QUADERNI DI SENZA CENSURA - N.3 - NOVEMBRE 1998

I PRIGIONIERI POLITICI E LA QUESTIONE DELLA VIOLENZA RIVOLUZIONARIA

Dichiarazione dei prigionieri di Action Directe per la giornata internazionale dei prigionieri rivoluzionari, 19 giugno 1998.

Joelle Aubron, Nathalie Menigon, J.Marc Rouillan

"Non c'è rivoluzione senza violenza. Coloro che non accettano la violenza possono strappare la parola rivoluzione dal loro vocabolario".

Malcom X


La lotta per la liberazione dei prigionieri politici non è un atto neutro. Non lo è mai stato.
Si deve trattare prima di tutto di un processo di riappropriazione del concetto di violenza rivoluzionaria.
Ed oggi questo processo si confronta con il tabù e la vera e propria cappa di piombo caduta sul movimento dopo le sconfitte e gli arretramenti della guerriglia e dell'insieme delle forze antagoniste in questo continente.
La borghesia ha represso l'idea stessa di violenza. Da Parigi a Napoli, dai luoghi di lavoro alle strade delle città ghetto, una ricomposizione delle forze rivoluzionarie si avvia. E' innegabile.
Ed in questo risorgere, il movimento deve oggi trovare in sé la volontà di tirarsi fuori dalla semplice ripetizione del messaggio di denuncia anti-terrorista e dalla banalizzazione della parola rivoluzionaria edulcorata.
Perché questi due tradimenti inchiodano i proletari alla stessa impotenza sottomessa.
Anni di pacifismo riformista e di salmodie gruppettare, su quello che dovrebbe essere e soprattutto su quello che non dovrebbe essere la controviolenza degli sfruttati e degli oppressi, hanno reso opaca ogni prospettiva di emancipazione.
Certo alcuni evocano ancora il fucile, ma sempre senza agire concretamente per la preparazione e l'organizzazione della guerra rivoluzionaria. Per loro non è mai l'ora per l'azione rivoluzionaria.
Negli anni '80 le grandi campagne antiterroriste di difesa dello Stato hanno giocato su questi due tradimenti da parte dei falsi rivoluzionari.
Ed ancora oggi alcuni organizzano delle campagne per la liberazione dei prigionieri politici sulle medesime basi di collaborazione
Essi affermano, prima di ogni altra cosa, che la lotta armata degli anni '60-'80 non sarebbe servita a nulla.
Che non sarebbe stata altro che un "istinto di morte" dopo il fallimento delle barricate del '68.
Che aveva come unica origine la storia malamente cicatrizzata degli anni '40.
La cosa essenziale per tutti questi "solidali" è voltare pagina. La conclusione si impone da sé: non succederà più nulla e i loro tradimenti vecchi e nuovi verrebbero giustificati.
Per altri i fallimenti degli anni '80, ridotti alla sola sconfitta della guerriglia, si mistificano dietro le frasi vuote del "protestataire" ufficiale. E si tirano di nuovo fuori dal cappello le frasi decrepite dell'ideologismo: l'assenza del Partito, l'assenza del sindacato di classe, del movimento autonomo organizzato
La liberazione dei P.P. in queste campagne di retroguardia è l'ultimo atto della riscrittura della storia rivoluzionaria sul nostro continente dopo gli anni '60.
Riscrittura che si articola nella critica parziale e settaria orchestrata da queste nuove botteghe.
Noi che, da anni, siamo gli ostaggi dell'ordine nelle prigioni, rifiutiamo di trasformarci oggi in oggetto di queste basse manovre.

Non si lotta per la liberazione dei P.P. né per carità, né per umanità. L'esposizione della situazione dei P.P. deve essere prima di tutto un atto di agit-prop. Esso supera immediatamente i suoi limiti per toccare le problematiche fondamentali del processo rivoluzionario nella nostra epoca.
E' dunque un atto politico, uno schieramento di classe. Un atto di lotta per la riappropriazione della memoria e dei saperi, per maggior potere ed un momento della lotta per la distruzione del potere borghese.
Con la lotta per la liberazione ci si riappropria dalla storia occultata e della sua esperienza di lotta. Ma, in primo luogo, ci si riappropria del concetto stesso di legittimità della "contro-violenza".
Questa legittimità è stata sconfitta, infangata e nascosta per anni. Ma nel suo corso, la lotta di classe la produce e riproduce inesorabilmente.
Proprio semplicemente perché è inerente alla violenza del sistema capitalista.
La prima violenza è quella dello sfruttamento, dei ritmi di lavoro, della disciplina nelle fabbriche-caserme, della miseria e delle galere. E' la violenza dei profitti. Così la legittimità della contro-violenza degli sfruttati è connaturata a questo modo di produzione, deriva ineluttabilmente dalla violenza dei rapporti di produzione del capitale. E ne è la condanna.
Un operaio di Vilwoorde ricordava, agli inizi del movimento contro la chiusura della fabbrica Renault: "I violenti sono quelli che cancellano la fabbrica e buttano i lavoratori in mezzo ad una strada".

La violenza è il sistema nella sua interezza, e anche il più piccolo dei suoi rapporti sociali è violento. Lo sono le logiche della subordinazione imperialista e la pauperizzazione che condannano l'umanità alle periferie delle miserie.
Lo è il processo di fascistizzazione dei poteri e dei monopoli.
Lo è l'apartheid del razzismo istituzionale e la marea delle politiche reazionarie.
Lo è la violenza sessista
La vita quotidiana imprime la violenza nei corpi di tutti gli uomini e di tutte le donne sfruttati, oppressi, beffeggiati, spinti fino alla semplice sopravvivenza. Resistere e ribellarsi di fronte a questa violenza è un "istinto di vita".

Gli sfruttatori monopolizzano la violenza. Essa si concentra e si condensa negli apparati e nei rapporti statuali. Il confronto Stato/classe è, dunque, sempre al centro del conflitto e di tutti i conflitti. Ma in termini differenti rispetto al passato.
Con la globalizzazione la statualità non può essere ridotta alla statualità dello Stato-nazione, né al sistema degli Stati.
Ormai, i rapporti e gli apparati si disegnano differentemente così come la congiuntura globale delle loro contraddizioni e della crisi politica.
La statualità è il riflesso degli interessi dei monopoli transnazionali e delle loro lacerazioni in una guerra concorrenziale sempre quartiere.
Gli sbirri e leggi d'emergenza sono la blindatura dei poteri transtatuali locali, nazionali e continentali. La loro militarizzazione.
Più i poteri sono violenti, più la violenza è potere. E più il potere reale della potenza economica di un pugno di monopoli e di élite dirigenziali li usurpa, più hanno l'imperiosa esigenza della manipolazione spettacolare della "democrazia".
Più diffondono una propaganda di legittimazione ossessiva, onnipresente, onnidimensionale.
La commedia è così diventata la forma dittatoriale di gestione della violenza quotidiana.
A questo fine, il "protestataire" è sempre stato non solo un ghetto del tutto accettabile da parte del potere, ma più ancora, costituisce una cultura oggi fagocitata per la sopravvivenza del regime borghese, tanto più che ha saputo garantirsi questo statuto accordandosi alle manipolazioni e alla denuncia dei rivoluzionari.
Per paura, forse, che lo stesso silenzio potesse essere compreso come tacito sostegno dei "terroristi". Il pacifismo del "protestataire" è prigioniero dell'utilizzo che ne fa il potere.

L'azione dei movimenti sociali non è una minaccia per l'ordine se non quando porta in essi un qualunque avanzamento dei limiti abituali delle lotte. Quando possono ancora pretendere di trasformarsi in un'azione rivoluzionaria capace di porre la questione della violenza.
Ma oggi è chiaro che i militanti "incasellati" hanno interiorizzato fino alla caricatura gli assiomi del discorso antiterroristico, tessono i messaggi dell'ordine e della morale nelle praterie della sottomissione. Ripetono a squarciagola che il debole è l'aggressore ed il potente è la vittima, che il ribelle è il fanatico mentre lo sfruttatore è il rappresentante legittimo, il partner della conciliazione "democratica" e dei fronti repubblicani antifascisti.

Le commemorazioni istituzionali di Maggio hanno portato al culmine questi pseudo-rivoluzionari. La loro "via di Damasco" è stata santificata. Ed i chierici stigmatizzano il "violento" come una giustificazione a posteriori del loro ritorno nel girone delle élites borghesi. Il '68 è stato recuperato, perché poteva ancora esserlo. Tutti gli aspetti del "protestataire" metropolitano di cui non era riuscito a disfarsi completamente hanno permesso di fagocitare la sua storia.
Ma il movimento insurrezionale autonomo del '77 che lo ha seguito non poteva conoscere la stessa sorte istituzionale.
Dalle manifestazioni insurrezionali di Milano e di Roma alle resistenze contro la NATO, dal movimento "asembleista" spagnolo, dalle rivolte della base operaia alle offensive della guerriglia, il '77 autonomo ed armato aveva aperto una vera breccia nel consenso dei centri imperialisti.
Proprio per questo la repressione non poteva conoscere mezze misure. Bisognava che fosse cancellato dalla memoria collettiva. E questi militanti dovevano pentirsi o crepare nelle carceri speciali. Il movimento del '77 aveva portato "troppo lontano" l'alternativa autonoma al sistema, tutte le forze congiunte di questo sistema gliela fanno pagare fino in fondo.
Ma la violenza rivoluzionaria è ancora all'ordine del giorno, e lo è ancor di più dal momento che i monopoli hanno finito per accaparrarsi tutto lo spazio politico e l'hanno blindato.
Decisamente la violenza rivoluzionaria non può vestire e non vestirà mai i panni dell'immagine anacronistica che molti vorrebbero farle portare. Per questi non sarebbe che un souvenir, una prospettiva dello spirito, ed una deriva.
Ci spiegano, allora, come sovvertire e distruggere i monopoli e il loro militarismo?
Come spezzare il processo di fascistizzazione della globalizzazione?
Sinceramente chi può ancora credere che si potrà vincere sgranando il rosario dei desideri attraverso la lotta per le piccole riforme, attraverso l'appello alle cittadinanze borghesi, attraverso le petizioni e le lunghe passeggiate?
Per il fatto stesso di porre queste evidenti questioni, noi sentiamo già gli abituali anatemi: avventuristi, "sostituisti", immediatisti, anarchici...
Fin dal 1971 Lotta Continua aveva perfettamente svelato la sostanza della condanna: "Chi urla scandalizzato al terrorismo e al romanticismo non fa in realtà, il più delle volte, che mascherare la sua paura davanti ai suoi doveri rivoluzionari". Ed è proprio di questo che si tratta ancora oggi.

La violenza di cui i P.P. sono i simboli non è semplicemente una storia passata. Cioè l'eredità umana della lotta combattente dei due decenni precedenti, con le sue avanzate ed i suoi errori. Va ben al di là per tutti quelli che fanno ancora riferimento all'emancipazione del proletariato e si prendono la cura di leggerla nel quadro di un processo storico.
Essa permette di intravedere la violenza armata come indispensabile alla sovversione della gestione attuale delle nostre società neoliberiste.
Che bisogna e bisognerà utilizzare per spezzare il giogo del falso "protestataire".
Perché da essa dipende la perpetuazione di quella che non è altro che una sottomissione, differente certo, ma sempre una sottomissione al divenire delle dittatura.
La violenza sola per strappare gli orpelli dei "felicissimi sogni" di cittadinanze, di nuovi "New deals", del ritorno dello Stato assistenziale, di unità antifascista con la borghesia "progressista".

Piccola parentesi

Sono numerosi quelli che sfilano settimanalmente contro Le Pen, contro Fini, al fianco di quelli stessi che oggi fanno regnare un silenzio di morte sulla detenzione politica dei nostri paesi europei.
Per quanto riguarda i prigionieri della guerriglia, le gestioni socialdemocratiche del carcerario non hanno nulla da invidiare ai regimi autoritari. Utilizzano gli stessi metodi: criminalizzazione, tortura bianca, arbitrarietà, pestaggi e li mascherano con un'arroganza a tutta prova.
In Francia, i compagni Groix, Ramazan Alpaslan, Pello Marinelarenari sono morti nelle loro celle. Numerosi altri compagni sono preda di malattie oggi incurabili a causa della loro condizione di detenzione.
Duecento prigionieri politici marciscono nelle prigioni dello stato francese e i gestori della "morte lenta" vorrebbero ancora mettersi alla testa della lotta antifascista!
Chi non vuole parlare di imperialismo e di repressione di Stato deve anche tacere su ciò che riguarda il fascismo.

Mettere la questione dei P.P. e della violenza rivoluzionaria sul tappeto significa inesorabilmente agire per rivoluzionare i "rivoluzionari" della metropoli.
Prima di tutto facendo apparire come, dopo due decenni, si è sedimentata una connivenza con i gestori della "sinistra" nelle lotte che usano la carità e l'antifascismo istituzionale mentre queste "anime belle" erano nel governo i feroci difensori del neoliberismo trionfante e i responsabili di un salto in avanti nelle ineguaglianze senza precedenti.
Che erano i legislatori di un nuovo apartheid e quelli della "proporzionale" per il FN.
Ma, allo stesso modo, il buon uso della questione della violenza e dei P.P. deve essere uno degli strumenti di lotta contro la tradizione del gradualismo, eredità dell'opportunismo dei vecchi P"C". Tutti questi concetti della coesistenza pacifica che si ripetono per abitudine, la "linea di massa" ed il rifiuto dell'aspetto minoritario della violenza, infine, tutto ciò che è sempre servito a rimandare l'azione rivoluzionaria alle calende greche.
Decenni di azioni "responsabili", di conciliazione, di elettoralismo, di routine, di banalizzazione del messaggio e dell'impegno rivoluzionario hanno fatto perdere di vista al movimento uno dei punti cardinali della teoria marxista: il salto dal capitalismo al socialismo si farà nella violenza rivoluzionaria. E non altrimenti.
Di conseguenza, porre la questione della violenza rivoluzionaria, significa ritrovare il soffio dello scopo rivoluzionario, e rinnovare così il legame tra le nostre resistenze e le nostre lotte attuali, e la possibile distruzione del sistema stesso nel senso della lotta di ogni giorno e degli interessi storici della nostra classe.
Significa puntare alla memoria delle lotte e ritrovare il filo rosso che la percorre dal giugno 1848 alla Comune di Parigi, dalla rivoluzione del 1905 alla rivoluzione europea del 1917-1923, alla rivoluzione spagnola del '36, al "Majo '37" di Barcellona, alla lunga marcia cinese e alla rivoluzione culturale, a tutte le lotte di decolonizzazione, a Che Guevara nelle resistenze cubana, congolese e boliviana; ed infine, dal "mai più senza fucile" del '68 europeo ai movimenti ed alle offensive autonome del 1977-78.

E, alla fine, mettere l'uso della teoria "sui propri piedi".
L'insegnamento e l'esperienza delle lotte passate e il processo rivoluzionario tutto intero fanno tutt'uno con le problematiche della pratica, con la risoluzione dei compiti, con l'azione diretta dei rivoluzionari oggi.
La teoria della lotta non sarà mai dei "venditori di icone" e dei sacrestani. Ad ogni movimento che rinasce è necessario spezzare il commercio spettacolare degli uni e le litanie degli altri per riappropriarsi della teoria pratica.

Nell'attualità come per il passato, la preparazione e la messa in pratica della violenza rivoluzionaria parlano di comunismo.
E' la volontà di incarnare momenti di potere della classe. Senza una teoria, una memoria e una pratica della violenza, mai i militanti proletari potranno dotarsi di una strategia conseguente di costruzione dei poteri classe. Tanto più che nella nostra epoca il soggetto determinante è un proletariato altamente precarizzato.
In effetti, il portatore del progetto rivoluzionario di trasformazione sociale non è più l'operaio professionale, nemmeno l'operaio-massa del dopoguerra, ma un operaio pauperizzato colpito dall'intensità della violenza dello sfruttamento mondiale.
Un soggetto globale da Giacarta a La Courneuve, da Los Angeles a Lagos, ma è nello stesso tempo un soggetto riflesso della forte eterogeneità sociale. L'omogeneizzazione e la polarizzazione della sua condizione hanno sconvolto le congiunture della sua lotta di classe.
Oggi il proletariato non può più ricomporsi con gli stessi metodi di lotta e di organizzazione che utilizzava prima. E' evidente.
Peggio, questi metodi sono diventati ostacoli che aggravano ancor più la sua precarietà economico-sociale con tutte le conseguenze delle precarietà politiche e culturali.
Il proletariato precario non si ricomporrà come classe rivoluzionaria in un processo di scioperi o grazie alla politicizzazione sindacale in generale, nemmeno per l'inquadramento in tale o talaltro partito più radicale, a parole, del suo vicino. Non lo può più.
Si educa nell'azione diretta e nelle fiammate della rivolta.
E' spinto ineluttabilmente al confronto violento dalle sue miserabili condizioni di vita e dalla repressione che esercitano su di lui i rappresentanti di un capitalismo col fiato corto.
Preparare il confronto armato significa muovere fin dal primo istante alla ricomposizione di classe, muovere all'unità e alla politicizzazione di questo proletariato precario e globale.
Significa far sorgere la coscienza di rappresentare la sola classe mondiale a poter condurre fino in fondo il processo rivoluzionario.
Una classe che si costituisce per assumere questo ruolo. La sua natura storica e collettiva è di distruggere la sua natura immediata e individualizzata di schiavo economico e politico del capitale.
Questo processo di coscientizzazione e di organizzazione è un processo di lunga durata, una guerra di classe nel corso della quale i combattimenti sporadici si generalizzano in scontro insurrezionale.
Affrontare la questione della violenza si collega immediatamente alla risoluzione rivoluzionaria della sua organizzazione.
E' il tentativo di risposta collettiva e pratica alla questione di riarmare il proletariato della volontà di armarsi e di condurre la guerra rivoluzionaria contro il capitale.
E' la collocazione di questa domanda nel cuore della lotta per l'autonomia politica.
In questo cammino, la classe innalzerà nuovamente la sua bandiera e il suo fucile, in un unico slancio perché essi sono indissociabili.
Essa condurrà i suoi interessi e la guerra per farli trionfare.
Nella loro interazione, gli interessi guideranno il fucile e il fucile aprirà la strada alla rivelazione degli interessi mondiali, senza mediazioni possibili.

Per concludere

Che significa mettere così sul tappeto la questione della violenza rivoluzionaria durante questa giornata internazionale del prigioniero rivoluzionario?
Noi sentiamo giù nel fondo delle nostre celle i sospiri dei malpensanti.
No compagni, per noi la questione della violenza armata non è la sola questione rivoluzionaria, né la sola a dover essere trattata urgentemente.
Alcuni hanno sempre caricaturato, e caricaturano ancora, le posizioni della guerriglia tentando di far credere che noi non abbiamo che questo nella testa.
E di conseguenza, questo argomento serve da alibi all'assenza della giusta domanda sulla necessità della violenza e della sua pratica organizzata. Ha sempre costituito l'ultimo argomento per svuotare il dibattito.
Prigionieri della guerriglia, noi cerchiamo semplicemente di sollevare gli aspetti fondamentali di questa questione.
Tutta la sua attualità e le contraddizioni in cui immerge i militanti dei paesi imperialisti.
Tra essi, molti sono quelli che sostengono una guerriglia nel mondo.
Ma rari sono quelli che fanno il salto passando dal sostegno di questa situazione particolare alla globalità della problematica e, così, alle sue concrete ripercussioni laddove ci si trova.
Perché sostenere una guerriglia rivoluzionaria pone immediatamente un problema politico pratico. Fare tutto per il trionfo di una guerriglia in Messico, in Turchia, in Asia esige una riflessione profonda su quale deve essere l'azione dei rivoluzionari nel "ventre della bestia", nelle cittadelle delle casseforti dei monopoli.
Laddove vivono e prosperano i proprietari e i tecnocrati che taglieggiano assieme l'intero pianeta.
Laddove risiedono quelli che sfruttano ed opprimono in una dittatura assoluta più del 90% del proletariato internazionale.
Nel 1972, Andreas Baader, Ulrike Meinhoff e i compagni della RAF hanno dato una prima risposta distruggendo i calcolatori delle forze armate U.S. che pianificavano i bombardamenti sul Vietnam.
Questa azione superava la cornice del sostegno per essere un concreto atto di solidarietà delle lotte anticapitaliste e antimperialiste qui con la lotta di emancipazione nelle periferie.

Da tre decenni, la globalizzazione dei processi produttivi e di scambio ha conosciuto un salto qualitativo senza precedenti. Non un giorno senza che ogni più piccolo fatto ce lo ricordi.
Ma questa globalizzazione è innanzitutto la mondializzazione della lotta delle classi, la mondializzazione delle problematiche e la mondializzazione delle soluzioni.
Ed allora, chi vorrebbe seriamente farci credere che si può comprendere perfettamente chi prende le armi nella Sierra e allo stesso tempo condannare quelli che qui le usano nelle piazzeforti dell'ordine imperialista?
Chi vorrebbe farci credere che il particolare domina fino a questo punto la situazione generale del conflitto? Che questa è una posizione giusta e rivoluzionaria?
La ricerca dell'unità è la proiezione rivoluzionaria del proletariato mondiale.
Ovunque si trovino, i rivoluzionari devono rafforzare ed orientare questa "lunga marcia".
Devono avanzare per la ricomposizione e la politicizzazione della classe nel quadro dello spazio dominante dell'epoca, nella sua pluridimensione dal locale al mondiale.
Dappertutto devono abbattere gli ostacoli ed i limiti che rinviano eternamente le lotte ai limiti e alle regole dell'organizzazione nazionale ed istituzionale del sistema.
Le due cose sono oggi strettamente legate.
E nella metropoli imperialista il nazionale e l'istituzione sono tanto più reazionarie poiché sono strumentalizzate nel processo di fascistizzazione dei monopoli.
Gli immensi eserciti dei lavoratori poveri, i nuovi schiavi delle grandi multinazionali e i diseredati dei ghetti urbani formano la maggioranza dell'umanità.
Questo proletariato precarizzato è l'asse attorno a cui deve risolversi la questione della divisione della ricchezza sociale e quella della appropriazione dei mezzi di produzione.
Non può essere altrimenti.
Nessun'altra classe o strato di classe possono sostituirlo nello slancio rivoluzionario e soprattutto non i rappresentanti delle classi locali e nazionali metropolitane che finiscono sempre per difendere il "progresso" e le riforme della cittadinanza imperialista e le sante carità.
Come si può credere che ci sia anche solo un grammo di speranza nei limbi della "sinistra della sinistra" e nelle altre mode del "protestataire" metropolitano?
Torneranno, alla fine, tutti e per l'eternità a preservare i piccoli vantaggi delle condizioni locali e a migliorarli. Non possono sfuggire a questo destino da funzionario.

D'altronde, sanno bene che ottengono queste piccole riforme solo all'espressa condizione di dividere la classe e di mobilitarla sulle problematiche grette del proprio orticello protetto dagli eserciti alle frontiere e dai piani Vigipirate (piani antiterrorismo francesi - n.d.t.).
Sotto la maschera, collaborano all'apartheid.
Nelle metropoli europee, da un mezzo secolo, il trionfo del pensiero "socialdemocratico" tanto nelle istituzioni quanto nei gruppuscoli del "protestataire" rivela così la sua falsità.
Le mezze-soluzioni dei programmi populisti non hanno strappato il proletariato dalle grinfie delle leggi del capitalismo monopolista.
Al contrario, esse hanno favorito il loro dinamismo.
La deconnessione tra le ricchezze accaparrate e le povertà non è mai stata così violenta. Lo sfruttamento intensivo si è considerevolmente aggravato nell'alta produttività, nei ritmi infernali, ma anche nella precarietà e nell'insicurezza dell'esistenza di milioni di proletari. La politica istituzionale si riduce ormai per i proletari a scegliere attraverso il voto tra il peggio e il meno peggio; oppure ad escludersi dal voto.
Mondialmente la classe proletaria è oggi sola di fronte all'alternativa socialismo o barbarie, che gli sviluppi e gli imputridimenti del capitalismo sollevano. Ovunque essa si rivolti deve impugnare le armi: dalle stradine di Gaza alle "barriadas" di Bogotà, del Chiapas, alle città-periferie delle nostre megalopoli europee.
Dappertutto, le masse superano i confini delle vecchie strutture. I partiti e i sindacati istituzionali sono sempre più ridotti all'impotenza della loro inadeguatezza di fronte ai nuovi spazi e alla loro globalizzazione.
Dappertutto il proletariato socializza le nuove resistenze, nell'autoeducazione e nell'autorganizzazione, nella ricerca della propria autonomia politica. Certo, questo non si dà senza numerosi errori. Le false credenze ed i veri integralismi si diffondono come una nuova lepre.
Tuttavia, il soffio di liberazione prende corpo, è più forte. Ovunque i proletari si rivoltano, ritrovano il senso della violenza rivoluzionaria. Ritrovano i fucili ed in loro mancanza le pietre.
E vorrebbero farci credere che il tempo della guerriglia è superato. Che la lotta armata è storia vecchia! Vorrebbero farci credere che tutto ciò non cambi niente per i rivoluzionari qui.
Che bisogna continuare instancabilmente fino all'assurdo le routine del gradualismo revisionista.
Che bisogna distillare le chiacchiere su presunte aurore insurrezionali e sulla pazienza nella loro preparazione.
La sola autentica preparazione alla rivoluzione è l'azione rivoluzionaria.
Mai il legalismo, il pacifismo e le concessioni quotidiane hanno avvicinato la rivoluzione.
Solo l'azione rivoluzionaria risoluta, l'assolvimento dei compiti come veramente ci si impongono e la sovversione delle consegne da caserma fanno sorgere lo spirito della rivoluzione.

Le premesse dello slancio rivoluzionario in divenire dimostrano la centralità dei legami indissolubili tra le lotte per l'autonomia di classe, la liberazione attraverso le armi e l'internazionalismo proletario.
E' solo l'inizio.

Ribellarsi è giusto!
Osare lottare, osare vincere!

19 giugno 1998

Joelle Aubron, Nathalie Menigon, J.Marc Rouillan

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