Senza Censura n. 7/2002

[ ] Sosteniamo l’Intifada Palestinese!

Abbiamo incontrato un compagno della sinistra palestinese che ha accettato di rispondere ad alcune nostre domande. Quello che segue è un ampio stralcio della sua intervista.

Puoi descrivere brevemente l’attuale situazione in Palestina?

La situazione attuale in Palestina si può paragonare con la lunga agonia di un paziente che sembra molto più vecchio della sua età.
Questa agonia non è cominciata, come molti vorrebbero far credere, con l’inizio della seconda Intifada, il 28 settembre 2000: si può dire che quel giorno, dopo la “passeggiata” di Sharon sulla spianata delle Moschee, la situazione è esplosa, anche se limitarsi a questa soloa valutazione sarebbe molto superficiale.
Le radici di questa rivolta risalgono, secondo me, a molto prima e cioè alla fine della prima Intifada e all’inizio del processo che ha portato agli accordi di Oslo, nel 1993, e sono da collegare con il peggioramento che tali accordi hanno provocato in questi anni nella situazione dentro ai territori palestinesi e alla totale disattesa di alcune promesse fondamentali per tutto il popolo palestinese quali il diritto al ritorno dei rifugiati, il diritto all’autodeterminazione, il diritto di dichiarare uno stato indipendente con capitale Gerusalemme Est, la liberazione di tutti i prigionieri politici.
Il processo che ha portato agli accordi di Oslo nasce da un accordo internazionale fatto tra diversi Paesi Arabi e lo Stato di Israele, con all’inizio due “padroni” (gli Stati Uniti e la Russia), in un contesto di grave crisi dell’OLP, specialmente dopo la guerra del Golfo.
La destra palestinese ha tentato di convincere il popolo palestinese e il mondo intero che questi accordi fossero l’unica strada possibile, e nonostante molte organizzazioni non fossero d’accordo (11 sui 13 partiti che compongono l’OLP) e ritenessero che molti punti di quegli accordi fossero già in partenza una rinuncia ad una parte delle rivendicazioni storiche del movimento di liberazione, prevalse una scelta unitaria.
Con la crisi che attraversava la sinistra palestinese e l’intero mondo arabo e in un contesto internazionale in cui, con la caduta del muro di Berlino, l’imperialismo americano affermava la sua supremazia, anche noi abbiamo pensato che potesse valere la pena tentare.
E da allora è cominciata la nostra agonia.
Un’agonia fatta da tentativi continui di divedere il mondo arabo e i Paesi dell’area con accordi “separati”, mentre noi chiedevamo una pace giusta nell’intera area.
Un’agonia fatta dal peggioramento progressivo e generalizzato delle condizioni economiche in tutta la Palestina. Abbiamo assistito al tentativo da parte di tutte le forze in campo negli accordi (Israele, gli Usa, l’Unione Europea, la stessa borghesia palestinese) di sfruttare la situazione per perseguire i propri interessi, mentre il popolo palestinese non ha che fame e miseria ed è costretto a vivere ampiamente al di sotto della soglia media di povertà.
Un’agonia che, durante questo processo, è continuata indipendentemente dall’orientamento politico dei governi israeliani alternatisi in questi anni, siano stati essi di destra o di sinistra.
Ma questo non ci meraviglia: noi crediamo infatti che il progetto politico israeliano sia il medesimo. E se la sinistra labourista israeliana tentava di imporre la propria supremazia con qualche attenzione in più nei confronti dell’opinione pubblica e della comunità internazionale, la vittoria della destra e l’ascesa al potere dei suoi rappresentanti più sfacciati e criminali ha dimostrato quale siano i reali interessi, quali i reali obiettivi di Israele: colpire ogni mano che si può levare contro il suo dominio assoluto sulla nostra terra.
Questo per dire che il problema non è quindi la figura di Sharon o del Likud in quanto tali, come spesso ci vuol far credere qualche “progressista” sui mezzi di informazione, ma una chiara strategia politica che ha portato in questi anni non solo al mantenimento della situazione esistente, ma alla sua progressiva degenerazione.
Ma le responsabilità non sono solo israeliane.
Invece di avere uno Stato, invece di raggiungere gli obiettivi concordati con gli accordi di Oslo, già di per sé mediati, la dirigenza politica che fa capo ad Arafat (il partito di Al-Fatah) che, non dimentichiamolo, rappresenta sostanzialmente la borghesia palestinese, invece di fondare uno Stato ha fondato un’autorità. Il popolo palestinese, dopo 50 anni di occupazione, di sterminio, di tragedie e di massacri, invece di avere uno stato si è trovato con un’altra Autorità, che ha pure la pretesa di definirsi “Nazionale”.
Non è un’istituzione che riconosce al suo popolo il diritto all’esistenza come individui, come palestinesi, anche formalmente, con un documento di identità, un passaporto, con il riconoscimento concreto della sua storia di lotta, fatta di tanti martiri e tanti compagni ancora in carcere o ancora rifugiati.
Purtroppo l’AP ha cercato invece di fare il poliziotto del governo israeliano sulla gente palestinese. Quello che è incredibile è che Israele non è riuscito in cinquant’anni a piegare la nostra resistenza: e adesso come si può pensare che siano dei palestinesi stessi a poterlo fare!
Questo è quello che pensano molti militanti, giovani e vecchi, di molte organizzazioni come Hamas, Jihad, Fronte Democratico, Fronte Popolare; questo è quello che pensano molti anche nella sinistra stessa di Al-Fatah, come Fatah Intifada: non siamo stati piegati da nessuno, non possiamo riuscire a sopportare di essere sottomessi da dei palestinesi.
A tutto questo mi riferisco quando parlo di agonia. E queste, molto sommariamente, sono le premesse reali che hanno portato al 28 settembre 2000, all’inizio della seconda Intifada.
Noi crediamo che l’Intifada sia l’unica strada per uscire da questa agonia, per dimostrare che non abbiamo abbassato la testa, per continuare ad affermare il diritto alla nostra terra, alla nostra identità, alla nostra cultura.
Prima ancora che una lotta “nazionalista”, l’Intifada è lo strumento per affermare la nostra esistenza, per smascherare la reale natura dello stato terroristico di Israele.
La gente durante la prima Intifada diceva che pur non avendo il pane, aveva l’orgoglio di affermare al mondo che eravamo ancora presenti, che potevamo lottare, che ci potevamo difendere.
Dopo l’inizio dell’Intifada buona parte degli operai palestinesi che andavano a lavorare in territorio israeliano ha preferito restare senza lavoro piuttosto che subire le continue umiliazioni ai posti di blocco israeliani, per poi essere sfruttato come uno schiavo da qualche padrone israeliano.
Una delle conquiste della prima Intifada è stata sicuramente il consolidamento di una solidarietà e di un riconscimento internazionale che però non abbiamo saputo sfruttare.
Invece che raccogliere i frutti della nostra lotta, ci siamo isolato attorno ad un tavolo di trattativa che ci ha rovinato.

Cos’è oggi l’Intifada?

Non voglio parlare qui dei singoli episodi che caratterizzano l’Intifada: la voglio semplicemente definire una manifestazione continua in cui tutto il popolo sente la voglia di ricominciare a sperare.
Già dall’inizio abbiamo capito che sarebbe stata una lotta dura, fatta di tanti sacrifici e di tante vittime, ma è l’unica strada attualmente percorribile per riuscire almeno a conservare quanto abbiamo conquistato in questi anni e che ci porterà a raggiungere una situazione migliore di quella che potremmo raggiungere con la prosecuzione degli accordi di Oslo o con l’esperienza dell’Autorità Palestinese.
All’inizio l’Intifada è nata come una reazione improvvisa.
Poi dopo è stata sostenuta da diverse organizzazioni, soprattutto dell’opposizione palestinese, sia dentro che fuori la Palestina.
All’inizio gli apparati dell’Autorità palestinese erano contrari a queste manifestazioni, cercavano di limitarle o di contenerle.
Dopo, per non perdere la piazza, loro stessi si sono collocati all’interno delle manifestazioni per non rimanere isolati.
Ma ovviamente il borghese palestinese che è tornato dalla Tunisia non è sceso per strada a tirare i sassi. Era contento invece che ci fosse qualcuno che difendeva lui e i suoi interessi, che gli consentisse di avere un rapporto economico anche con gli israeliani. Aveva la sua polizia, aveva un progetto da realizzare, e da buon imprenditore se ne frega di chi scende in piazza perché non ha niente da perdere.
Invece loro in questi sette anni avevano costruito un’Autorità, una struttura che ha avuto principalmente il compito di difenderli, di difendere i loro interessi.
Noi accettiamo, nonostante tutto, l’autorità di Arafat, ma vogliamo poter conservare i nostri diritti politici essenziali. Nessuno può permettersi di rappresentare l’intero popolo palestinese senza considerare cosa esprime quello stesso popolo, e nessuno, né Israele né Stati Uniti, può scegliere quale interlocutore privilegiare e quale colpire.
Noi crediamo profondamente nell’unità della lotta del popolo palestinese.
Solo l’unità può creare forza, la forza necessaria per ottenere l’autodeterminazione.
Noi vogliamo la pace, lottiamo per la pace, ma per una pace giusta, e una pace giusta non può essere raggiunta da un’unica frazione del Popolo.
Per questo, nonostante le differenze, vogliamo mantenere l’unità, vogliamo lottare uniti, integralisti e laici, di “destra” o di “sinistra”.
Non vogliamo la ricchezza, non vogliamo girare per Gaza in Limousine! Vogliamo che l’operaio palestinese, l’insegnante palestinese, la donna palestinese, il bambino palestinese, il rifugiato palestinese in ogni paese del mondo, abbiano un futuro migliore, uno stato, un’identità.
Questo è il nostro obiettivo politico.
La comunità europea voleva sostenere un progetto Marshall, un progetto politico imprenditoriale internazionale alle spalle dei popoli di quella zona. Ovviamente, però, qualunque imprenditore che investe i propri capitali cerca la stabilità politica e militare per sviluppare questi progetti.
Così loro vogliono che i palestinesi smettano di creare instabilità…
Ma di fronte abbiamo un nemico che usa il terrorismo per massacrare un popolo, per uccidere il sogno nella testa di un bambino, uccidere il sogno nella lacrima di una donna.
Non capiscono che è questo il vero scopo di Israele: cancellare la nostra voglia di lottare.
Non capiscono che non è l’umiliazione militare che ci può colpire: ormai siamo così “abituati” a resistere, a vedere le nostre case che crollano sotto i carri armati, a vedere i nostri bambini sotto la mira continua di un soldato.
Questo non ci potrà mai limitare, non potrà mai fermare il nostro cammino, la nostra Intifada, che è la unica via percorribile, che è l’unica via da sostenere, da difendere, da aiutare.

Sui media si parla solo di morti, come se si trattasse di uno scontro tra due eserciti. Spesso sembra ci si dimentichi che si sta parlando di un’occupazione e di una lotta di liberazione…

Ci sono diverse organizzazioni e diversi gruppi che lottano a fianco del popolo palestinese. Nessuno di questi ha un esercito paragonabile all’esercito israeliano che è il più addestrato e militarizzato del mondo. Un esercito non solo fatto di armi ma che dispone di una tecnologia avanzata che consente loro di arrivare a controllare e colpire le persone, i dirigenti, i militanti, in modo preciso e “intelligente”, come hanno fatto con il segretario del FPLP Abu Ali Mustafa, ucciso nel suo ufficio il 28 agosto 2001. Un ufficio in cui non era solito andare, dove, rispondendo al telefono, è stato centrato da due missili sparati da un elicottero. Abu Ali Mustafa è stato un dirigente giusto, laico, progressista, un simbolo della democrazia, con un progetto politico costruttivo rivolto all’intero popolo palestinese e al mondo arabo.
E come lui hanno eliminato dirigenti e militanti di altre organizzazioni, di Hamas, di Hezbollah, mentre erano nelle loro automobili, o mentre andavano in motocicletta, per strada.
Non possono essere paragonate le forze in campo.
Nonostante questo ci sono state delle risposte, delle azioni, anche molto dure.
Parliamo, per esempio, delle cosiddette “Operazioni Kamikaze”: è molto difficile spiegare il senso di queste azioni a chi non vive la nostra situazione. E anche se tanti di noi sono contrari a questo tipo di azioni e non le hanno fatte, specialmente nella sinistra laica palestinese, vanno rispettate e non possono essere interpretate semplicemente come degli episodi “disperati” perché è l’amore per la vita che può trascinare una persona a scegliere la morte. Non l’amore per una singola persona, per un individuo, ma l’amore per la vita di un intero Popolo.
Ci sono poi azioni che vengono definite kamikaze solo per creare confusione, come la recente azione fatta da due compagni contro un bar dove si trovano solo militari israeliani, vicino ad una caserma. Questi militanti non sono kamikaze, non si sono fatti esplodere in aria, ma sono stati colpiti durante l’azione, in uno scontro a fuoco.
E ci sono anche azioni molto significative, molto studiate, molto intelligenti.
L’azione contro il ministro Ze_evi, per esempio, ha fatto di certo tremare il sistema di sicurezza e l’intero stato israeliano.
Colpire un Ministro, un criminale come Ze_evi, uno dei generali responsabili di diversi massacri, uno di quelli che ha firmato la condanna di Abu Ali Mustafa, ha significato, secondo me, fargli capire di essere comunque presenti, che possono riuscire ad eliminare solo qualcuno, ma che nonostante questo è possibile crescere.
Noi abbiamo l’amore per la vita, per il sole, siamo molto profondi come una quercia e siamo sempre con la testa alta. Questo orgoglio è una forza che ti fa resistere e che ti fa continuare nonostante tutte le pressioni, psicologiche, economiche e militari.

Queste azioni dell’ala militare del FPLP rappresentano secondo te solo una risposta agli attacchi subiti o sono un cambio di linea rispetto agli ultimi anni?

Rispetto al colpo subito, alla perdita di un compagno come Abu Ali Mustafa, secondo tanti questa azione, questa reazione, è stata adatta ma non sufficiente. Io non penso che ci sia stato un cambiamento di linea politica del Fronte. Il Fronte, come organizzazione, dal 28 settembre è stato sempre presente in prima fila con i suoi uomini e le sue donne in ogni manifestazione del popolo palestinese. Ha perso dei martiri durante questa strada, ma continua comunque a perseguire la sua strategia di liberazione inventando e adattando le sue forme di lotta al momento, alle circostanze. L’azione contro Ze_evi è stata evidentemente un’azione studiata da tempo, non una reazione “improvvisata”; un’operazione studiata per diversi mesi, mossa dalla volontà di colpire uno dei responsabili della morte di Abu Ali Mustafa.
I servizi segreti hanno sicuramente tremato dopo questa azione, rendendosi conto che ha di fronte un’organizzazione che ha questa capacità organizzativa e operativa, capace di colpirli come mai erano stati colpiti prima d’ora.
Per questo loro sono così determinati a cercare e colpire i responsabili di questa azione.
Anche perché sanno che hanno di fronte dei militanti che agiscono non mossi da un “fanatismo”, religioso o meno, che li spinge a sacrificarsi, ma delle persone di un certo livello socio-culturale che perseguono una propria strategia politica e che non hanno compiuto un semplice attentato ma hanno messo a segno una vera e propria operazione di “intelligence”, l’eliminazione di un responsabile di tanti crimini.

L’impressione è in qusto ultimo periodo si sia voluto mettere Arafat (la sua componente politica) alle strette. Eppure la sua leadership sembrava “compatibile” con i progetti imperialisti nell’area. Come lo spieghi?

Innanzitutto va detto che Arafat non è stato isolato dagli israeliani, o isolato dagli altri gruppi palestinesi, o abbandonato dal mondo arabo.
La strada che sta seguendo Arafat, da Oslo ad oggi, scelta da lui e dal suo gruppo politico, è una strada che porta all’autoisolamento.
Se lui adesso si trova in una situazione di merda non è colpa nostra, o colpa soltanto del mondo arabo, o il risultato solamente di una scelta israeliana di isolarlo.
Lui invece di rafforzare la piazza, cercando di creare un’alleanza con gli altri gruppi (cosa che il Fronte ha sempre cercato di fare anche sopportando tanti dei suoi compromessi in nome dell’Unità nazionale), lui ha buttato tutto questo, tutti questi sacrifici, all’aria.
Se si trova isolato nel suo Quartier Generale non è colpa nostra. Io continuo a sostenerlo, ad aiutarlo, perché comunque a livello internazionale al momento è l’unico possibile interlocutore.
E comunque, secondo me, è pura illusione pensare che Israele e gli Stati Uniti vogliano realmente eliminare Arafat: lo vogliono indebolire, questo sì, perché comunque è cresciuto troppo, ma sarebbe troppo pericoloso per loro perdere un interlocutore e un alleato come lui.
Il vero problema è questo: se l’Europa e gli Stati Uniti non capiscono che un processo di pace sarà costruttivo, realistico e giusto solo quando allo stesso tavolo potranno sedersi i rappresentanti di tutto il popolo palestinese e non soltanto Arafat, e i rappresentanti dei Paesi arabi che abbiamo o meno riconosciuto Israele, ogni tentativo fatto sarà solo una semplice illusione, un’inutile perdita di tempo.
Io mi fido del popolo palestinese perché ha una voglia di vivere e di resistere da ammirare e per questo sono convinto che con l’Intifada riusciremo ad ottenere qualcosa, forse non la luna ma almeno un posto da cui guardarla.

Cosa si aspettano le organizzazioni politiche palestinesi dai movimenti occidentali? E cosa è possibile fare, secondo te?

Io mi sento di muovere delle critiche ai nostri compagni italiani ed europei.
Ho l’impressione che ci sia quasi un conflitto interiore quando si affronta la questione della causa Palestinese, come se la sinistra non fosse ancora riuscita a superare nella propria testa la storia tragica dell’olocausto dei nazisti (olocausto perpetrato peraltro non solo contro il popolo ebraico, ma contro tanti altri, come zingari, neri, comunisti, omosessuali).
Credo che la causa di questo sia principalmente una manipolazione politica fortissima, sostenuta dalle comunità ebraiche occidentali, che è entrata volontariamente anche nelle correnti della sinistra italiana ed europea, contribuendo alla valorizzazione delle sue componenti borghesi.
Come del resto esiste una influenza fortissima delle comunità ebraiche all’interno dei mezzi di informazione, nelle TV, nei media.
Questa è una cosa molto difficile da combattere. Io, ci tengo a precisarlo, non sono un antisemita, io sono laico, rispetto gli israeliani che riconoscono il diritto al ritorno dei palestinesi, i cosiddetti pacifisti, che sono pochi ma da rispettare.
Però la presenza di questa influenza per me è fortissima, una vera e propria spina nel fianco che limita le possibilità di una lotta politica, che spinge verso posizioni moderate e riformiste.
Io mi meraviglio di tanti compagni che dicono di voler sostenere la lotta del popolo palestinese, di essere contro il terrorismo di stato israeliano, ma sotto sotto, se vai a grattare un po’, ti dicono che il loro obiettivo è di aiutare quel bambino a non scendere per strada ed essere colpito dal soldato israeliano.
Ma che aiuto gli vuoi dare, che speranza gli vuoi dare a quel bambino, che obiettivo futuro gli vuoi dare?
Una pace che adesso non può essere una pace giusta, uguale per tutti non può dare altro che la morte a questo bambino. Anche se forse non una morte fisica, la morte dei sogni, del sogno di un’esistenza in un paese libero e democratico.
Alla fine resta solo un discorso pacifista demagogico, abortivo, che non potrà portarci fuori da questa agonia.
Io credo che oggi ci sia solo una considerazione da fare: chi oggi non è veramente con la lotta del popolo Palestinese, con quello che esprime e rappresenta, è sicuramente contro.




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