da pretesto per un passo indietro nell'espressione di tutta la nostra solidarietà proletaria combattente.

Per questo oggi noi siamo ancora al loro fianco in questa nuova lotta.

Bisogna strappare la libertà di Pascal, Pierre e Bertrand! Subito!

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1. UN PATRIMONIO DI LOTTA RIVOLUZIONARIA

La lotta per la liberazione dei prigionieri rivoluzionari è una lotta per la memoria collettiva di tutto il movimento rivoluzionario, un momento della lotta di emancipazione di tutti i proletari.

In Europa, dopo il maggio '68, migliaia di militanti hanno fatto la scelta della lotta armata per il Comunismo.

Dopo la lotta extraparlamentare degli studenti di Berlino e dopo la grande rottura nei confronti del revisionismo dei partiti e dei sindacati della sinistra istituzionale, che si è data con i comitati di occupazione della Primavera francese e l'Autunno Caldo italiano... le guerriglie hanno sperimentato, accumulato e diffuso tutto un sapere combattente.

Oggi questo sapere è uno dei principali patrimoni della classe.

E malgrado tutto la sua memoria resta innegabilmente viva.
Malgrado le campagne di disinformazione orchestrate dalla propoaganda dei media, malgrado la permanente riscrittura storica di questa epoca, malgrado i processi-spettacolo, malgrado le calunnie e le deformazioni a oltranza, malgrado i braccetti di isolamento, la tortura e l'omicidio...

Numerosi esempi evidenziano questa verità.

Qualche mese fa in Italia quando un giornalista pose la domanda a degli operai per sapere chi difenderà meglio i loro interessi, hanno risposto "sicuramente non un nuovo patto sindacati-padroni-governo, quello che ci manca sono le Brigate Rosse".

A Vilvaorde, gli operai manifestando la loro rabbia hanno pubblicato e largamente diffuso un manifesto sul quale si legge: "Besse è stato il primo, chi sarà il successivo?".

Questa rivendicazione dell'azione del commando Pierre Overnay della nostra organizzazione, da parte della classe, come sua propria azione, come parte della sua memoria di lotta, dimostra bene che ogni volta che i proletaririalzano la propria bandiera, quella dell'autonomia di classe nelle lotte, ristabiliscono immancabilmente il legame tra la lotta degli anni 60-80 e le prospettive attuali di trasformazione sociale

E non può essere diversamente nella dialettica delle lotte rivoluzionarie.

Niente nasce dal niente. Nessun movimento rivoluzionario sorge senza fare sua la storia della sua classe e il patrimonio della sua lotta, di ieri e di prima di ieri, a livello locale e internazionale.

Noi stessi quando abbiamo intrapreso queste lotte alla fine degli anni '60, portavamo in noi il patrimonio del movimento rivoluzionario che ci aveva preceduto, quello della Resistenza al nazismo, delle rivoluzioni cinese e cubana, dei maquis antifranchisti, delle lotte di liberazione algerine e vietnamita, quello dei grandi scioperi operai del '48 e degli anni 50...

Senza fare nostro questo patrimonio, senza collocarci in rapporto ad esso, senza apportare una critica costruttiva e militante, noi non avremmo mai potuto sperimentare le vie che abbiamo preso.

Mai avremmo potuto definire e praticare l'unità dei tre fronti: fronte anticapitalista, fronte antimperialista, fronte antirevisionista.

Mai avremmo potuto ridare il suo posto all'iniziativa delle masse stesse nel loro processo di autoeducazione e autodeterminazione e concepire nuovi rapporti tra le avanguardie di lotta e gli organismi di massa.

Mai avremmo potuto rivitalizzare un internazionalismo proletario indebolito dalla collusione tra il revisionismo e l'imperialismo che durava da vari decenni.

Mai avremmo potuto definire un nuovo internazionalismo proletario che per noi aveva le sue linee principali nell'unità dei rivoluzionari in Europa e nel Fronte antimperialista nell'area geo-strategica Europa occidentale e orientale- Medio Oriente-Mediterraneo.

Mai avremmo potuto riattualizzare il progetto rivoluzionario sul nostro continente, facendo così nostro l'insegnamento della guerra rivoluzionaria delle masse dei tre continenti e facendo dell'unità del politico e del militare la direttrice che attraversa tutti gli aspetti del processo e dell'attività rivoluzionaria, orientando così tutte le questioni nate con il procedere della lotta verso la risoluzione rivoluzionaria.

Dal'inizio e ad ogni fase del processo, non avremmo potuto dimostrare che senza risolvere la questione della violenza, nessuna politica rivoluzionaria è praticabile, né è possibile nessuna rottura e critica dei regimi di "democrazia spettacolo".

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2. RIFIUTARE IL RINNEGAMENTO DELL'IMPEGNO RIVOLUZIONARIO

I prigionieri rivoluzionari portano in loro questo patrimonio.
Rappresentano il legame più diretto che ci sia tra lotte passate attualità della resistenza con le sue prospettive di emancipazione.

Ed è per questo che da molto tempo sono in corso manovre da parte di coloro che vogliono distruggere questa sperimentazione, magari riscriverla al servizio della liquidazione e dell'opportunismo.

Così i prigionieri non solo devono lottare contro la sottomissione e l'annientamento quali obiettivi dello Stato nella gestione controrivoluzionaria della detenzione politica, ma devono anche lottare continuamente contro le illusioni di un ritorno alle tradizioni gruppettare, sedicenti m–l, o a quelle anarchiche.

Perchè rinnegare quello che è stato il proprio impegno nel corso di quegli anni, vuol dire essenzialmente tornare alle parzialità tollerate dal sistema "democratico" borghese e partecipare all'illusione della formalità sempre più di facciata sempre più alienante di questi regimi.
Vuol dire lasciar credere che sia sempre possibile una rottura rivoluzionaria nell'accumularsi delle proteste di routine, settorie o sindacali, che si possa acquisire l'esperienza necessaria senza lo sviluppo di momenti rivoluzionari capaci di indebolire il dominio e di rafforzare la coscienza antagonista dei proletari.

l nostro discorso non deve far pensare che noi privilegiamo unicamente l'azione armata e che consideriamo secondarie tutte le altre pratiche.
Non è così.

La questione è sapere qual è la strada rivoluzionaria sul nostro continente, qual è la sua strategia principale, qual è l'organizzazione sociale sovversiva che corrisponde allo scontro storico in corso, quale preparazione, e agitazione-propaganda essa esige...

Le lotte passate hanno scavato un fossato tra il disimpegno permanente di fronte ai compiti della lotta di classe rappresentato dalle pratiche senza sbocco e dalle delegazioni inamovibili dei "bonzi", e la guerra rivoluzionaria di lunga durata che, in presenza dello sviluppo del sistema controrivoluzionario di controllo totale, della generalizzazione del militarismo e della gogna mediatico-ideologica dell'opinione pubblica, è la sola via adeguata ad una ripresa dell'iniziativa rivoluzionaria, capace di sostenerla, di operare per l'unità dei proletari europei con le immense masse proletarizzate del Tricontinente e di orientare il fronte comune con tutte le resistenze nelle fabbriche, nei quartieri, nelle diverse lotte sociali.

Questo fossato esiste ancora, più che nel passato, per coloro che sanno vederlo, che vogliono superare i limiti dell'illusione.

E' sempre lo stesso vecchio fossato tra riformismo e rivoluzione. Due posizioni che rimangono incompatibili nello sviluppo-imputridimento del capitalismo.

Di conseguenza e per preservare interamente il senso del processo rivoluzionario degli anni 60-80, i prigionieri della guerriglia devono rifiutare di passare sotto le forche caudine dell'istituzione in quest'altro modo, cioè quello di fargli rifiutare la propria storia di rottura e di critica, la propria memoria, per tornare da dove sono partiti.

Vale a dire la strada senza sbocco dell'impotenza e della contestazione istituzionale tipica della sinistra pacifista, legalitaria, pontificante ed eurocentrica.

Come se niente fosse veramente successo, come se rimettendo all'ordine del giorno "i tempi dei partigiani", più di due decenni di lotta fossero messi tra parentesi e cancellati con tutto il loro patrimonio per la classe.

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3. IL FILO ROSSO DI UN PASSAGGIO DI FASE DELLA LOTTA DI CLASSE

Alla fine degli anni '80, si è innegabimente prodotta una frattura storica.
Con la crisi del capitalismo - la manifestazione dei suoi limiti - e a causa dei cambiamenti del modello di accumulazione intrapresi dalla borghesia nel tentativo di restaurare il suo dominio e i suoi profitti, un ciclo di lotte si è esaurito.

Non per questo si è conclusa la storia, come sostiene un cantore del neoliberismo, semplicemente nella storia - e quindi nella storia rivoluzionaria - si è voltato pagina. Siamo entrati in un'epoca di transizione.

Evidentmente è un fatto di importanza cruciale, ma ciò non ha niente di straordinario o di catastrofico.
Situazioni analoghe si sono già verificate due o tre volte nel corso di un secolo.

Dopo le barricate della Comune di Parigi, la storia rivoluzionaria sul nostro continente ha dovuto evolvere, sperimentare e conoscere e riconoscere la sconfitta, risollevarsi e ripartire per "l'assalto al cielo".

Così come con la seconda rivoluzione industriale, i proletari abbandonarono le antiche tattiche cospiratrici e insurrezionali e optarono per la costruzione di grandi partiti e sindacati.

Ma questi, dopo essere stati strumenti di un salto qualitativo innegabile, vennero superati perché si dimostrarono incapaci - malgrado la loro potenza - di rovesciare o anche correggere le logiche del capitalismo e, peggio, gettarono milioni di proletari legati mani e piedi nella carneficina della prima guerra mondiale.

Della critica di questa esperienza e spinti dalla speranza della Rivoluzione russa del 1917, nasceranno i partiti comunisti e la Terza Internazionale.

Due decenni più tardi questi partiti e il loro pensiero a loro volta cominciarono a cadere in altri errori, altrettanto gravi, fino alla collusione con il sistema borghese imperialista nel dopoguerra, quando nei principali centri industriali il regime di accumulazione fordista riuscì a integrarli nella gestione del sistema del Welfare-State.

Ma le masse popolari, sempre più mondializzate e proletarizzate dal gigantesco movimento di industrializzazione che nel corso degli anni 50-70 si diffondeva dal centro verso la periferia sperimentarono altre strade di lotta per i loro interessi, per la loro unità.

Una nuova ondata rivoluzionaria si concretizza, rompendo i grandi assiomi del revisionismo moderno "il passaggio graduale al socialismo attraverso le riforme di struttura", "la coesistenza pacifica con l'imperialismo ", "la centralità della lotta parlamentare nazionale"...

Nel 1967 l'Organizzazione Latinoamericana di Solidarietà proclamava:

"la lotta rivoluzionaria armata costituisce la linea fondamentale della rivoluzione in America Latina. Tutte le altre forme di lotta devono servire e non ritardare lo sviluppo della linea fondamentale che è la lotta armata".

La comparsa della guerriglia europea si colloca in questo grande movimento storico e nelle determinazioni politico-pratiche che esso implica.

Di fronte a una industrializzazione mondializzata sempre più polarizzata tra un centro sempre più finanziario e una periferia sempre più sfruttata e spossessata, e di fronte alla globalizzazione dei rapporti sociali dominanti, la guerriglia ha dovuto sperimentare e generalizzare, nella lotta sul nostro continente, l'unità delle lotte anticapitaliste e antimperialiste.

Nella nuova congiuntura, la lotta dei popoli dipendenti diviene sempre più una lotta proletaria internazionale.
Essa non è più semplicemente parte della rivoluzione proletaria mondiale, innegabilmente essa è il cuore dell'unità della classe.

Ogni salto in avanti dello scontro rivoluzionario nel centro, nella "patria delle casseforti" non solo deve appoggiare e rappresentare un'avanzamento reale degli interessi reali dei proletari qui, ma deve essere anche e principalmente un momento di unità internazionale della classe intera.

Vale a dire un attacco che realmente distrugge e sovverte il funzionamento degli strumenti e dei rapporti imperialisti che mantengono, rafforzano o anche ridistribuiscono qui, i dividendi tratti dallo sfruttamento e dall'oppressione di centinaia di milioni di proletari e delle masse dipendenti del Tricontinente.

Si tratta di un imperativo ineluttabile, perché rinasca nei paesi della Triade imperialista coscienza e organizzazione per la trasformazione sociale.

"La guerriglia è la forma dell'internazionalismo proletario nelle metropoli. E' il soggetto della ricostruzione della politica proletaria a livello internazionale".

Il filo rosso di 150 anni di lotte sociali è il cammino verso l'autonomia politica del proletariato come unica classe effettivamente rivoluzionaria, capace di sbarazzarsi dello sfruttamento economico e di ogni sfruttamento, una lungo cammino che va dall'unità con la borghesia degli inizi, alle lotte popolari, fino alla lotta per la propria autoorganizzazione, per la costruzione del suo partito autonomo e infine per la sua unità mondiale.

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4. UN NUOVO MODELLO DI ACCUMULAZIONE, UN NUOVO CICLO DI LOTTA BORGHESIA / PROLETARIATO

La dinamica propulsiva dei salti qualitativi da un'epoca all'altra del capitalismo, diviene sostanzialmente traumatica quando si rivelano i limiti raggiunti dal modello di accumulazione e si scatena quindi una lotta generale economica, politica, culturale... tra i principali attori sociali.

In quanto la borghesia (proprietaria / non lavoratrice / sfruttatrice) deve lottare per rivoluzionare i rapporrti di produzione nel quadro del capitalismo e quindi della loro riproduzione allargata e il proletariato (non possidente / lavoratore / sfruttato) lotta per sottrarsi alle condizioni di sfruttamento e di miseria, per rivoluzionare radicalmente tutti i rapporti sociali e quindi i rapporti di produzione capitalisti e farla finita con il capitalismo stesso.
Per tutti i marxisti questo è molto chiaro.

Il capitalismo si suddivide in diversi stadi e tappe e con esso i cicli di lotta, le forme e i metodi rivoluzionari, sotto "l'effetto storico della lotta di classe".
Sappiamo che tutti lo sanno, tuttavia crediamo importante dirlo e se occorre ripeterlo, poiché questa comprensione generale è troppo spesso assente dalle analisi delle trasformazioni e dell'antagonismo di classe degli anni 80 e 90, che possiamo leggere qua e là sulla stampa militante, spesso troppo occupata a seguire le mode lanciate da sociologi, filosofi, o altri mandarini del sapere servile.

In assenza di un rovesciamento rivoluzionario decisivo, l'unico capace di far nascere nuovi rapporti di produzione, si realizza il superamento guidato del vecchio modello di accumulazione in crisi, sotto l'azione della lotta di classe della borghesia, sotto la sua direzione politico-ideologica.

Solo in questo modo la borghesia riesce ad imporre un nuovo insieme di rapporti e di strumenti di regolazione e per questo tali cambiamenti corrispondono inevitabilmente all'intensificazione dei caratteri e dei limiti propri dei rapporti di produzione capitalisti.

Di conseguenza e a dispetto del "riformismo radical-chic" in presenza di questi rapporti di produzione e dell'estensione del dominio reale del capitale all'intero pianeta, non vi sono possibilità di capitalismo "dal volto umano", di mutamenti graduali di questo modo di produzione come vorrebbero far credere la religiosità del progresso e la visione socialdemocratica.

La globalizzazione della crisi di sovrapproduzione assoluta di capitale generalizza la concorrenza accanita, caotica e distruttrice, tra le corporation transnazionali, tra tutte le imprese, i settori, tra i paesi, tra le aree continentali, tra tutti gli esseri umani, tra i maschi e le femmine, tra le popolazioni...

La concorrenza alimenta i conflitti, la diffusione del militarismo, le lacerazioni, i saccheggi... ma soprattutto alimenta la guerra di produttività.
E questa guerra non porta alla pace poiché inesorabilmente la competitività produttiva, nel suo sviluppo, comporta la caduta tendenziale del saggio di profitto e quindi maggiore guerra di concorrenza.

Gli sforzi di competitività e le controtendenze alla caduta del tasso di profitto sono altrettanto espressioni della lotta di classe della borghesia.
Lotta tra le diverse frazioni della classe borghese, ma soprattutto un antagonismo nella polarizzazione sociale tra una frazione della borghesia sempre più ridotta e un proletariato sempre più esteso e sfruttato.

Di conseguenza, il nuovo modello di accumulazione rappresenta lo stato reale del rapporto di forza a favore della classe borghese.

Non c'è alcun dubbio che lo stato del rapporto di forza tra le classi si sia considerevolmente modificato nel corso del passaggio tra il modello fordista-keynesiano e quello toyotista-neoliberale.

Secondo Marx, i due cardini essenziali per ristabilire i tassi di profitto poggiano sullo sfruttamento intensivo e sull'espansione della classe proletaria.

Egli ha sempre legato "l'intensificazione del lavoro", "la riduzione del salario al di sotto del valore della forza lavoro" che il capitale impone nei centri industriali, con lo sviluppo del "commercio estero", "l'investimento di capitale nei paesi economicamente arretrati", "la creazione di sovrappopolazione relativa" che si estendono tramite le relazioni imperialiste a partire dal periodo coloniale fino alla dipendenza intensiva di oggi.

La classe proletaria internazionale è stretta così nella doppia morsa dello sfruttamento capitalista.

Una parte (principalmente nel centro e nelle fabbriche ad alta tecnologia) è sempre più sfruttata all'interno del ciclo di ricerca permanente di produttività (aumenta il tasso di plusvalore estorto ad ogni singolo lavoratore).

Il dominio del capitale morto sul capitale vivo, della macchina sull'uomo...

Simultaneamente l'immensa maggioranza dei proletari è sempre più sfruttata tramite il rafforzamento della natura imperialista del sistema, è sfruttata più intensamente di fatto dalla "legge del valore mondializzata" ("il differenziale di retribuzione del lavoro... è più scarso di quello della sua produttività").

Nello stadio imperialista, la natura dello sfruttamento intensivo assume sempre questo duplice carattere.

In ognisituazione, a livello mondiale, "la produzione capitalistica non può fare un passo avanti senza diminuire la parte del prodotto sociale che spetta al lavoratore".

Nel corso dello stadio imperialista il capitale si è esteso all'intero pianeta e tale movimento si è considerevolmente accelerato con l'ondata di industrializzazione del Tricontinente negli anni 50-70.
Con il nuovo modello neocoloniale il dominio reale del capitale si è globalizzato.

Ma il capitale può accaparrasi la produzione mondiale solo proletarizzando "e non può continuare a vivere, ad essere fruttifero, ad accumularsi, a moltiplicarsi e a trasformarsi" se non a condizione di salarizzare coloro che ha proletarizzato a livello internazionale.

E così non può impedire lo sviluppo della sua contraddizione principale, il proletariato, e con esso i limiti indotti dalla formazione di questo avversario irriducibile.

Il capitalismo inforna nel suo inferno centinaia di milioni di nuovi lavoratori, e lo fa in maniera sempre più ineguale e caotica, aggravando la polarizzazione sociale e la contraddizione tra lavoro e non-lavoro.

Esso riduce le masse a non poter vivere senza essere sfruttate, ma contemporaneamente la produttività delle strutture fa sì che il lavoro tenda a divenire superfluo.

Così "l'esercito industriale di riserva è tanto più grande, quanto più sono consistenti la ricchezza sociale, il capitale in funzione, l'estensione e l'energia della sua crescita...".

Il supersfruttamento, la sovrappopolazione e la pauperizzazione della classe proletaria si accentuano con la sua espansione e la sua internazionalizzazione.

Questo è il marchio indelebile della nuova epoca sempre più dominata dalla lotta irriducibile tra capitale e lavoro.

La storia del capitalismo è la storia della contraddizione tra borghesia e proletariato.

Oggi in vista delle nuove condizioni di questa contraddizione, si può affermare che è stato superato un limite decisivo, e di conseguenza, per i comunisti, il primo comoito è quello di analizzare e risolvere le questioni poste dalla nuova composizione-lotta di classe (le classi esistono in quanto si contrappongono) che deriva dai grandi mutamenti degli anni 80-90.

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5. LA MONDIALITÀ

Oggi per iniziare correttamente l'analisi della composizione-lotta di classe, è assolutamente necessario superare l'ambito strettamente nazionale e partire dal salto qualitativo dell'espansione mondiale del capitalismo, così come si è affermata dall'inizio degli anni '80.

Se durante l'epoca precedente, lo studio doveva basarsi sul quadro locale, era perché il regime di accumulazione fordista gravitava attorno allo spazio nazionale e alla sua espansione nello spazio internazionale.
Era questo il quadro del suo funzionamento e quindi quello dei rapporti salariali.

Ma non è più la stessa cosa alla presenza del modello toyotista-neoliberale.

Il nuovo modello di accumulazione ha globalizzato i principali processi della produzione di merci, e ha preso corpo una nuova divisione mondiale del lavoro.
Di conseguenza qualsiasi composizioni-lotta di classe può concepirsi solo nella sua mondialità.

Certo, in ogni periodo del capitalismo, le due principali classi antagoniste sono state classi internazionali, ma oggi il cambiamento risiede nel fatto che lo scontro si colloca immediatamente e in tempo reale sullo spazio mondiale nel processo di lavoro. Un processo sempre più ineguale e sempre più contraddittorio tra lavoro e non lavoro, tra sfruttamento intensivo e sovrappopolazione, ma sempre più globalizzato.

Dicendo questo noi non neghiamo che ogni situazione locale o Stato-nazione, o ancora Stato comunitario, rimangano centri particolari di importanza cruciale come spazio e rapporti dello scontro di classe.

Giustamente uno dei caratteri fondamentali della mondializzazione è proprio la contraddizione tra la sua autonomia e gli imperativi permanenti delle forme statali di accumulazione.

Da un lato la mondializzazione è una estensione-contraddizione del rapporto sociale dominate (gli scambi di merci, di tecnologe, culturali e ideologici, la circolazione dei capitali, il credito, la migrazione delle popolazioni, il modello di consumo...) ed è quindi uno slancio che struttura e unifica supernado continuamente le forme e i contenuti passati dell'organizzazione sociale.

Dall'altro lato, la mondializzazione non può mai separarsi totalmente dalle forme statali perché i capitali monopolistici esigono sempre più l'intervento economico, politico e militare dello stato a livello locale, nazionale, continentale e inter-statuale.

Di fatto, questa contraddizione è il riflesso della contraddizione intrinseca al capitale stesso, tra le esigenze della concorrenza e quelle della socializzazione. Il processo di mondializzazione sarà dunque sempre più destabilizzato dalla contraddizione in divenire tra la sua autonomia e le forme di regolazione statale.

L'epoca che si è aperta con la svolta degli anni '80 segna inesorabilmente il passaggio alla dominanza dello spazio mondiale.
Riconoscere pienamente l'importanza della dimensione mondiale serve per valutare le soluzioni contenute nella mondializzazione dello scontro di classe.

E' chiaro che i disastri e le barbarie acuiti da questo processo non potranno mai essere trasformati radicalmente né essere corretti con un ritorno ai particolarismi religiosi o allo sciovinismo.

Poiché per l'immensa maggioranza dei proletari, queste strade constituiscono di fatto strade verso la subordinazione alla mondializzazione che aggrava la polarizzazione e la gerarchizzazione.

Per un comunista, la questione non è se accettare o rifiutare la mondializzazione, ma di sapere come affrontarla per ribaltarla in liberazione dell'umanità intera, come lavorare per l'unità della classe proletaria e per la sua autonomia politica, e inserirsi nella guerra di classe di lunga durata, e farla finita con l'alienazione economica e le relazioni imperialiste Triade imperialista/Tricontinente.

E nel nostro caso specifico, a partire da qui dove lottiamo, vale a dire nel centro imperialista europeo.

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5A. LA MONDIALIZZAZIONE È GLOBALE E LA SUA SOLUZIONE DEVE ESSERE GLOBALE

Allo stesso modo riconoscere la dimensione mondiale della nuova composizione-lotta di classe consente di superare gli interrogativi localisti senza fine seguiti alle grandi trasformazioni degli anni '80, in particolare la deindustrisalizzazione, la delocalizzazione, la fine del pieno impiego, del posto fisso per gli operai...

"Su quale classe, su quale soggetto deve basarsi la lotta rivoluzionaria?" si chiedono alcuni compagni in un testo recente.

Se si rimane al localismo europeo, saranno possibili tutti gli errori.
Sia quello di nagare i mutamenti e persistere nel far sopravvivere artificiosamente i miti operai degli anni '30.

Sia quello di inventarsi nuovi soggetti di classe sul piano degli interessi elettorali o di semplici mode: i "tecnici" per il Partiti "Comunista" o "l'intellettuale massa" per il movimento "autonomi" a Weston?

Sia infine riproporre il "realismo" interclassista del populismo, visto che per certi "compagni", il proletariato deve rinunciare "per il momento" ancora alla sua autonomia politica e inserirsi nelle lotte delle masse popolari nazionali.

Peggio, lo si snatura battezzando con il termine proletariato tutti i salariati, cosa che rimanda comunque all'interclassismo, poiché le masse popolari, piccola borghesia compresa, costituiscono in tal modo "il nuovo proletariato" dei centri industriali.

Nella metropoli imperialista, queste sono tutte versioni dell'ostinazione a cercare ad ogni costo - fino al ridicolo - di risistemare il progetto rivoluzionario in base a realtà di classe essenzialmente nazionali, che rimandano ad un progetto di liquidazione rivoluzionaria e ad un opportunismo quotidiano nelle lotte.

Mentre la dimensione mondiale della composizione-lotta di classe, ci permette di individuare e di cogliere pienamente i nuovi contorni, le condizioni e gli interessi generali della nostra classe: il proletariato internazionale.

Non c'è altra soluzione, questa comprensione è alla base di ogni nuova prospettiva di ripresa rivoluzionaria sul nostro continente, e dunque alla base di una tattica adeguata alla congiuntura e alla necessità dell'unità cella classe e dell'a sua più ampia autonomia.

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6. IL PROLETARIATO INTERNAZIONALE

Ora bisogna cercare di determinare più precisamente quali sono i principali caratteri della nostra classe oggi.

a) La classe proletaria costituisce ormai la maggioranza dell'umanità

Si tratta di un cambiamento profondo di considerevole importanza storica. In meno di trenta anni il peso mondiale del proletariato si è moltiplicato. Tutte le altre classi popolari tendono a perdere importanza.

La classe contadina che dominava ancora nella fase precedente si dissolve rapidamente e strati consistenti delle borghesie locali si proletarizzano sotto gli effetti della crisi.

Di fronte alla borghesia monopolista, il proletariato è la sola classe che si sviluppa a livello mondiale.
Sicuramente, se si studia questo problema solo su scala locale, nei paesi della Triade imperialista, si viene fuorviati dalle controtendenze metropolitane e soprattutto dalla caduta dell'occupazione industriale.

Mentre a livello mondiale stiamo vivendo l'epoca della rivoluzione della maggioranza contro la minoranza.
La maggioranza dell'umanità: i proletari contro gli sfruttatori e contro coloro che traggono vantaggi da questo sfruttamento.

Con la rivoluzione della maggioranza, la rivoluzione democratica e quella proletaria diventano una cosa sola.

Ormai, non possono più esserci rivoluzioni democratiche se non si rimette in discussione l'alienazione economica e la polarizzazione Triade/Tricontinente, senza distruzione della dittatura degli apparati e dei rapporti borghesi, perciò il proletariato internazionale è la sola classe a poterla condurre fino in fondo.
Ovunque la lotta è prima di tutto una lotta per la rivoluzione democratica proletaria.
E ovunque la classe deve lavorare per la vittoria della sua autonomia.
E' la condizione principale per la realizzazione dei suoi propri interessi, degli interessi della maggioranza.

I proletari non hanno più alcun vantaggio da trarre dalle rivoluzione democratico borghesi e dalle alleanze con le borghesie locali. Al contrario, queste lotte parziali e settoriali, li allontanano sempre più dalle necessità del momento.
Le lotte interclassiste e populiste rafforzano la loro alienazione e la loro divisione, a scapito della loro coscienza e della loro unità internazionale.

E' il momento della costruzione del partito autonomo della classe, un partito che può essere solo internazionale.
La risoluzione di questo nodo si fa sempre più pressante ed essa è possibile con tutta la radicalità intravista da Marx ed Engels.

"L'emancipazione della classe operaia non può essere che l'opera della classe operaia stessa, perché tutte le altre classi e tutti gli altri partiti si mantengono sul terreno del capitalismo e, malgrado i loro contrasti di interessi, essi hanno tuttavia uno scopo comune, la conservazione e il consolidamento delle basi della societa' attuale"

(Programma di Erfurt)

b) la classe proletaria è una realtà fortemente tricontinentale

La classe proletaria si sviluppa circa quattro volte più velocemente nel Tricontinente che nella Triade.

Già alla fine degli anni '70, su 1600 milioni di lavoratori attivi censiti, solo un quarto era localizzato nei vecchi paesi industriali
Ed è un processo lungi dall'interrompersi.

"Circa il 99% del miliardo di persone che si prevede raggiungeranno la massa mondiale dei lavoratori nel corso dei prossimi trent'anni, vivono oggi nei paesi a basso e medio reddito".

(Banca Mondiale).

Il cuore stesso della classe operaia - la classe produttrice di valore - si è spostato verso la periferia del sistema e anche questo è un capovolgimento di importanza storica.

Poiché prima l'assioma rivoluzionario nei centri metropolitani si basava sulla concentrazione operaia nei centri finanziari che si era stabilita nelle precedenti fasi dell'imperialismo.

Bene o male, i progetti (rivoluzionari) potevano ancora articolarsi in un programma politico locale marginalizzando le questioni internazionali.

Questo, oggi, è semplicemente impossibile.

Nessuna azione e nessuna rivendicazione può essere considerata un reale momento rivoluzionario se non implica soluzioni di emancipazione internazionale, se non rimette in discussione alle fondamenta la polarizzazione Triade/ Tricontinente, se non consente di liberarsi dalla stretta dell'oppressione imperialista

Ma nel centro, questa determinazione internazionalista è difficile da praticare tanto più che lo sviluppo della classe media locale, dell'aristocrazia operaia, (cioè le frazioni di classi che traggono vantaggio dallo sviluppo del sistema di sfruttamento mondiale), e naturalmente il rafforzamento del loro peso politico ideologico nelle istituzioni e sulla classe, tengono a fraeno nella gogna della concilizazione e collaborazione le potenzialità dell'autonomia di classe.

Diretti da queste forze, partiti e sindacati, stanno alla base del controllo controrivoluzionario permanente, attraverso la gestione del conflitto di classe, il militarismo interventista, la denuncia delle azioni di resistenza...

Quindi, nel centro, due strade inconciliabili si contrappongono...

La prima è quella della falsa unità, l'unità di tutte le espressioni "popolari" locali in un progetto di conquista e di gestione dell'istituzione nazionale, in un progetto di rivoluzione democratica borghese eternamente da ricominciare.

Per i proletari questa strada è un vicolo cieco, essa è già caduta, cade e cadrà sempre nel pantano della riforma.

Essa non rinforza la classe, ma al contrario ne aggrava la divisione in termini non rivoluzionari ma imperialisti. E paralizza la presa di coscienza della sua reale situazionbe storica.

Come ricordava Lenin:

"L'unità con gli opportunisti non essendo nient'altro che la scissione del proletariato rivoluzionario di tutti i paesi, segna nei fatti oggi, la subordinazione della classe operaia alla sua borghesia nazionale, l'alleanza con questa in vista dell'oppressione di altre nazioni e della lotta per i privilegi imperialisti".

Su questa strada, la classe è divisa, aderisce ad opposti partiti capitalistici ed è reclutata nella guerra internazionale di produttività, nella guerra per una nuova spartizione del globo tra i tre grandi poli triadici, USA Giappone e UE

La seconda è la strada della vera unità di classe, l'unità internazionalista.

In presenza della mondializzazione, il proletariato deve conquistare il necessario punto di vista internazionalista non attraverso la semplice solidarietà di classe, ma attraverso i suoi interessi generali.

Alla "coalizione del capitalismo mondiale", ai suoi strappi sempre più caotici, ai suoi conflitti, alle sue divisioni deve corrispondere l'unità del fronte proletario.
Non esiste altra soluzione rivoluzionaria.

Rompendo la sottomissione organizzata nello spazio locale, le lotte sul nostro continente devono operare per l'unità internazionalista, devono concretizzare la prospettiva.

Devono creare organismi di lotta, reti, ponti concreti tra i nella metropoli e le avanguardie proletarie nel Tricontinente, e quindi stabilire una dinamica con le grandi masse, rappresentarne qui gli interessi e sostenere con tutte le forze il trionfo di questa unità.

E' a questo prezzo che le lotte rappresenteranno un'azione critica reale e uno spazio autonomo di sperimentazione e auto-educazione, e forgeranno così le reali avanguardie di lotta nel centro (la Triade).

Su questa strada, autonomia di classe e internazionalismo sono un unico momento rivoluzionario.

c) La classe proletaria è una realtà principalmente urbana

Da oggi la metà dell'umanità è una realtà urbana e da qui all'anno 2025, i due terzi della popolazione mondiale vivranno nelle "megalopoli".
La popolazione urbana passerà da 2,6 miliardi a 3,3 miliardi di persone, di cui il 93% nei paesi del tricontinente.

Il cuore di questo vasto movimento di urbanizzazione selvaggia sta nei ghetti di tutte le miserie e delinquenze che si formano.
Il proletariato internazionale diviene così essenzialmente "megalopolitano". Un proletariato delle "barriadas".

L'80% della popolazione asiatica soffre la fame, il 60% in Africa, il 40% in America Latina.
Più di 10 milioni di persone muoiono ogni anno per le condizioni di insalubrità di questi nuovi quartieri.
Due miliardi non hanno medicine, né acqua potabile.

Prima del duemila, la popolazione di 45 paesi del Tricontinente avrà una durata media della vita al di sotto dei 60 anni, in alcuni paesi dei 42 anni, mentre raggiungerà i 79 anni nei paesi della Triade.

Un immenso proletariato emerge dalle periferie urbane, una nuova classe "pericolosa" che non si batte più semplicemente per la divisione della terra e per il miglioramento della spartizione dei frutti del lavoro salariato, ma direttamente contro l'oppressione dei proprietari dei mezzi di lavoro, contro i monopoli degli sfruttatori...

Essa deve far fronte all'incertezza della propria esistenza "sottomessa sia ad altri uomini sia alla propria miseria" sempre più sfruttata ed oppressa, sempre più terrorizzata dalle nuove dittature poliziesche, dagli "squadroni della morte" e dai sicari di tutte le mafie paragovernative.

Così compare un'immenso esercito proletario impoverito e in rivolta, che non ha più niente da perdere se non le proprie catene.

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7. IL SOGGETTO DI CLASSE ATTUALE

In ogni epoca e fase del capitalismo e quindi dello scontro tra borghesia e proletariato, le forme della produzione mettono in primo piano una figura proletaria antagonista.

Nel corso della storia, diversi soggetti si sono susseguiti, dall'operaio di mestiere del XIX° secolo, all'operaio industriale, poi all'operaio professionale, "i similaires" o i "siderurgici" ed infine nel dopoguerra l'operaio massa, l'operaio dell'impresa tayloristica.

Dopo i grandi cambiamenti degli anni '80 è dunque di primaria importanza chiedersi: qual'è il nuovo soggetto di classe che corrisponde a questi cambiamenti?

Nel taylorismo-fordismo, la rigidità del processo di lavoro, del processo tecnico, faceva sì che il capitale variabile, i lavoratori, fosse una categoria fissa tanto quanto il capitale costante adoperato.

La rigidità organizzativa si estendeva dunque a tutta la struttura e alla sovrastruttura stessa (consumo di massa, welfare, rappresentanze istituzionali).
Questa rigidità divenne il carattere fondamentale del modello di accumulazione, ma finì per ritorcersi contro di esso durante la crisi.

Dopo gli anni '80, il cambiamento fondamentale indotto dalla generalizzazione del modello toyotista-neoliberale, verte sull'introduzione della flessibilità.
Flessibilità indispensabile al superamento della rigidità e quindi alla redditività del capitale e alla restaurazione dei profitti.

E flessibilizzazione è prima di tutto immissione sul mercato di una nuova "generazione" di macchine basate sulla microinformatica e quindi riorganizzazione della catena produttiva e del suo "flusso continuo", per aumentare i guadagni di produttività, l'intensità del lavoro e il tasso di rendimento degli impianti.
Un miglior tasso di impiego delle macchine e degli uomini.

La logica di tutti i modelli di accumulazione è quella di concepire lo sfruttamento dell'uomo negli stessi canoni di quello della macchina.

E così come ieri alla rigidità delle macchine monofunzionali delle grandi catene tayloriste corrispondeva ieri la rigidità del lavoro fisso ultraspecializzato e dequalificato, oggi, alla polivalenza dell'automazione corrisponde una forza-lavoro polivalente, una flessibilità della forza lavoro e della sua retribuzione salariale.

E naturalmente, il cambiamento qualitativo dalla rigidità alla flessibilità attraversa tutti i cambiamenti negli accordi di compromesso per un nuovo regime di regolazione.

a) dalla flessibilità alla precarietà

Il fordismo è stato essenzialmente smantellato, ma a causa della persistente crisi di sovrapproduzione assoluta di capitale e dei limiti sempre più tirannici del capitale stesso, il modello di accumulazione toyotista neoliberale non riesce a giocare pienamente il suo ruolo.

L'accumulazione è troppo debole, caotica e diseguale. E così nel gestire questa impossibilità ad organizzare l'accumulazione, il modello modifica e deforma il suo carattere principale da flessibilità in precarietà. Generalizza la precarietà della sua crisi.

In tutti i rapporti sociali, dietro la flessibilizzazione compare la precarizzazione, punta estrema del dominio del capitale, ma anche della crisi generale.

Di conseguenza, il soggetto storico del proletariato internazionale che è emerso e che si riproduce nel cuore di questa qualità che domina la produzione sociale è, appunto, il proletario precario.

Un terzo della popolazione attiva mondiale è disoccupata o sottoccupata.
Frazioni sempre più grandi di lavoratori sono progressivamente allontanate dal salario stabile e a contratto.
Negli USA, il 90% degli occupati nelle 500 maggiori imprese è a tempo determinato e precario.

Nel Tricontinente, ci sarebbero tra il miliardo e il miliardo e mezzo di lavoratori precari, senza tener conto dei lavoratori informali.
In India, ad esempio, 9 lavoratori su 10 sarebbero occupati nel settore informale.
Su 37 milioni di lavoratori messicani, 21,5 non hanno un posto fisso...

Ma la precarietà non può assolutamente essere circoscritta allo studio di un particolare segmento del processo di lavoro, per quanto importante esso sia, o a un tipo di lavoro parziale, o alla pauperizzazione, all'economia informale o alla disoccupazione, perchè la precarietà è oggi la qualità primaria che attraversa tutte le linee dell'antagonismo tra capitale e lavoro.

La precarietà attuale corrisponde alla rigidità fordista.

Il proletario precario non è solo colui che ha il compito "dirty difficult and dangerous" (sporco, difficile e pericoloso) o colui che in quanto giovane non dispone che di un contratto fasullo di formazione, oppure, se disoccupato a lungo termine, di un contratto parziale e limitato di "solidarietà", o ancora colui che è deportato verso aree di lavoro (50 milioni, principalmente donne, nell'immigrazione interasiatica).

Precarietà sono anche le forme globali del lavoro, il dominio intensivo del capitale morto sul capitale vivo, le forme di comando del capitale come classe sulla forza lavoro, le forme della divisione tra lavoro pagato e non pagato.

E' la razionalizzazione di ogni posto di lavoro (non per questo il posto fisso e ultraproduttivo è garantito, vedi Vilvoorde), è la polivalenza funzionale (un lavoratore deve svolgere più volte varie decine di mansioni differenti)...

Precarietà è la ricerca permanente di produttività, l'aumento delle cadenze e dei ritmi di lavoro, della sua intensità; è la collaborazione dell'auto-controllo ("zero guasti, zero sbagli, zero giacenze di magazzino"), è individualizzazione e forme di coercizione consensuale; è tendenza accentuata alla svalorizzazione-dequalificazione del lavoro, è la perdita di specializzazione dei lavoratori nella maggiore parcellizzazione del lavoro tecnico...

La precarietà è lo sfruttamento crescente delle donne, la tendenza a farne un "sotto"-proletariato, una riserva di schiave-casalinghe e/o sessuali, la frazione di classe più vulnerabile di fronte alla pauperizzazione e alla svalorizzazione sociale.

E' lo sfruttamento dei "deportati", degli stranieri, degli immigrati, delle popolazioni di colore nell'aparthaid generalizzato e nel risveglio di politiche razziste e scioviniste.

Precarietà sono 1400 milioni di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà, 600 milioni in Asia, più di un centinaio di milioni di "poveri assoluti" negli USA e nella UE.

E' la spaventosa esplosione delle diseguaglianze sociali nella Triade imperialista e nel Tricontinente, dato che il divario abissale tra la frazione più ricca e i più poveri si è considerevolmente aggravata negli ultimi 30 anni.

La differenza di reddito tra il 20% più ricco e il 20% più povero è passata da 30 a 1 a 60 a 1!
Secondo l'ONU, il numero di patrimoni personali superiore a 100 milioni di dollari è aumentato nel corso di questi ultimi 7 anni da 145 a 358, e questi rappresentano l'equivalente dei redditi annuali del 45% della popolazione mondiale, cioè 2,3 miliardi di persone..

Marx ha descritto questa

"legge che stabilisce una correlazione fatale tra l'accumulazione del capitale e l'accumulazione della miseria, in tal modo che l'accumulazione della ricchezza in un polo è uguale accumulazione di povertà, di sofferenza, di ignoranza, di abbrutimento, di degrado morale, di schiavitù, al polo opposto, dalla parte della classe che produce il capitale stesso".

(Il Capitale, III libro)

b) la polarizzazione triade imperialista/tricontinente

Simultaneamente il divario tra i paesi della Triade e quelli del Tricontinente si è anch'esso accresciuto in proporzioni enormi.

E' chiaro che si sarà sempre nell'incapacità di comprendere la precarietà come qualità globale del modello attuale e del soggetto proletario antagonista, se non si coglie concretamente la tendenza di questa polarizzazione ed il suo divenire.

Questa tendenza fondamentale è apparsa con lo stadio imperialista, e ne è il marchio indelebile.

In un secolo circa, lo scarto tra il reddito delle popolazioni del centro e della periferia si è moltiplicato per 8.

Il rapporto del reddito pro-capite dei paesi più ricchi e quelli più poveri è passato da 11 nel 1870 a 38 nel 1950, e infine a 52 nel 1985.

Con il nuovo modello,

"in totale, il 48% dei paesi poveri hanno avuto uno sviluppo meno rapido rispetto alla più lenta delle economie dell'OCSE, e il 70% ha conosciuto una crescita inferiore rispetto alla media OCSE. Essendo la crescita dei paesi poveri in media meno rapida, la dispersione internazionale dei redditi (misurata attraverso lo scarto tipo del logaritmo naturale del reddito pro-capite) fra il 1960 e il 1990 è aumentata del 28% (passando dallo 0,86% all' 1,1) e il rapporto tra il reddito dei più ricchi e quello dei più poveri è aumentato del 45% dal 1960"

(FMI "Finanze e Sviluppo").

I redditi annuali sono aumentati del 2,6% all'anno nell'OCSE contro l'1,8% del resto del mondo.

Così, malgrado la forte industrializzazione del Tricontinente, 88 paesi su 93, quindi il 94% della popolazione mondiale, durante il periodo 1975/83 e oltre, rimangono nella stessa zona limite nella quale si trovavano tra il 1938 e il 1950.

Sicuramente la situazione è estremamente diseguale a seconda dei paesi del Tricontinente, cosa che dimostra per altro come la loro integrazione nella nuova divisione internazionale del lavoro avviene all'interno di una forte gerarchizzazione.

A partire dal "Rapporto sullo sviluppo nel mondo 1995", (che abbraccia il periodo 1980-93) possiamo constatare che più della metà di questi 93 pesi hanno avuto una crescita negativa.
E nessuno di essi, neanche quelli con una forte crescita, potrà raqggiungere a breve termine redditi uguali a quelli della fine degli anni '70.

Inoltre, anche se numerosi paesi del Tricontinente hanno avuto, malgrado tutto, una crescita positiva, per l'80% dei casi essa è rimasta più debole rispetto a quella dei paesi della Triade imperialista.

A partire da queste due constatazioni, e secondo le stesse stime del FMI, ci vorrebbero "33 anni al Brasile per ritornare ai suoi redditi record (al ritmo di crescita annuale dello 0,3% tenuto dal 1980 al 1993) e 487 anni per raggiungere i paesi a reddito elevato".

Peraltro, "un gruppo ristretto di paesi in via di sviluppo hanno effettivamente avuto una 'convergenza' grazie ad una crescita maggiore che negli USA.
Quando li raggiungeranno?

L'India, per esempio, ha avuto una crescita annuale media del 3% tra il 1980 e il 1993. Se sosterrà questo ritmo per 100 anni ancora, raggiungerà il livello attuale dei paesi ad alto reddito. E se potrà mantenere questo differenziale di crescita per 377 anni..." l'India supererà il limite della "convergenza"!

Sebbene numerose attività industriali o di servizi siano state delocalizzate verso il Tricontinente, bisogna anche dire che solo 10 paesi sono riusciti a cavarsela ottenendo l'1% della crescita in più rispetto alla media dei paesi della Triade.

Per questi paesi, le speranze di "convergenza" sarebbe qualsi palpabili (50 anni circa per le Filippine), ma solo se la loro eccezionale crescita si mantenesse allo stesso livello senza cedimenti, senza crisi, senza delocalizzazione di attività verso altre zone più redditizie...

Dopo un secolo nessuna politica di "sviluppo", nessun piano di aggiustamento, nessuna politica "terzo-mondista", nessuno sforzo dei paesi del Tricontinente ha potuto rompere questa polarizzazione.

La polarizzazione è prodotta dal funzionamento stesso della legge del valore che opera su scala mondiale.
La si può cogliere per via dei caratteri sempre più deformati dell'accumulazione capitalista, ed essa può sparire solo con la sparizione di quest'ultima.

La polarizzazione tra la Triade imperialista e il Tricontinente è oggi una delle realtà e una delle contraddizioni principali del modo di produzione capitalista.
Per questo, e in modo evidente, essa opera con tutto il suo peso nel cuore stesso della nuova composizione-lotta classe.

E non si può cogliere pienamente l'emergere del nuovo soggetto di classe, il proletario precario, solo se si colloca la contraddizione della polarizzazione Triade imperialista/Tricontinente al centro della definizione della posta in gioco e delle sfide della congiuntura dominata dalla mondializzazione.

La figura del proletario precario è emersa nelle lotte, nelle rivolte, nelle resistenze anche qui sul cuore delle metropoli.
Si è manifestata in un antagonismo che è il riflesso della precarietà della propria esistenza sociale.

"E' una parola che grida una rabbia profonda, ma è anche impregnata di un profondo sentimento di paura. Paura di esser stati cacciati dalla storia, da un "progresso" che, oggi più che mai, si misura con l'accumulazione di ricchezza, solo per degli strati sempe più ridotti di individui.

Paura di essere ormai ridotti ad una maggioranza pletorica e soffocante, definitivamente condannata all'impotenza perché privata delle minime briciole di potere contrattuale rispetto ai meccanismi di accumulazione di ricchezza".

Tuttavia, questa classe sempre crea la ricchezza, il suo sfruttamento è invariabilmente la base di questa società mondializzata, ma essa non ha alcun diritto di cittadinanza.
Essa non è altro che la massa informe che vive nelle periferie, periferie delle metropoli, periferie delle megapoli, periferie della periferie...

La coscienza alienata che il proletariato oggi ha dei limiti della sua condizione, della sua azione, dei suoi ambiti e dei suoi metodi, diviene essa stessa parte inscindibile del suo stato di precarietà, dello stato di precarietà di tutta la classe.

Polarizzazione Triade/Tricontinente, polarizzazione sociale tra borghesia e proletariato, sfruttamento intensivo, precarietà, sovrappopolazione, periferizzazione, pauperizzazione, esclusione politica, sono le basi sulle quali si forgia oggi la figura sociale del proletario antagonista.

Un soggetto descritto da Marx quando affronta le logiche profonde della polarizzazione tra le due classi principali.

"Lungi dall'elevarsi, con il progresso dell'industria l'operaio moderno scende sempre più in basso, al di sotto anche delle condizioni della propria classe. L'operaio diventa un "pauper" e il pauperismo si sviluppa più velocemente della popolazione e della ricchezza"

(Manifesto)

Evidentemente, come per i suoi predecessori, la comparsa sulla scena mondiale di questo soggetto sociale determina tutta una serie di questioni tattiche che i rivoluzionari dovranno porsi e risolvere.

Il comunismo è il divenire delle contraddizioni reali.
E oggi questo proletariato antagonista è il pilastro della contraddizione principale.
Se si elude dalla sua prospettiva di lotta e dalla sua azione pratica, si esce ineluttabimente dal movimento reale.

Oggi, a partire da ogni situazione e in particolare nelle metropoli, il compito dei rivoluzionari è dunque quello di rendere leggibile il reale contro tutte le illusioni mantenute dall'insieme delle varianti della via socialdemocratica (dai partiti di governo, alle confederazioni sindacali, ai gruppetti metropolitani).

Non c'è altra alternativa: solo mettendo in pratica le conclusioni relative alla presenza del soggetto proletario precario con tuto ciò che questo implica, noi potremo agire in nome di un comunismo possibile, di una ricomposizione di classe attorno all'unità di identità e di interessi comuni di trasformazione sociale.

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8. DALLA SCONFITTA ALLE PROSSIME INIZIATIVE

Nel corso degli anni 80, il movimento rivoluzionario ha conosciuto numerose sconfitte.

Di fronte a questa evidenza, e di fronte ai capovolgimenti in atto, alle rimesse in discussione, al crollo del "socialismo reale", di fronte all'impotenza o all'apparente impotenza di poter cambiare le cose, di fronte alle dimensioni attuali della lotta di classe, si è ampiamente diffusa, nel guazzabuglio di critiche e disfattismi di ogni genere, una critica irrazionale all'esperienza rivoluzionaria dagli anni '60 in poi.

Ciò è avvenuto in particolare a proposito dell'esperienza della guerriglia, poiché di fronte alla controffensiva politico-ideologica della borghesia, invece di criticare i nostri reali errori (e ne abbiamo commessi molti), e di rettificare ciò che doveva essere rettificato, di valorizzare questi anni di lotta e progredire verso le prospettive aperte da due decenni di prassi, tutto è stato buttato via in un clima di panico e contrizione.

Tuttavia, molto rapidamente, queste critiche assolutiste hanno dimostrato di non avere niente a che fare con la costruzione di ponti verso nuove prospettive; tutte, senza eccezione alcuna, rimandano ad un capitalismo sognato oppure a posizioni illusorie in cui si mischiano indistintamente principi, teorie, analisi... con uno spirito di parrocchia.

Queste critiche invece di partire dalle lotte per intraprendere nuove lotte, partecipano alla battaglia per la liquidazione della sinistra anticapitalista e antimperialista in Europa, per la liquidazione di una sinistra capace di far vivere il legame tra la liberazione dei proletari del Tricontinente e quelli della Triade imperialista.

Se è vero che in Europa le guerriglie della sinistra rivoluzionaria hanno subito importanti rovesci che le hanno rimesse in discussione fino alla loro stessa esistenza, ciò non dimostra tuttavia la loro incapacità ad essere uno degli assi fondamentali della lotta di emancipazione proletaria e dell'unità internazionale della classe per l'avvenire. Tutt'altro.

Il massacro dei comunardi non significò la fine della rivoluzione proletaria. Anche quest'esperienza proletaria non può essere superata se non da una nuova esperienza rivoluzionaria capace di farsi carico, meglio di essa, degli interessi generali di tutta la classe.

Nel corso degli anni '80 e '90 la sinistra istituzionale ha forse dimostrato l'utilità del suo riformismo?
E altre espressioni del movimento hanno forse dimostrato il loro valore superiore nel risolvere la questione rivoluzionaria?

I partiti di sinistra sono sempre più invischiati nella loro natura di bravi gestori e trascinano su questa strada i sempiterni gruppetti che gli si incollano dietro.

I sindacati confederali hanno definitivamente abbandonato il sindacalismo di classe e rincorrono la conservazione del loro ruolo istituzionale acquisito nell'epoca fordista moltiplicando gli accordi trilaterali con il governo e il padronato.

Di fronte all'aumento delle lotte operaie (nel '95 c'è stato un numero di conflitti 5 volte maggiore che nel '94 e due volte maggiore che nell'84) e della resistenza proletaria, questi partiti e sindacati non hanno più niente da proporre se non programmi elettorali e neo-corporativi tutti legati alla vecchia concezione dell'accumulazione, allo Stato nazionale imperialista e ai suoi limiti e divisioni.

Dappertutto il concetto di "proletario senza patria" è rimpiazzato dal concetto di cittadino.
Cittadino di uno stato imperialista. Cittadino dunque che, come tutti gli altri "partecipanti" a questo Stato, trae dei vantaggi dalla relazione imperialista Triade/Tricontinente, e dall'aggravarsi dello sfruttamento che essa rappresenta.

L'insieme del progetto opportunista poggia essenzialmente sulla divisione nazionale e imperialista del proletariato.

Una delle sue funzioni principali nel controllo sociale è quella di mantenere questa divisione e di promuovere false unità popolari, di mantenere e promuovere la collusione interclassista populista contro l'unità del proletariato internazionale.

La maggior parte delle espressioni auto-organizzate e antimperialiste che, insieme alle guerriglie, sono state la punta di lancia delle lotte nel continente europeo, non sono riuscite purtroppo a radicarsi e a svilupparsi in questa fase cruciale.

Al contrario, esse hanno spesso ripiegato su lotte e resistenze particolari o settoriali: lotte per la casa, lotte per la regolarizzazione degli immigrati... sono delle lotte giuste che bisogna condurre.

Ma il movimento autonomo ha sempre più la tendenza a dare preponderanza a questi particolarismi e tende di nuovo alla vecchia religiosità del concreto, alimentando continuamente rotture e divisioni delle condizioni sociali, trasforma questo concreto in illusione.

Così può apportare solo una coscienza frammentata, senza prospettiva di reale trasformazione sociale, radicale e durataura.

Il localismo e il settorialismo non sono nient'altro che nuove forme di gestione.
Pratiche "di base" che corrispondono alla gestione dell'economia e alla gestione dei riformisti.
E in un modo diverso esse ricadono nel pantano del riformismo che pretendono criticare.
La meta è niente, il movimento è tutto!!

Rosa Luxemburg ha già denunciato tutto il significato opportunista di questo modo di procedere,

"il cammino non è attraverso la maggioranza verso la tattica rivoluzionaria, ma verso la maggioranza attraverso la tattica rivoluzionaria".

La rivoluzione non è e non è mai stata un condensato di azioni riformiste a breve scadenza, ma un salto qualitativo decisivo.

Tutto il processo rivoluzionario fin dalle sue origini porta in sé questa qualità.

E' la coscienza della necessità e possibilità di abbattere fino agli ultimi ostacoli che bloccano lo sviluppo delle forze produttive, la volontà di darsi tutti gli strumenti reali per liberarle e sottometterle ai bisogni degli individui.

Vale a dire un autentico processo di critica e di rottura, un processo di azione e di preparazione dell'azione rivoluzionaria in cui "il movimento in sé, senza relazione con lo scopo non è niente, lo scopo è tutto".

Noi tutti che abbiamo partecipato ai grandi movimenti rivoluzionari sul nostro continente, noi che siamo stati sulle barricate del '68, nella resistenza contro la dittatura in Spagna, in Grecia, in Portogallo... nelle lotte contro la guerra in Viet-Nam, e contro l'imperialismo USA, per la rivoluzione palestinese, noi che siamo stati nei comitati di base o nei primi fuochi della guerriglia...

Noi che siamo sempre stati per una stretta interazione tra le avanguardie di lotta e gli organismi autonomi della classe, sappiamo, per averlo sperimentato, che nulla si può fare senza questo rapporto.

Noi tutti comunisti rivoluzionari e anti-imperialisti dobbiamo criticare senza debolezza queste due deviazioni opportuniste e gli ex compagni che deviano dalla loro storia per queste illusioni.

Nessun movimento rivoluzionario può né potrà concretizzarsi su queste rinunce.
Si sa bene che la rivoluzione non torna indietro se non come caricatura.
La riattualizzazione del binario istituzionale o paraistituzionale "partito-sindacato" è la dimostrazione del "concreto" illusorio che abbaglia intere parti del movimento, disorientato da falsi dibattiti.

Un disorientamento che andrà aggravandosi proprio a causa di questi abbandoni e del dogmatismo, che non permettono di affrontare le questioni attuali della congiuntura.

Come agire negli interessi generali del proletariato internazionale, per la sua ricomposizione come classe rivoluzionaria e del suo attuale soggetto antagonista: il proletario precario?

Come creare relazioni vive e costruttive con le espressioni rivoluzionarie di questo proletariato nel Tricontinente?

Come lavorare ad un'organizzazione sociale che sia adeguata allo scontro storico attuale?

Come affrontare la congiuntura generale delle contraddizioni del capitalismo?

Come affrontare la contraddizione tra i 3 poli concorrenziali imperialisti USA, Giappone, UE?

Come lavorare all'unità dei rivoluzionari nel nostro continente e al sabotaggio del militarismo e della guerra economica?

Come superare il quadro della contro-rivoluzione permanente nei regimi borghesi del centro?

Come criticare e rompere l'illusione di questi regimi autoritari?

Come opporsi al processo di fascistizzazione che essi materializzano e perpetuano nella separazione sempre maggiore tra i poteri formali (partiti, parlamenti,...) e i poteri reali (i poteri concentrati nell'economia, nel capitale finanziario)?

E' solo a partire da questi problemi e dalla loro soluzione rivoluzionaria che potrà essere affrontata e criticata la sperimentazione delle organizzazioni rivoluzionarie armate degli anni '70 - '80.

Vale a dire che non si tratta solo di una questione di solidarietà, ma di una cocente attualità per tutti coloro che vogliono davvero riprendere la lotta e svilupparla sul terreno del movimento reale.

E' solo in questo processo di risoluzione rivoluzionaria che la memoria riprende tutto il suo valore come arma per la lotta collettiva.

Giugno 1997

Joelle Aubron, Nathalie Menigon, J.Marc Rouillan
Prigionieri dell'organizzazione Action Directe

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