SENZA CENSURA N.12

NOVEMBRE 2003 

 

Strategia sionista in Palestina

Alcune note su controllo logistico, subordinazione economica, precarietà sociale in Palestina

 

Le attuali linee di tendenza delle politiche sioniste sono state tracciate nel corso dell’ultima fase della prima Intifada, per proseguire, nel corso degli anni ‘90, formalmente legittimate dall’ANP, con il processo di pace e poi subire una parziale incrinatura con lo scoppio della seconda Intifada nel settembre del 2000.

Nel corso di questo arco di tempo si colgono alcune tendenze proprie della politica israeliana precedente, che continuano il progetto sionista così come si è andato delineando prima e dopo il ’67: l’assoluto rifiuto al ritorno dei profughi palestinesi, l’aumento degli insediamenti colonici nei Territori Occupati, la “giudaizzazione” di Gerusalemme. Tutti e tre questi aspetti fanno parte della strategia demografica sionista. Il trasferimento forzato dei palestinesi fuori dai T.O. e la colonizzazione costituiscono degli elementi “invarianti” che possono solo avere differenti conseguenze tattiche, rispetto alle modalità e ai tempi d’attuazione, ma che non ne mutano la sostanza.

La mancata liberazione dei prigionieri e la negazione dello status di prigionieri di guerra ai palestinesi incarcerati è la prova più esplicita della volontà di continuazione del conflitto da parte sionista, mentre la determinazione nel non voler barattare il destino dei palestinesi imprigionati con una pace egemonica da parte sionista, testimoniano la propensione alla lotta unitaria di questo popolo. 

La marginalizzazione sociale e politica dei circa attuali 1.200.000 arabo-palestinesi presenti in Israele, in conseguenza della loro maturazione politica che li fa dipingere come la “Quinta Colonna” della resistenza palestinese in Israele, la subordinazione della riproduzione sociale di qualsiasi strato della popolazione nei confronti del volere dell’occupante - tranne le rimesse degli immigrati -, sono aspetti legati alla volontà di negazione di uno sviluppo autonomo della società palestinese a tutti i livelli. A meno di non voler considerare per sviluppo quello di una economia subordinata, di una popolazione asservita, di un proletariato inferiorizzato, di una burocrazia e di una polizia corrotta, compiacente e collaborativa, al servizio dell’occupante, tipica di ogni amministrazione coloniale. E’ proprio quest’ultimo, invece, il modello di sviluppo promosso negli accordi di Pace edificati sulla liquidazione e sulla carcerazione degli oppositori, sul depotenziamento della leadership interna emersa con l’Intifada, sul ristabilimento del sistema di relazioni sociali rivoluzionate dalla ribellione.

Gli accordi di pace tendevano a desertificare le relazioni sociali create dall’Intifada e ad annientare l’embrione di organizzazione sociale alternativa sviluppatosi nel corso dell’insurrezione.

Tale progetto si poggiava, tra l’altro, sul sistema di potere tradizionale, in parte esautorato nel corso della prima Intifada che aveva spezzato e distrutto la tradizionale rete delle clientele che legavano l’élite urbana palestinese alle comunità rurali, fondata sulla sudditanza della classe operaia palestinese e la subordinazione patriarcale della donna.

Questa “contro-società” non solo cercava di assicurare il soddisfacimento dei bisogni primari alla popolazione ma tentava di costruire un nuovo edificio sociale, frutto “maturo” di quel tessuto di relazioni che erano state create tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 attraverso la formazione di sindacati, comitati femminili, comitati di soccorso agricolo e medico, gruppi studenteschi e programmi di assistenza comunitaria.

Lo sforzo dei 100.000 “Tunisini” - il governo dell’ANP - rimpatriati da Israele, è stato quello di sostituire, isolare o cooptare i quadri emersi dalla prima Intifada, mediante uno stretto controllo dei fondi destinati ai singoli progetti ed imponendo la propria asfittica struttura burocratica proto-statale alla vivificante esperienza di ricchezza sociale maturata all’interno della rivolta, con i metodi tipici di una organizzazione “che si fa Stato”.

Nel corso della rivolta, il movimento reale aveva esercitato una pressione costante sulla dirigenza “esterna”. Con il suo esaurirsi, insieme al cambiamento dello scenario a livello locale ed internazionale, si assiste all’abbandono dello spazio politico che viene occupato da trattative al ribasso, mediate dagli USA, in cambio della concessione di garanzie di sopravvivenza politica alla dirigenza “esterna”, ripescata da Israele, in pieno accordo con i paesi della Lega Araba, quale fattore fondamentale di pacificazione sociale nei confronti dell’insorgere di una autonomia sociale incontrollabile.

La ricchezza sociale dell’insurrezione palestinese e il suo embrione di indipendenza politica, erano un fattore destabilizzante per gli equilibri interni dei paesi arabi, preoccupati dell’accelerazioni soggettive del proletariato nell’area. 

Per comprendere dei la situazione dei TO, bisogna avere ben chiaro che il territorio conquistato da Israele nel ’67, nonostante la nuova ondata di profughi, mette in crisi lo stesso progetto sionista, coronato dopo la seconda guerra mondiale e consolidato nel corso degli anni ’50, fondato sull’equilibrio interno tra “unicità del popolo” e “unicità della terra”.

Gli orientamenti delle formazioni politiche israeliane tendono a cambiare a seconda della priorità data all’uno o all’altro principio: coesione sociale “interna”, assicurata da un compromesso sociale avanzato e da una economia prosperosa e propensione alla conquista “esterna”, assicurata dalla penetrazione coloniale, dalla logistica dell’occupazione e dall’efficienza militare. Nonostante ciò, lo sradicamento del fellah dalla sua terra e lo sradicamento della popolazione dal suo luogo d’origine unita alla colonizzazione israeliana rappresentano la sostanza comune della politica dei differenti schieramenti sionisti e costituiscono le basi materiali della distruzione dell’economia palestinese e del relativo processo di proletarizzazione nei TO successivo al ’67.

Da allora,  l’economia palestinese è una articolazione dell’indotto produttivo israeliano costituente l’ultimo anello della catena dei sub-appalti del settore manifatturiero, come nel caso dell’industria tessile, delle confezioni e delle aziende di calzature, in cui spesso le aziende appaltatrici israeliane fungono soltanto da intermediari dei marchi stranieri come Pierre cardin, C & A, Manhattan.

Nel ’69, a Gaza, metà della forza-lavoro industriale già lavorava in questo indotto.

La forza lavoro emigrata, che da allora cominciò a spostarsi quotidianamente verso Israele, veniva invece impiegata nel settore edile, nell’agricoltura - di cui l’ortocultura e la coltivazione di nuovi prodotti tropicali aveva sempre più preso piede - nella ristorazione e nell’industria turistica.

Questa tendenza alla trasformazione dei proletari palestinesi in lavoratori salariati, occupati direttamente o indirettamente nell’impreditoria israeliana, è stata operante fino alla prima Intifada e ai primi contraccolpi dell’internazionalizzazione capitalistica nell’economia sionista, ciò anche a causa della condizione di subordinazione complessiva dei lavoratori - ai quali era negato il diritto ad organizzarsi sindacalmente - e della bassa incidenza del costo del lavoro della manodopera.

Nel ’87 sul totale di 320.000 proletari palestinesi, 120.000 lavoravano in Israele; questa porzione si è notevolmente abbassata nel corso della Prima Intifada (‘87-’93) fino alla metà degli anni novanta, periodo in cui si è invertito in positivo il trend occupazionale. All’inizio della seconda intifada, nel primo trimestre del 2002, solo poco più di 10.000 si spostavano in Israele, con le palesi conseguenze di pauperizzazione. 

Nel ’98, venivano garantite ai palestinesi meno di 100-120 giornate di lavoro all’anno. Si tratta cioè dell’occupazione precaria di 45.000 lavoratori su una forza lavoro complessiva di 450.000 unità: da più di un terzo degli occupati si è passati a meno di un decimo, porzione che, come abbiamo visto, si è notevolmente abbassata durante questi ultimi tre anni.

 I TO assomigliano sempre più alla periferia di una metropoli capitalista avanzata, con un centro, Tel Aviv, che funge da polo di attrazione dei flussi di forza lavoro, che seleziona i pendolari secondo le sue necessità e li mette in competizione con altri “dannati della Terra” catturati nel sempre più ampio bacino dell’esercito industriale di riserva, e una dilatazione e stratificazione a cerchi concentrici della sua periferia, che va dalle zone abitate dai palestinesi all’interno di Israele, alla Cisgiordania, fino alla striscia di Gaza, la zona più densamente popolata e dove regna la più grande insicurezza sociale.

La possibilità di confinamento, cioè l’impossibilità di movimento, che comprende coprifuochi e spostamenti interni ai Territori e tra questi e Israele, attuata per la prima volta nel marzo del 1993, è permessa da una infrastruttura logistica creata dall’occupante. Una geografia del controllo a maglie strette, in continuo movimento - estensione e intensificazione - che riunisce due precisi principi geo-strategici: le zone-tampone di sicurezza (Piano Allon del 1967) e la separazione demografica (Piano Seven Stars di Sharon del 1991) ma che evolve appunto da un controllo del territorio verso il controllo dei flussi dalla palestina.

Se durante il primo periodo dell’Intifada era obbligatorio, per i lavoratori palestinesi, richiedere una tessera magnetica alle autorità israeliane, dal gennaio del ’91 Israele ha cominciato a revocare il permesso generale di uscita agli abitanti di Gaza e Cisgiordania e ha cominciato a sanzionare gli imprenditori israeliani che non registravano i propri dipendenti arabi.

Soltanto nel marzo del ’93 il confinamento è stato imposto, per la prima volta, come misura amministrativa di carattere permanente. Nello stesso tempo, si è fatto sempre più difficile l’ottenimento di un permesso: nel 1998 solo gli uomini e le donne sposate sopra i ventitré anni potevano ottenerlo anche se, in realtà, è stato rilasciato a una parte molto esigua della popolazione. Da misura emergenziale, per impedire gli attacchi palestinesi in Israele, è divenuta parte integrante dell’amministrazione dell’occupante.

L’impossibilità della circolazione di uomini e merci dilata i tempi di circolazione e aumenta i costi di produzione, rendendo preferibile agli Israeliani, come agli altri investitori, il trasferimento delle unità produttive nei paesi vicini, come la Giordania o l’Egitto, e rende poco appetibile lo sfruttamento della forza lavoro palestinese che, in Israele, è sempre più marginalizzata e sostituita da una forza-lavoro multinazionale più docile e meno cara.

La pratica del subappalto industriale crea ben poche opportunità di impiego per i palestinesi poiché, da un lato, trasferisce tecnologia solo a basso livello e, dall’altro, li fa dipendere da metodi produttivi ad alta intensità di lavoro, cosicché il valore aggiunto al prodotto si attesta su livelli bassissimi, non permettendo certo uno sviluppo autonomo dei TO.

La forza-lavoro qualificata, medici, ingegneri, avvocati, intellettuali, ecc, non ha sbocco occupazionale, a causa delle barriere etniche del mercato del lavoro israeliano, e quindi non può che emigrare.

Israele ha invaso con le sue merci il mercato palestinese, contribuendo alla distruzione del tessuto artigianale locale, così come storicamente ha fatto qualsiasi potenza prima coloniale. Nega a priori ogni rapporto commerciale con qualsiasi paese che non ne abbia con esso, impedendo, inoltre, ogni sbocco ai “mercati naturali” in cui si potrebbero riversare i prodotti palestinesi come Giordania ed Egitto, che coprono una percentuale irrisoria delle sue esportazioni.

In generale, tutto il commercio palestinese è mediato da Israele, con un sistema di quote che riguarda sessanta categorie tariffarie, per il commercio con il mondo arabo, soggette a restrizioni e una generale imposizione delle quote di esportazione, in specie quelle dei prodotti agricoli verso Israele, che permette l’esportazione solo di prodotti che subiscono una forte concorrenza esercitata dagli omologhi prodotti israeliani.

Senza una continuità territoriale, una rete infrastrutturale adeguata e una gamma di relazioni commerciali, ogni ipotesi di sviluppo dei TO è solo una mossa propagandistica che cerca di legittimare il processo di pacificazione sociale, ignora la realtà della concorrenza tra due borghesie con un rapporto di forza del tutto favorevole a quella israeliana.

Questo ipotetico sviluppo non potrebbe darsi se non attraverso la sponda politica e un aiuto economico dati da un polo imperialista come quello euro-mediterraneo, che ha una sua strategia di penetrazione, e di un suo possibile alleato d’area, come la coalizione delle borghesie dell’area arabo-mediterranea.

D’altro canto non ci può essere sviluppo economico in una fase recessiva come quell’attuale, e i capitali invece che scegliere la strada degli investimenti produttivi, preferiscono il percorso del complesso militar-industriale e della speculazione finanziaria.



http://www.senzacensura.org/