SENZA CENSURA N.4 - NOVEMBRE 1997

DAL CARCERE ISRAELIANO IN PALESTINA

RULA ABU DAHOU è una delle prigioniere Palestinesi liberate lo sorso febbraio, dopo oltre un anno di lotte in carcere.
Negli accordi di Taba o Oslo 2 (ott. 95) gli israeliani avevano sottoscritto il rilascio di tutte le donne prigioniere; l'ordine di scarcerazione era invece arrivato solo per 23 delle 28 prigioniere, con la motivazione che le altre 5 (Rula era tra queste) "avevano le mani sporche di sangue israeliano".
Nessuna delle prigioniere accetto di uscire dal carcere senza che tutte le compagne fossero liberate (Senza Censura n. 2).
Alla fine, nel febbraio del 97, tutte le prigioniere furono liberate. (tra ottobre e novembre 2 di queste prigioniere sono state nuovamente arrestate e poste in detenzione amministrativa; nell'intervista a Rula non si fa riferimento a questi eventi essendo stata realizzata precedentemente)


Come prima cosa abbiamo chiesto a Rula di parlarci dell'esperienza del carcere israeliano, come palestinese e donna.

R. A. D. - Le carceri sono solo uno dei luoghi dove lottare per i tuoi diritti, per la tua libertà e la tua vita.
Con il carcere gli israeliani cercano di indebolire la lotta palestinese.
Quando ci uccidono fanno di noi dei martiri, rafforzando la lotta, quindi preferiscono metterci in prigione e cercare di uccidere la nostra anima, di portarci al punto di dire: basta, ora non posso più lottare!

Questo è il loro obiettivo, e la consapevolezza di questo obiettivo israeliano è il primo passo per riuscire a contrastarlo.
Naturalmente non è semplice: nelle carceri israeliane affermare i tuoi diritti richiede una lotta continua.
Devi lottare per qualsiasi cosa: il cibo, le cure mediche, per avere un libro, un quaderno, per ricevere una visita, per sapere cosa succede fuori.
Ogni cosa è una guerra, e la guerra non si ferma mai, dal primo momento in cui entri in carcere.

Essere donna rende tutto ancora più difficile: devi essere forte il doppio per riuscire a proteggerti.
Oltre a tutti i mezzi che usano contro gli uomini, gli israeliani con le prigioniere cercano di far scattare un senso di colpa per aver fatto qualcosa contro-natura per delle donne arabe che, secondo loro, dovrebbero stare a casa e non partecipare attivamente alla resistenza.
Così, ogni giorno della nostra prigionia, siamo costrette a lottare per riaffermare il nostro diritto a stare nella lotta.

Quanto è diffusa la tortura?

R. A. D. - La tortura è sistematica, ma ci sono due fasi distinte.

La prima è la fase dell'interrogatorio, in cui gli israeliani usano tutte le forme di tortura fisica e psicologica immaginabili, e oltre.
Le percosse sono continue, ti fanno stare al sole, al freddo, sdraiato per terra, appeso al soffitto, ti "scuotono", usano l'elettricità, i rumori, gli odori, tutto viene utilizzato per massacrarti.

Poi arriva la seconda fase, quando vieni portato al centro di detenzione in attesa del processo o per scontare la pena.
In questa fase le torture psicologiche prevalgono su quelle fisiche.
Le torture fisiche continuano, ma è chiaro che a questo livello il loro obiettivo è rendere la tua vita impossibile e miserabile. Ti impediscono di ricevere visite, ti negano le cure mediche.

Per fare solo un esempio, una mia compagna, al momento dell'arresto, è stata ferita al torace con 5 pallottole (è senza un polmone e una parte di rene) e ad una gamba.
Avrebbe dovuto entrare in ospedale per essere sottoposta ad un intervento la stessa settimana del suo arresto.
Nonostante le nostre proteste questo non era ancora avvenuto quando siamo uscite (oltre 3 anni - n. d. r.).

Anche il cibo è una forma di tortura: è sempre lo stesso, preparato in condizioni igieniche indescrivibili, immangiabile, senza verdura, senza frutta.
Uno che non l'ha provato fa fatica a immaginarlo: ho mangiato esattamente le stesse cose per 9 anni.
Anche questa è una forma di tortura.

Per ogni minima rivendicazione sei costretto a lottare, a fare scioperi della fame che possono portarti alla morte o deteriorare pesantemente la tua salute.

Voi prigioniere avete portato avanti una lotta durissima contro il tentativo israeliano di dividervi, per essere liberate "tutte o nessuna".
Quali sono stati per te i momenti più significativi di questa lotta.

R. A. D. - Io ero una delle prigioniere che gli israeliani rifiutavano di liberare, e, senza dubbio, il momento più importante è stato quando tutte hanno deciso che non sarebbero uscite dal carcere finché non fossimo state liberate anche noi.

Noi abbiamo lottato insieme, abbiamo fatto scioperi della fame, abbiamo condiviso tutto.
Sapevamo che le nostre famiglie erano molto preoccupate per quello che stava succedendo, e, naturalmente, volevano vederci libere.
E io volevo vedere libere le mie compagne, che rimanevano in carcere solo per noi. So con certezza che è solo grazie a loro e alla loro determinazione che ho ottenuto la libertà.

Era molto duro per me svegliarmi ogni giorno e vedere che erano ancora tutte in carcere.
Avevano condanne molto pesanti, anche a 10 o 15 anni, avrebbero potuto andarsene quando volevano ma non lo facevano.
E' stata un'esperienza incredibile ed esaltante a livello di lotta, ma molto penosa dal punto di vista umano.

Noi abbiamo anche cercato di convincerle ad andarsene, ma non c'è stato verso. Anche le loro famiglie sono state incredibili; avrei considerato comprensibile che avessero cercato di convincerle ad interrompere la lotta, invece ogni volta che venivano ci incitavano ad andare avanti, dicevano che non avrebbero accettato di riavere le figlie a casa se non fossimo uscite tutte insieme.

E una volta uscita?

R. A. D. - Anche questo non è stato facile.

Nei 9 anni che ho passato in carcere sono cambiate molte cose: non ci sono più 2 Germanie, non c'è più l'Unione Sovietica; e anche qui sono cambiate molte cose, in questi 9 anni ci sono stati l'Intifada e Oslo, i due più grandi cambiamenti per il mio popolo in decenni.

Non ho avuto la possibilità di essere con il popolo durante l'Intifada e ora mi sono trovata in una situazione totalmente diversa, nel dopo Oslo.

Non ho rimpianti per i miei 9 anni di carcere, ma vivere questo periodo è molto frustrante.

Vedo le chiusure (dei Territori), la povertà aumentare ogni giorno, la sofferenza quotidiana della gente, migliaia di prigionieri ancora nelle carceri.

Mi sembra che la liberazione mia e delle mie compagne non sia niente in confronto alle migliaia di prigionieri che ci siamo lasciate dietro.

Quando vedo la situazione oggi non posso fare a meno di chiedermi se questa è la libertà per cui ho combattuto e per cui ho dato 9 anni della mia vita.

Lo ripeto, non ho rimpianti, anzi sono orgogliosa di aver dato il mio contributo alla lotta, e 9 anni di carcere non sono nulla rispetto alle migliaia di Palestinesi che sono stati uccisi dagli israeliani.

Il problema è che quello che viviamo oggi non ha nulla a che vedere con quello per cui la mia generazione e quella che l'ha preceduta hanno combattuto.

Noi lottavamo per uno stato palestinese, libero e democratico, su tutta la Palestina, non per i "bantustan" in cui siamo rinchiusi oggi.

Comunque penso che questa situazione non durerà a lungo perché vedo crescere di giorno in giorno la frustrazione e la rabbia della gente.

Quindi vedi la prospettiva di una ripresa della lotta?

R. A. D. - C'è molta stanchezza, ma credo che questa situazione sia veramente insostenibile.

Naturalmente quello che succederà non dipende solo dai Palestinesi.

Purtroppo ha un grande peso il fatto che gli israeliani sono sostenuti dagli Stati Uniti, mentre il mondo arabo è diviso e non può, o non vuole, appoggiare la nostra lotta.

Penso quindi che le cose siano destinate a peggiorare, ma, in un certo senso, peggiorando miglioreranno.

Non fraintendermi, io non desidero questo peggioramento, ma è nelle cose, e di fronte alle difficoltà si liberano energie a volte impensabili.

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