Senza Censura n. 3/2000

[ ] Controllo e annientamento



Alcune riflessioni sul carcere imperialista tra presente e storia

L'anno in corso ha visto numerose iniziative di lotta dei proletari prigionieri a partire da gennaio con il sequestro di un agente di polizia penitenziaria da parte di sette prigionieri a Parma, ad aprile con i tristemente noti fatti di Sassari (70 detenuti pestati a sangue e traferiti in risposta ad una protesta interna al carcere originata dalle insostenibili condizioni di vita), fino alle proteste per migliori condizioni di vita, amnistia e indulto che si sono susseguite per alcuni mesi in alcune carceri e, soprattutto, nei grossi penitenziari metropolitani.
Nonostante la resistenza portata avanti dai proletari detenuti - fatta non solo delle proteste che sono balzate agli onori delle cronache, ma anche e soprattutto di innumerevoli episodi di conflittualità quotidiana nei confronti dell'apparato militare - la guerra dello stato contro i prigionieri sembra non conoscere sosta ricompattando tutti gli schieramenti politici, militari e giudiziari attorno all'imperativo di assicurare controllo, annientamento, differenziazione, stratificazione del proletariato.
E così come risposta al massacro di Sassari e dopo l'arresto di vari poliziotti - dovuto anche alla tenacia di parenti e compagni nel denunciare l'episodio - è stata deliberata la costruzione di quattro nuove carceri e l'assunzione di nuovi quattromila agenti penitenziari.
Controllo e annientamento: in queste due parole si può sintetizzare la funzione dell'odierno carcere imperialista.
Funzione che in Italia ha iniziato a realizzarsi compiutamente dopo la riforma del 1975, ma che covava dal lontano 1947 e, per affermarsi, ha avuto bisogno di particolari congiunture politiche ed economiche.
"Il movimento per riformare le prigioni non è un fenomeno tardivo, la riforma della prigione è quasi contemporanea alla prigione stessa, ne è come il programma". (M. Foucault)
La riforma delle carceri rappresenta la volontà dell'istituzione di superare la dicotomia recupero/annientamento da cui è nata per comporla nella sintesi economico sociale istituzionale.
Le trasformazioni dell'assetto penitenziario - dalle "arcaiche" punizioni esemplari sino alle più sofisticate e moderne tecniche di controllo e isolamento - non si svolgono per linee interne né sono addebitabili a giochi del caso.
L'evoluzione, cioè la riforma del carcerario, è comprensibile solo analizzandone la varie fasi, le varie forme in rapporto al modo di produzione dominante, ai rapporti di produzione e alle relazioni sociali.
Ma torniamo alla riforma del 1975 e ai principi cardine che è riuscita ad affermare: selezione dei detenuti come premessa per l'individualizzazione della pena e per il trattamento differenziato e articolazione delle varie gradazioni del sistema di reclusione in minima, bassa o massima sicurezza. Un sistema gerarchico di sicurezza al quale corrisponde un'osservazione individualizzata e un giudizio politico sul comportamento del prigioniero da cui derivano la natura e la qualità della "terapia" per il "recupero e la risocializzazione".
Questi principi fondamentali su cui si basava la riforma poggiavano sul rovesciamento politico e ideologico delle istanze dei detenuti che negli anni precedenti avevano dato corpo ad una lunga stagione di conflittualità.
Ciò che i prigionieri perseguivano con le loro lotte era una sempre più stretta identificazione tra lotta carceraria e lotta sociale per cui anche il varo di una riforma avrebbe dovuto, secondo il loro progetto politico, favorire l'incontro e la compenetrazione tra il proletariato recluso e quello libero fino alla disarticolazione congiunta delle istituzioni più repressive delle quali il carcere è il traino.
La riforma, apparentemente "democratica e garantista", stravolgendo scientificamente tutto questo ha subordinato ogni miglioramento, ogni diminuzione della pena alla (re)identificazione del detenuto con quell'ideologia dominante, i suoi valori e la sua autorità che la trasgressione della legge aveva violato.
Apice del "movimento della riforma" è l'inaugurazione ufficiale nel luglio 1977 delle carceri di massima sicurezza, più comunemente note come carceri speciali. In due anni sono state spese centinaia di miliardi per costruire 11 carceri speciali, trasformare intere isole in campi di detenzione, ristrutturare le carceri giudiziarie, costruire sezioni di totale isolamento. Il "movimento di riforma" avanzava a spron battuto allineandosi al modello Marion-statunitense o Stammhein-tedesco.
Scopo tangibile di questa ristrutturazione era la separazione netta tra i detenuti, l'annientamento della conflittualità carceraria, la distruzione dei prigionieri politici.
Con le lotte dell'estate 1978, partite dall'Asinara e presto generalizzatesi in tutti gli speciali e i grandi giudiziari metropolitani, salta il progetto di separazione fisica e isolamento politico dei prigionieri. Formidabile fu la risposta di un ampio strato di proletari prigionieri alle iniziative di lotta partite dai "politici". Non solo come solidarietà contro il regime speciale o rivendicazione di migliori condizioni di vita all'interno delle carceri, ma anche come livello di politicizzazione.
La costituzione dei comitati di lotta in tutti i campi rappresenta la forma più alta di organizzazione dei prigionieri, la possibilità per molti proletari di politicizzarsi, la presa di coscienza della portata offensiva della loro lotta, possibile per la saldatura con l'iniziativa dell'avanguardia di classe all'esterno.
Questo breve excursus storico per inquadrare, seppur molto sommariamente, la riforma carceraria.
Un passaggio fondamentale della politica penitenziaria in Italia che ha sanzionato i principi fondamentali su cui ancora oggi si basa il carcere imperialista anche se, di emergenza in emergenza, si sono affinati sempre più gli strumenti a disposizione dell'apparato penitenziario.
Il ricorso negli anni '80 all'art. 90 (della riforma penitenziaria appunto) si proponeva la limitazione/soppressione dei "diritti dei detenuti". Una brutta espressione, ma questo in concreto significava limitazioni molto materiali: meno socialità, meno ore d'aria, meno colloqui, meno libri, riviste, carta, penne .... più perquisizioni, più censura della corrispondenza, più isolamento ....
Finita l'emergenza "terrorismo", ritroviamo la stessa tendenza nella forma di art. 41-bis per "l'emergenza mafia".
Nella sostanza nulla è cambiato negli ultimi vent'anni se non il fatto che sono state costruite decine di nuove carceri e tutte sul modello degli speciali, sono stati assunti migliaia di nuovi agenti e affinate le tecniche e le tecnologie di controllo; ma la funzione di contenimento, controllo e annientamento - non solo di comunisti e di rivoluzionari, ma di interi strati sociali - è rimasta invariata.
Ciò che è mutato, rispetto agli anni della riforma, è l'esigenza delle politiche controrivoluzionarie di adeguarsi ad un nuovo modo di produrre del capitale basato sull'estensione della precarietà del rapporto di lavoro e resa possibile dalla creazione di un immenso esercito industriale di riserva frutto di licenziamenti di massa, nuove tecnologie, politiche di rapina e affamamento dei paesi della periferia imperialista e la conseguente massiccia immigrazione verso i paesi del centro imperialista.
Non si tratta più di contenere/annientare un relativamente piccolo strato di proletari espulsi e/o marginalizzati in maniera permanente dal processo di produzione, in quanto la precarizzazione del rapporto di lavoro e di conseguenza dell'esistenza, la crescente pauperizzazione di un vastissimo strato di proletariato, impone allo stato un livello di controllo adeguato.
Da cui: campagne terroristiche nei confronti di immigrati, squatters, zingari, "drogati", senza-casa ecc. (la cosiddetta tolleranza zero). I dati più evidenti sono: l'altissimo numero di stranieri extra-comunitari in carcere (nei grossi giudiziari metropolitani è oltre il 40%) e l'altissima mobilità dei soggetti incarcerati.
In un sistema basato sulla precarietà, per il giovane proletario trovarsi a vagabondare dai corsi di formazione al lavoro nero, dal part-time alla fabbrica, "dall'economia del vicolo" all'extralegalità, dal carcere all'agenzia interinale per poi ripercorrere tutto da capo come in un circolo vizioso sarà sempre più frequente.
Se attualmente il modello statunitense dei due milioni di prigionieri (tre milioni se si considerano le pene alternative), dei sei diversi gradi di detenzione di un complesso carcerario-industriale con il 5% di carceri private non sembra immediatamente applicabile alla realtà italiana - soprattutto per la sua estensione che, in parte, ne costituisce anche la qualità - la filosofia di fondo che lo guida pare comunque ispirare i riformatori nostrani.
Più che dai classici forcaioli della "destra" questa filosofia pare incarnata dal sinistro Caselli, direttore del DAP (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria), il quale, nelle innumerevoli interviste rilasciate durante l'estate, andava ripetendo che le carceri non devono essere discariche sociali, che i detenuti non vanno trattati come rifiuti, salvo poi proporre esattamente il contrario: privatizzazione della pena tramite comunità, cooperative, lavoro coatto ecc. per quanto riguarda i reati minori e introduzione di quattro diversi circuiti carcerari a seconda del tipo di reato e provenienza sociale del prigioniero
Come i moderni rifiuti: raccolta differenziata a seconda del grado di pericolosità o riciclabilità.


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