SENZA CENSURA N.12

NOVEMBRE 2003 

 

Nascita e sviluppo del sionismo all’interno della Questione Ebraica

 

«In realtà l’ideologia sionista, come tutte le ideologie non è che il riflesso distorto degli interessi di una classe, l’ideologia della piccola-borghesia ebrea che soffoca fra le rovine del feudalesimo e il capitalismo in declino. La confutazione delle fantasie ideologiche del sionismo naturalmente non confuta i bisogni generali che le hanno generate»

- Abram Lèon, Il marxismo e la questione ebraica (1)

 

La sconfitta dei moti rivoluzionari dell’impero zarista nel 1905 e il proseguimento della campagna anti-semita e dei pogroms anti-ebraici segnano un punto di svolta nella cultura ebraica radicale dell’epoca, radicata nell’est su una vivace tradizione culturale, linguistica e musicale e avviano un processo di degenerazione all’interno della comunità ebraica, coevo all’opportunismo dei partiti socialisti e delle organizzazioni sindacali del movimento operaio internazionale, che porterà al rapido dissanguamento del Bund (2) e al dialogo sempre più serrato con il sionismo, fino ad allora, nonostante la vivacità del dibattito interno sulla risoluzione della questione ebraica, dichiaratamente trattato come un movimento piccolo-borghese.

È interessante citare la risoluzione adottata nel 1901 al IV congresso del Bund, relativa al sionismo: «Il congresso considera il sionismo come la reazione delle classi borghesi all’antisemitismo e alla posizione giuridica anormale del popolo ebraico. Il Congresso considera il fine ultimo del sionismo, l’ottenere una terra per il popolo ebraico, qualcosa di scarsa importanza e che non risolve la “questione ebraica”, se soltanto una piccola parte del popolo ebraico può essere sistemata su quella terra. Nella misura in cui il sionismo intende stanziare su quella terra tutto il popolo ebraico o una gran parte di esso, il Congresso considera ciò come una illusione e una utopia. Il Congresso ritiene che la propaganda sionista intensifichi i sentimenti nazionali del popolo e che possa nuocere allo sviluppo della coscienza di classe» portandolo, come viene citato nelle altre risoluzioni, «allo sciovinismo» (3).

Alcuni di quegli stessi militanti che erano stati espressione della nascita del movimento socialista all’Est emigreranno in Palestina, costituendo il secondo nucleo delle colonie ebraiche che, per la propria pratica razzistica, entreranno subito in contrasto con la popolazione locale, mentre gli sparuti insediamenti precedenti, di cui il primo è quello di Patah Tiqwa nel 1878, che oggi è una municipalità fagocitata dall’area metropolitana di Tel Aviv, non avevano sostanzialmente modificato il secolare equilibrio tra popolazione e terra.

Le stime sulla presenza ebraica nelle campagne in Palestina prima della Grande Guerra, cioè di quella parte di convinti sionisti che si vennero a trovare in più stretto contatto con la maggioranza della popolazione araba, indicano un numero compreso tra 10.000-12.000 unità, concentrate in quaranta colonie agricole fondate a partire dal 1878.

Le terre contese tra la popolazione autoctona e i coloni cominciavano ad avere una certa appetibilità per il loro accresciuto valore, con una sufficiente quantità di investimenti, la Palestina si rivelò una zona ideale per la coltivazione degli agrumi destinati all’esportazione, resa possibile dalla veloce navigazione a vapore e dalla crescente incorporazione della Palestina e di altre zone litoranee del Mediterraneo orientale nell’economia mondiale.

I vettori dell’insediamento ebraico furono le agenzie sioniste di compravendita e di colonizzazione, che incominciarono la loro attività già all’inizio del XX secolo, come la Jewish Colonization Association (JCA) fondata nel 1901 o il Jewish National Fund (JNF), fondata sempre lo stesso anno per decisione del Congresso sionista e che aprì il suo primo ufficio a Jaffa nel 1907. La sua agenzia locale, la Palestine Land Developement Corporation (PLDC), creata nel 1909, aveva lo scopo di centralizzare e coordinare in Palestina l’acquisto delle terre da parte egli ebrei.

Un secondo aspetto della colonizzazione ebraica è lo spirito miliziano e pionieristico dei coloni della seconda aliya, forgiati da una più decisa volontà di impugnare le armi in difesa delle terre da poco acquistate, che si traduceva in un atteggiamento più aggressivo nei confronti degli arabi, si inizia perciò a delineare la relazione di implicazione reciproca nel progetto sionista tra necessità di espansione e consolidamento territoriale e la necessità di trasferimento forzato del popolo palestinese.

Nel mentre la propaganda sionista diffondeva una immagine della Palestina come una terra spopolata e solo scarsamente coltivata, esemplificata dallo slogan di T.Herzl: «una terra senza popolo per un popolo senza terra», la realtà per i suoi attori in loco era ben diversa, come ha scritto Arthur Ruppin, il maggiore esperto di problemi agrari dell’Agenzia Ebraica: «la terra è la cosa più necessaria per mettere radici in Palestina. Poiché non vi sono più terre arabili disabitate in Palestina, ogniqualvolta compriamo della terra siamo costretti a rimuovere i contadini che l’hanno coltivata fino a quel momento, siano essi proprietari terrieri o affittuari».

La creazione della prima organizzazione para-militare pubblica ebraica, Ha-Shomer (Il Guardiano) avviene nell’Aprile 1909, per opera di una precedente società segreta ebraica, la funzione di questa formazione è quella di sorvegliare i campi dei nuovi insediamenti in Galilea, dopo che i coloni ebbero ricevuto dalle autorità ottomane il permesso di armarsi.

Furono i sionisti della seconda ondata che entrarono in conflitto con l’immigrazione ebraica precedente che usava mano d’opera araba a basso costo.

Fedeli ai principi della “conquista della terra” e della “conquista del lavoro” vollero scacciare la forza lavoro autoctona,  facendo per esempio picchettare dal sindacato ebraico, l’Histadrut, uno dei futuri maggiori datori di lavoro dell’entità sionista, le aziende che usavano lavoratori arabi e per incentivare l’assunzione di forza-lavoro ebraica, usarono i fondi del JNF per pagare la differenza di salario ai lavoratori ebraici.

Già negli anni venti questo sindacato, legato alle cooperative di produzione e di consumo, organizzava buona parte della forza lavoro ebraica ed era il secondo datore di lavoro dopo il governo britannico, cominciando a sviluppare l’embrione di stato che si occupava dell’educazione, dell’immigrazione, come della politica economica e culturale, tra le sue file nacque l’Hanagah futura spina dorsale dell’esercito sionista. 

Il ruolo di crumiraggio esercitato dal sindacato ebraico in combutta con l’amministrazione britannica contro i lavoratori arabi durante la grande Ribellione del ’36-’39, consolida la sua funzione strategica per l’impresa sionista e connota il sionismo operaio in senso intrinsecamente razzista, corporativo e oggettivamente filo-imperialista.

Bisogna ricordare il ruolo dell’esperta regia britannica nell’impedire a priori qualsiasi fraternizzazione tra le classi meno agiate delle due popolazioni e contribuendo alla contrapposizione frontale di queste incanalando ogni spinta verso un progetto nazionalistico tout court, secondo l’assioma proprio di ogni amministrazione coloniale divide et impera.

«Gli ebrei finiscono con l’anteporre la creazione dello Stato, controllato e voluto eminentemente dai ricchi borghesi, a qualsiasi altro programma di effettiva rigenerazione culturale e sociale. Analogamente i capi arabi finiranno, sia pure in modo tortuoso, con l’imporre alle masse una generica, anche se esasperata antipatia per l’esperimento ebraico, antipatia che porterà in larga misura a disattendere alle esigenze di emancipazione politica e all’organizzazione di partiti e di altri strumenti adeguati ad adempirle» (4)

La formazione dell’ideologia sionista e la sua progressiva forza di persuasione tra i ceti piccolo-borghesi ebraici (commercianti e professionisti) in via di proletarizzazione e tra le file degli operai-artigiani in declino, come fra la fascia di disoccupazione intellettuale che vedeva precluso ogni sbocco professionale, avviene durante il periodo di inasprimento della Questione Ebraica nell’Europa occidentale e orientale, nella seconda metà degli anni settanta dell’ottocento, subendo delle accelerazioni con la crisi del 1914 prima e del 1929 poi.

Cresce l’interesse per la sua risoluzione definitiva da parte delle singole borghesie nazionali, tra cui quella “ebraica” assimilata, esponente di spicco della finanza internazionale, in stretta alleanza con le classi medie “autoctone”, nello scenario di una crisi economica, foriera sul fronte interno, di una accelerata polarizzazione sociale e, su quello esterno, della spartizione imperialistica del mondo che estendeva ed intensificava il dominio e sfruttamento sui popoli coloniali e le loro risorse.

Come venne giustamente scritto: «La piccola borghesia ha “inventato” l’antisemitismo. Non tanto, come dicono i metafisici, per spiegare le disgrazie che la colpivano, quanto, invece, per sottrarvisi col concentrarle su uno dei suoi gruppi… L’antisemitismo non proviene da un “piano machiavellico” più di quanto provenga da “idee perverse”: esso risulta in maniera diretta dalla costrizione economica» (5), aggiungiamo noi, che il brodo di coltura in cui nasce e si sviluppa è quel concentrato insalubre di menzogne, meschinità e vigliaccherie intellettuali che sono patrimonio storico delle piccole classi di mezzo.

La soluzione adottata nella Russia post-rivoluzionaria alla questione ebraica insieme agli elementi migliori della detta comunità rappresentava un esempio in negativo per il sionismo, uno spauracchio bello e buono che la propaganda imperialista da allora si è ben guardata dal ricordare, così come lo sforzo degli elementi sinceramente rivoluzionari e internazionalisti provenienti dalle file della Diaspora.

«L’esempio dell’URSS dimostra che, anche dopo la rivoluzione proletaria, la struttura particolare del Giudaismo, retaggio della storia, porrà una serie di difficoltà, particolarmente durante il periodo di transizione. Nel periodo della NEP, ad esempio, gli Ebrei della Russia, utilizzando la loro tradizionale capacità nel campo degli affari, hanno fornito numerosi quadri alla nuova classe borghese.

Inoltre la gran massa dei piccoli commercianti e piccoli artigiani ebrei hanno sofferto molto all’inizio della dittatura del proletariato. Solo più tardi, con il successo del primo piano quinquennale, gli ebrei sono penetrati in massa nella vita economica sovietica. Malgrado certe difficoltà, l’esperimento è stato decisivo: centinaia di migliaia di ebrei sono diventati operai e contadini. Il fatto che gli impiegati e i funzionari costituivano una percentuale considerevole degli Ebrei salariati non deve essere considerato un indice inquietatane. Il socialismo non è affatto interessato a che tutti gli ebrei debbano svolgere lavori manuali. Al contrario, le facoltà intellettuali degli ebrei debbono essere utilizzate al massimo». (6)

La loro integrazione alla costruzione del socialismo, li portava all’assimilazione graduale all’interno di una reale autonomia culturale nei loro territori di maggiore concentrazione, anche in un paese sostanzialmente arretrato come la Russia e all’esaurirsi del tradizionale spirito anti-semita gran-russo. 

Mentre ai sionisti in Europa interessava, alimentando il mito sociale di una nuova “terra promessa” alternativo alla lotta in loco, tessere relazioni con il personale politico e diplomatico delle potenze imperialiste per avere, almeno agli albori del movimento, un pezzo di terra qualsiasi da colonizzare, colmando la propria frustrazione causata da un peggioramento delle proprie condizioni di vita e da un pesante clima di pressione anti-semita, e divenendo essi stessi pionieri di uno stato che avrebbe costituito il centro di attrazione naturale per l’immigrazione ebraica; alle classi dirigenti interessava trovare una valvola di sfogo per l’immigrazione di una parte di popolazione ritenuta “di troppo” agli occhi di un fondamentale bacino di consenso quale era la piccola e media borghesia autoctona, e impedirne una politicizzazione che avrebbe minato ulteriormente la pace sociale soprattutto nei paesi imperialistici.

Solo al congresso sionista del 1897, Theodor Herzl, teorico sionista di spicco, fece adottare l’idea della creazione di uno stato sionista in Palestina.

Solo con la dichiarazione di Balfour, ministro degli Esteri inglese, del 2 novembre 1917, strappata dal barone Edward Rothschild, secondo la quale «il governo di Sua Maestà vede con favore la nascita in Palestina di un focolare nazionale del popolo ebraico, e farà ogni sforzo per facilitare il conseguimento di questo obbiettivo, fermo restando che non sarà presa nessuna iniziativa che possa nuocere ai diritti civili e religiosi delle esistenti comunità non ebree della Palestina», il progetto sionista in Palestina ebbe l’avvallo dell’imperialismo.

Sarà la rivolta iniziata nel ’36 e durata fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, in cui l’amministrazione inglese e i sionisti cooperarono attivamente per la sua repressione, che suggellerà questa sodalizio, inaugurato proprio sotto il protettorato britannico successivo alla Prima Guerra Mondiale e formalmente deciso dalla Società delle Nazioni nel luglio del 1922. 

Come scrisse nell’estate del ‘42 un militante marxista di origine ebraica che aveva militato, per poi rompere, nelle file del movimento sionista: «malgrado le sue pretensioni nazionali, il sionismo non culminerà in una rinascita nazionale, ma al massimo nella nascita dello stato».

Ripercorrendo le tappe della colonizzazione sionista delle origini, quella cioè precedente al mandato britannico, bisogna mettere anche in luce le linee di tendenza che hanno caratterizzato questo processo in un rapporto di continuità con le evoluzioni successive della lotta palestinese, in primis da parte arabo-palestinese una nascente insofferenza che si è concretizzata in attacchi mirati ai coloni quando questi erano gli artefici dello spossesamento e dell’allontanamento dalla terra dei fellahin ed in una pubblica denuncia del pericolo sionista da parte delle èlite palestinesi cittadine più lungimiranti, cercando di costruire il senso di un destino comune fra città e campagna, fra il cittadino e il fellah.

 

Note:

 

1) Abram Lèon, Il Marxismo e la questione ebraica, Reprint Giovanetalpa, 2001

2) L’attività dei circoli socialisti ebraici ha inizio negli anni ’70 e ’80 del 1800. Il Bund, cioè la lega generale dei lavoratori ebrei di Lituania, Polonia e Russia nacque a Vilna nel 1897 per collegare vari gruppi di lavoratori ebrei nell’impero zarista, nel suo congresso inaugurale fu deciso che «il Bund accoglie tutto il proletariato militante ebraico ed apre le porte ad ogni lavoratore che si unisca alla lotta del proletariato per una vita migliore. Tutti coloro che vogliono questa lotta, o che ne vedono la necessità, si uniranno al Bund e ne saranno membri a pari titolo e con pieni diritti». Le accese discussioni sulla questione ebraica all’interno del Bund lo portarono a sostenere il punto di vista degli austro-amrxisti per la soluzione della lotta tra le diverse componenti nazionali della monarchia austro-ungarica: l’autonomia nazionale e culturale, verrà adottata nel VI congresso del 1903.  È stata, per un breve periodo, parte del Partito Social Democratico Russo, per poi distaccarsene, arrivando ad annoverare tra le sue fila, nel 1903, 40.000 aderenti e organizzando insieme ad altri socialisti non ebrei, l’autodifesa dagli attacchi perpetrati durante i pogroms. Con la restaurazione successiva ai moti del 1905, i membri del Bund, che divennero sempre più nazionalisti, si ridussero a 500 circa. 

3) Peretz Merhav, Storia del movimento operaio in Israele 1905-1970, La Nuova Italia, 1974

4) Guido Valabrega, La rivoluzione araba, dall’Oglio editore, Varese, 1967..

5) Auschwitz ovvero il Grande Alibi, «Programma comunista», 1960, n° 11

6) Abram Lèon, op.cit.



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