Senza Censura n. 4/2001

[ ] L'oro del Lavoro



Alcune considerazioni su padronato, sindacato e mondo del lavoro1

Al giorno d'oggi, qualunque lavoratore può immediatamente constatare come le scelte organizzative dell'impresa capitalistica abbiano gradualmente stravolto la propria condizione lavorativa. Se all'inizio degli anni '90 il lavoro di fabbrica, per quanto mutato ed indebolitosi rispetto a vent'anni prima, era ancora connesso ad un insieme di tutele e diritti più o meno esercitabili all'interno degli stabilimenti - "il più o meno" naturalmente dipendeva dalla forza e dalle tradizioni operaie presenti nelle aziende, oggi i lavoratori possono facilmente verificare quanto ed in che modo la loro posizione sia sottomessa al volere ed al potere imprenditoriali.
Come è potuto avvenire negli ultimi dieci anni un simile peggioramento e, soprattutto, a chi è attribuibile la responsabilità dell'imbarbarimento che quotidianamente viviamo nei luoghi di lavoro?
Il nostro buon senso comunista, che evidentemente non coincide con quello comune, ci spinge a riconoscere nell'odierno regime di accumulazione capitalistica la causa principale del nostro malessere; tuttavia, se è scontato che il potere dei capitalisti cerchi di affermarsi e dominare la potenza del lavoro vivo, vale a dire la nostra potenza, non è altrettanto scontato che dinanzi all'arroganza padronale venga a cadere la conflittualità che da sempre ha contraddistinto il comportamento della classe operaia.
Ad un primo sguardo, sicuramente superficiale, parrebbe proprio che l'attuale resistenza dei lavoratori sia poca cosa rispetto allo strapotere capitalistico, ma ad un esame più approfondito risulta invece che moltissime realtà lavorative sono attraversate da un notevole sommovimento, una diffusa combattività dei lavoratori che oltre a contrapporsi alla logica del profitto si trova a dover fare i conti con una politica sempre più accondiscendente delle organizzazioni sindacali, le cui azioni sono completamente tese a non intaccare le compatibilità e gli equilibri economici e a non offendere la presunta ragionevolezza dei tradizionali referenti politici.
Certo, i parlamentari sinistroidi, i professionisti della teoria ed i moderati e modesti delegati sindacali ad una simile accusa risponderanno che la nostra conclusione è estremamente rozza ed approssimativa, peraltro infondata dal "punto di vista scientifico"; ma è per noi fin troppo evidente che chi riesce a vendere bene le proprie idee sul mercato - il mercato dei sondaggi politici o quello dei quotidiani e delle riviste che vanno per la maggiore - e chi indice uno sciopero soltanto con il permesso dei direttivi confederali, questo tipo di individui insomma non potrà mai essere consapevole e dunque riconoscere il contributo che ha dato e continua a dare alla progressiva degradazione che sta colpendo gli ambienti in cui siamo costretti a lavorare; un'attività quest'ultima che sicuramente ci risulta sgradita, ma dobbiamo continuare a svolgere in quanto apparteniamo a quel proletariato che da sempre per sopravvivere, e non certamente per vivere, non ha potuto fare altro che vendere la propria capacità lavorativa (e poi ci dicono che Marx non è più utile per comprendere la società attuale; ma in quale mondo vivono costoro?).
Negano dunque la validità delle nostre conclusioni, e noi, testardi come solo i proletari sanno esserlo, proviamo ad analizzare le opinioni dei signori sù citati mettendo al contempo in risalto alcuni dei misfatti prodotti dalle politiche del lavoro da essi perseguite.
All'interno dello schieramento governativo e delle centrali sindacali si trovano i più accesi sostenitori, talvolta più dei padroni (a questo siamo arrivati!), della tesi secondo cui il mercato del lavoro italiano è affetto da un profondo dualismo che divide la popolazione attiva - ovvero coloro che donano la propria vita al capitale - in "insiders" ed "outsiders", cioè inclusi ed emarginati. L'inclusione e l'esclusione alle quali si fa riferimento sono evidentemente le protezioni affermatesi in ragione dell'espansione della "cittadinanza sociale" (Welfare State) e delle tutele in favore di vasti settori della forza lavoro salariata, risultati ai quali si è pervenuti dopo un intero decennio contraddistinto da una intensa militanza operaia, quella che per tutti gli anni settanta ha efficacemente combattutto l'assetto capitalistico ed impaurito il ceto padronale. Gli esiti causati dalla lotta di classe, stando al ragionamento in questione, avrebbero quindi irrigidito la gestione dei flussi lavorativi, prodotto un eccesso di garanzie (non dicono forse che lo "Statuto dei lavoratori" è eccessivamente garantista?), di conseguenza avrebbero reso troppo gravosa l'assunzione della manodopera; si sarebbe creato insomma un circolo vizioso che in maniera paradossale, dopo un bel pò di tempo, si sarebbe ritorto contro gli stessi lavoratori che in passato avevano reclamato più potere e diritti.
La soluzione a questo nodo socio-economico? Semplice! Abolire le rigidità passate - i più cauti e progressisti propongono un'attenuazione (evviva il riformismo!) - e permettere alle imprese una riallocazione redditizia del fattore produttivo lavoro.
Magia del capitalismo! Basta ridurre i vincoli all'imprenditore ed il suo spirito animalesco - quello che i dottori economisti chiamano "animal spirit" - libererà le energie positive che per un certo lasso temporale sono state martoriate e rimaste inespresse.
I professori, gli accademici, diranno ancora che non è possibile semplificare ed argomentare in tal modo una problematica di vasta portata, ma noi, che non possediamo un gergo raffinato, preferiamo sintetizzare come abbiamo fatto il triste e conformista coro che ogni spirito ragionevole ci propina (per inciso, ci sarebbe da rilevare una discreta contraddizione esistente tra la ragionevolezza e l'animalità degli spiriti da noi invocati, ma è risaputo, il pensiero borghese non gradisce confrontarsi con l'etica, ed il filosofo Immanuel Kant viene tenuto sufficientemente distante da concetti quali produzione e circolazione del capitale!).
Prima di verificare la falsità o falsificare la verità della tesi ufficiale tanto in voga tra i sapienti, ci permettiamo una ulteriore ma breve divagazione : è naturale che la logica sù esposta provenga dalla parte (Conf)industriale, ma che con tanto candore e vigore venga oggi adottata da ex dirigenti del PCI o da leaders sindacali che soltanto l'altro ieri rincorrevano la protesta operaia ci appare tragicamente ridicolo e non può che confermare la giustezza della dura opposizione che da anni importanti spezzoni del movimento operaio rivendicano nei confronti della sinistra istituzionale - con il disincanto del '77 ribadiamo "LAMA NON L'AMA PIU' NESSUNO" -.
Ma ritorniamo al lavoro ... meglio al mercato del lavoro; abbiamo visto che la sua rigidità è un elemento che usualmente viene gridato ai quattro venti, ma siamo sicuri che le cose stiano così come le indica il "gotha" della ricerca sociale italiana?
Se ci atteniamo all'osservazione del solo ambito dell'economia normata e regolare, tralasciando dunque il fenomeno dell'economia sommersa (che secondo le stime dell'Unione Europea ammonta a circa il 25% del nostro PIL, mentre per la Germania e la Francia si giunge rispettivamente al 6 e al 10%!), è possibile rilevare che la presunta rigidità addotta da molti seriosi analisti è notevolmente sovrastimata. Può esser vero? Cerchiamo di dimostrarlo.
La flessibilità di un sistema produttivo è desumibile a grandi linee dall'aggregazione del numero delle posizioni lavorative che in un anno un campione di imprese permette di rilevare, ovvero dal livello occupazionale positivo o negativo, il cosiddetto "TURNOVER", riscontrabile in un certo periodo temporale. L'utilizzazione di questo indicatore dimostra che l'economia italiana è pervasa da un discreto movimento di creazione e distruzione di posti di lavoro, infatti il turnover è del 20% annuo, il che significa che il rapporto degli ingressi o delle uscite sullo stock (quantità) di occupati è di 1 a 5.
Leggendo la composizione interna dei flussi di lavoro si scopre inoltre che ben 2/3 del "Job turnover" è da attribuire all'espansione o alla contrazione delle imprese esistenti, mentre 1/3 a fenomeni rapportabili alla nascita o alla morte di imprese. Quanto riportato indica che il mercato del lavoro italiano non è minimamente ingessato come ogni giorno viene invece affermato, ma al contrario in esso vi è un non indifferente tasso di mobilità che in base alla persistenza di una certa congiuntura economica può assumere tratti positivi o negativi. Tale ipotesi è avvalorata anche dalla misurazione della flessibilità prodotta da un ulteriore strumento-indicatore consistente nella relazione tra gli allontanamenti dei lavoratori dalle imprese, le cosiddette separazioni volontarie ed involontarie, e la quantità degli occupati, riferendo entrambi i dati naturalmente ad un tempo omogeneo; dalle ricerche empiriche a nostra disposizione si trae che nei settori privati dell'economia italiana i tassi medi di separazione viaggiano intorno ad una percentuale del 33%, un livello non molto dissimile da quello dei tanto sognati (dagli imprenditori!) Stati Uniti in cui si raggiunge un valore del 38%. Per di più, in Italia nelle imprese di piccola dimensione - quelle con meno di venti addetti - il sù citato tasso di separazione annuo è addirittura del 50%, ovvero un lavoratore su due ogni anno lascia il posto di lavoro in precedenza occupato.
Se l'elasticità del lavoro in questo tipo di imprese è caratterizzato prevalentemente dal numero dei distacchi dei lavoratori, le stime sul lavoro straordinario possono aiutare a comprendere quale sia il grado di flessibilità nelle industrie manifatturiere con più di 500 addetti, quelle unanimemente ritenute come l'esempio negativo dell'irrigidimento dell'uso della forza lavoro : in queste aziende la quota di straordinario è passata dal 2,5% dell'inizio degli anni '80 al 6% del 1989, per salire ancora sopra l'8% nel corso degli anni '90 (questi dati sonoi tratti da una fonte non sospetta, cioè una ricerca svolta dall'istituto di ricerca - IRES - della CGIL).
La mobilità dei lavoratori nel sistema produttivo nazionale sembra quindi già permettere un uso flessibile e piuttosto disinvolto dell'elemento lavoro; se poi consideriamo gli strumenti normativi introdotti dal governo di centro-sinistra in favore del ceto imprenditoriale - fondamentale a riguardo è il provvedimento n. 196 del 1997, ovvero la "legge Treu" - ci si rende conto di come una serie di formule contrattuali, dall'introduzione del lavoro interinale all'estensione di quello a tempo determinato, abbia ulteriormente colpito le tutele dei lavoratori.
Una conferma a quanto detto proviene giusto dalla forte espansione conosciuta dal lavoro temporaneo e dal part-time, infatti l'incremento degli occupati rilevato tra luglio '98 ed il medesimo mese del 1999, misurato dall'ISTAT in 256.000 unità, per ben oltre il 50% è attribuibile al lavoro dipendente a tempo determinato, e quasi per il 40% al lavoro part-time. Queste percentuali di per sè sono significative, ma per gli "opinion makers" nostrani sono ancora troppo poco, infatti il giornale degli industriali, Il SOLE 24 ORE, nella pagina dedicata ai problemi del lavoro del 10 Novembre 2000 titolava con rammarico : "All'Italia il record dei posti fissi " (il paragone era con i restanti paesi europei).Come abbiamo in precedenza accennato, se un simile titolo lo si incontrasse solamente su alcuni quotidiani non ci meraviglieremmo, ma sappiamo che avrebbe potuto tranquillamente trovar spazio anche su quelli considerati di sinistra.
L'analisi da noi proposta presenta dunque un mercato del lavoro nei fatti in balìa delle imprese, e possiamo assicurare che se è vero che ogni tentativo analitico fondato sull'utilizzo di macro-rilevazioni statistiche possiede un certo grado di imprecisione (piccola concessione alla scienza borghese!), è pur vero che nel nostro caso la flessibilità rilevata è nettamente inferiore a quella reale, di conseguenza se ci sono dei margini d'errore questi sono indubbiamente "in difetto".
Se allora il coro istituzionale, filo-padronale o sinistroide che sia, risulta essere ingannevole, è chiaro che i lavoratori devono aspramente contrastare le sirene che continuano a dispensare consigli circa la moderazione della lotta contro il capitale, recidendo ogni legame con quelle organizzazioni che in ragione della compatibilità sistemica non fanno altro che rendere sempre più precari i nostri diritti.
Non si dica che i toni delle nostre affermazioni sono impropri o eccessivi, perchè la posta in gioco è la nostra vita, e fino a quando saremo costretti a lavorare il minimo che potremo fare sarà sottrarre potere al capitale.

Alcuni compagni di Monopoli (Bari)



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