SENZA CENSURA N.13

FEBBRAIO 2004

 

Proletari, se voi sapeste!

Interessi della borghesia italiana in Iraq: gli ambigui silenzi e i tentennamenti della sinistra “nostrana”.

 

La sinistra nostrana e in particolare i suoi organi di informazione, comprese le sue articolazioni nella “destra” di movimento, sta osservando un curioso silenzio e una misteriosa indifferenza nei confronti degli interessi della borghesia imperialista italiana in Iraq.
Lo stesso imbarazzante silenzio lo si riscontra rispetto al tentativo di dare un giudizio, che non sia sommario e liquidatorio, e di prendere una posizione conseguente sulla resistenza irachena.
A priori sta comunque l’incapacità di attaccare la rappresentazione che viene proposta e propagandata dal punto di vista ufficiale degli occupanti che considerano la resistenza contemporaneamente il colpo di coda del vecchio regime e l’opera di un agente patogeno esterno, in ogni caso un prodotto a metà tra le forze residuali di uno “stato canaglia” e del “terrorismo internazionale”.
Questo approccio agli interessi materiali che partono qua e si configurano sull’altra sponda del mediterraneo, non è riservato solo agli strumenti di penetrazione economica generalmente graziati dallo spirito critico della sinistra inteligentia quali le ONG e le varie organizzazioni mondiali legate all’ONU, ma anche ai gruppi con una strategia di sviluppo internazionale e alle piccole e medie imprese con una forte vocazione alle esportazioni e con interessi che travalicano ipso facto gli angusti confini nazionali: stiamo parlando cioè della componente più vivace e aggressiva del tessuto imprenditoriale italiano che necessita di una politica militare attiva dovunque voglia allungare i propri tentacoli.
Lo stesso si può dire per gli strumenti governativi e legislativi, quelli finanziari, i vari istituti economico-commerciali, i soggetti di intelligence, ricerca e progettazione, impegnati nell’impresa neo-coloniale che, sotto il profilo delle operazioni militari, ha un nome “Missione Antica Babilonia”, che richiama esplicitamente i rigurgiti di splendore imperiale romano riesumati dal ventennio fascista.
Per non parlare poi dell’aspetto propriamente militare della missione, che gode comunque di un maggior grado di “decretazione” per ragioni obiettive, ma che può essere comunque compreso per linee generali con una lettura attenta della stampa specialistica e un monitoraggio oculato delle informazioni ricavabili dalla rete o dedotto dagli studi precedenti sul mutamento progressivo della struttura e della funzione dell’esercito italiano.
L’impegno italiano, non può essere compreso, se non si analizza quindi l’intreccio dei differenti sforzi sul piano imperialistico, dai mass-media vettori principali del tentativo di costruzione di una mobilitazione reazionaria di massa giunta al culmine a metà novembre dopo l’attacco ai Carabinieri a Nassiryia, fino ai vari organismi di sviluppo economico (ICE, SACE, Camere di Commercio, Confindustria), dai mezzi e dalle risorse propriamente militari fino a quelli di stampo più “umanitario”, quali quelli messi in campo per il ripristino delle strutture ospedaliere, delle reti infrastrutturali, della distribuzione alimentare, fino alla tutela (leggi accaparramento) del patrimonio artistico.
La commissione d’affari della BI italiana è da tempo al lavoro, così come il suo cervello collettivo, per raggiungere livelli di operatività ancora maggiori rispetto alle precedenti esperienze “imperiali”: Somalia, Balcani, Afghanistan, o di quelle in cui la simbiosi mortale tra sviluppo di reti infrastrutturali, business petrolifero e militarizzazione del territorio prende piede ai danni delle popolazioni locali e a beneficio dei pescecani nostrani e dei loro lacché, come nel caso, fuori dal nostro specifico campo d’indagine, di alcune zone dell’America latina e dell’Asia.
Se per alcune forze riguardo a questo silenzio sull’intero italian war business congiunto al clima di smobilitazione generale per ciò che riguarda l’opposizione alla guerra e il mancato sostegno, anche solo sul piano della legittimità, della resistenza irachena si può parlare di complicità con il progetto neo-coloniale, di cui il segno più tangibile e la traduzione politica immediata è la mancata opposizione all’ipotesi di ritiro delle truppe italiane dall’Iraq, per l’ala sinistra del riformismo costituisce il prodromo per uscire nuovamente con le ossa rotte dal confronto con la natura imperialistica dello stato e per assumere in toto l’universo di riferimento a valori della globalizzazione, proprio quando questa viene praticamente messa in discussione da un lotta popolare come quella irachena.
La guerra e i movimenti contro la guerra, o meglio l’imperialismo e le sue conseguenze, hanno sempre rappresentato uno scoglio per le social-democrazie europee e un banco di prova per la capacità di tenuta e di sviluppo, o di arretramento, non solo teorica, ma pratica, per l’ipotesi internazionalista, che nell’attuale fase di guerra permanente assume connotati ancora più qualificanti e strutturali.
La finta riflessione su violenza o non violenza cara al Gotha del PRC e parallelamente sulla legittimità e natura della resistenza, è l’ennesima manifestazione della volontà di tirare i remi in barca, anche rispetto alla propria auto-rappresentazione di traghettatori del conflitto sociale lungo i pacifici lidi delle compatibilità decise a priori dal blocco sociale dominante.
Se gli uni, con al centro i DS, si candidano a essere futuri rappresentati dei signori della guerra come fu con la guerra nei Balcani, gli altri, i loro critici ma fedeli alleati di sinistra, avallando la campagna internazionale contro il terrorismo, legittimano sul fronte interno l’attacco allo sviluppo anche embrionale dell’autonomia proletaria; e sul fronte esterno, la guerra e la delegittimazione politica contro i focolai di resistenza.
Coloro che hanno trovato possibilità di interlocuzione e di collaborazione politica con la “sinistra imperialista”, anche nelle sue componenti più radicali, o l’hanno vista come riferimento, risultano schiacciati da un repressione che da Genova 2001 e dall’11 settembre in poi li vede sempre più direttamente interessati in ogni ambito del sociale (mondo del lavoro, questione abitativa, mondo della formazione, attività internazionalista, ecc.) e contemporaneamente impossibilitati ad avere una qualche apertura e sostegno di rilievo sulla resistenza internazionale alla globalizzazione, che non sia solo opportunista, mediatica e di facciata.
Quindi, visto il quasi totale silenzio da parte della sinistra nostrana sugli interessi Italiani in Iraq e il quadro in cui vanno inseriti, questo contributo oltre ad avere un valore d’uso intrinseco per la ripresa e la qualificazione del movimento contro la guerra, ci sembra doveroso in quanto militanti internazionalisti che fanno i conti sia con il polo imperialista più forte, che con il proprio “nemico” interno: la borghesia imperialista made in Italy.

La posta in gioco in Iraq
La penetrazione economica dell’imperialismo in Iraq va inquadrata contemporaneamente all’interno dell’intreccio di tre processi coevi che determinano schieramenti e geometrie politiche variabili dell’area euro-atlantica anche a seconda dei rapporti di forza strappati sul campo di battaglia.
Una delle variabili cardine è la concorrenza capitalistica tra differenti poli o aspiranti tali (USA, UE, Russia, Cina, India) nella ridefinizione della catena imperialista del mondo multipolare, con il polo più forte, quello statunitense che cerca di imporre manu militari la propria egemonia, tentando di lasciare fuori i suoi diretti concorrenti - come ha cercato di fare con gli appalti sulla ricostruzione – e di facilitare gli interessi degli alleati della coalizione.
Questa guerra la si fa in una area del globo che, per svariate ragioni risulta strategica: dal controllo delle risorse petrolifere e delle sue vie di trasporto al controllo dei flussi di valore determinati dalla rendita del greggio, dalle lucrose possibilità date dalla privatizzazione di ogni settore dell’economia irachena a fini di investimento come di speculazione finanziaria vera e propria, dal posizionamento in una area geo-strategica crocevia tra tre continenti all’estensione della propria egemonia politica post-bipolare nell’area che per gli Stati Uniti si regge contemporaneamente sulla convergenza strategica degli interessi sionisti, sulle alleanze con la maggioranza dei regimi arabi ad essa subordinati - tranne quelli facente parte dell’ ”Asse del Male” -, come sull’occupazione militare vera e propria.
La mancata pacificazione dell’Iraq, la non-risoluzione della questione palestinese e i possibili e latenti sommovimenti sociali nei paesi alleati statunitensi nell’area sono il vero spauracchio degli USA nell’area e dei suoi gendarmi e sudditi, in primis Israele, così come dei regimi arabi filo-USA, che vedono minate le loro capacità di governare le contraddizioni sociali e di arrestare le accelerazioni soggettive del proletariato nella spinta alla regionalizzazione del conflitto.
Nell’allargarsi della forbice tra interessi delle BI in una area e necessità di riproduzione delle classi subalterne locali, cioè sull’inasprimento dell’antagonismo sociale tra imperialismo di qualsiasi matrice e popolazione locale, compresa la residuale borghesia autoctona non-collaborazionista e le classi di mezzo proletarizzate, prende forma la resistenza che costituisce l’ostacolo principale alle agende delle varie borghesie.
Un processo di polarizzazione sociale, determinato dal più che decennale conflitto e, infine, dall’invasione militare vera e propria, ha generato una polarizzazione politica di cui la resistenza, in ogni sua forma e manifestazione, è il principale vettore: questo non è una caratteristica ascrivibile solo al contesto iracheno, ma estendibile a tutto il mondo arabo. Questa tendenza è foriera di un antagonismo in gestazione dalla facile accelerazione e dalla difficile governabilità e di una lotta popolare dai caratteri anti-imperialistici evidenti che incalza le strategie di dominazione neo-coloniale e trasforma le leve su cui voleva fare perno la gestione dell’occupazione in suoi punti deboli: così come è stata pianificata l’invasione e l’occupazione da più dieci anni a questa parte, così probabilmente è stata preparata la resistenza, o almeno è stata incubata nelle sue condizioni di sviluppo.
Si può sovrapporre la griglia delle strategie dell’ “aggressore” con i bersagli sensibili della resistenza irachena e si deduce l’intelligenza politica che sta a monte delle azioni, oppure basarsi sulla fenomenologia degli attacchi e intuire il ruolo delle figure e delle strutture colpite: cambiano i punti di vista, ma non il risultato di completa sovrapposizione del confronto. L’emergere di un interessante punto di vista soggettivo dei vari attori della resistenza irachena, e la sua indiscriminata classificazione come “terrorista” da parte di quell’arma attiva che è il lessico imperialista nella gogna mediatica, completano il quadro di riferimento di questa contraddizione principale1.
Il secondo processo è quello dell’ integrazione dell’economia europea, in particolare di alcuni paesi dell’area euro-mediterranea, con le economie del nord-africa e di quelle del vicino oriente. A entrambi questi processi a cui le risoluzioni Onu hanno dato respiro e legittimità, la resistenza ha tolto l’ossigeno e ha falciato le gambe: oltre che reazionari, questa volta, gli appelli all’Onu sono velleitari.. Analizzeremo la parte più recente di questo lungo corso di tentativo di penetrazione che ha avuto con la prima guerra contro l’Iraq un primo salto di qualità, un suo consolidamento durante l’embargo e le sanzioni Onu, e una rottura, nella continuità strategica del progetto, in questa fase, consci di fornire un tassello di un mosaico più ampio.
Anche se non possiamo fornire un quadro comparato con l’esperienza balcanica, ne’ con quella afghana, bisogna comunque prenderle come riferimento e come passaggi del ruolo che va ritagliandosi la BI italiana nel mondo multi-polare. Basta ricordare che tra i destinatari dei fondi della legge 49, quella della Cooperazione allo sviluppo, - solo per fare un esempio - in via di cambiamento e sempre più conforme alle direttive degli attori sovra-nazionali di cui l’Italia è membro, sono compresi paesi interessati da conflitti recenti e con interessi italiani specifici, come i Balcani, con l’Albania che solo nel 2002 ha ricevuto 24 milioni di Dollari dall’Italia, e l’Afghanistan che ha ricevuto 25 milioni di Dollari, mentre la Palestina è destinataria di 19 milioni di Dollari e l’Iraq è stato compreso in questa serie di sostegni umanitari imperialistici.

Making business with Oil for Food…
L’Italia è tra i principali fornitori dell’Iraq. Prima della Guerra del Golfo era il quarto partner commerciale di Saddam.
Tra gli ultimi atti di questa politica criminale, Oil For Food, riguardo all’Italia si deve ricordare che in base alla Risoluzione 1483 del 22 maggio 2003 la “Coalition Provisional Authority”, in coordinamento con le Agenzie delle Nazioni Unite e con il Governo interinale iracheno, ha reso noto sul sito dell’OIP www.un.org/Depts/oip la lista dei contratti per merci prioritarie, che verrà aggiornata con cadenza quindicinale e resa nota sul predetto sito.
I contratti “prioritari” pubblicati in questo primo elenco erano 130, di cui 13 italiani, tutti esclusivamente relativi al settore elettrico.
Nella classifica degli ultimi contratti approvati suddivisi per Paese l’Italia è al terzo posto, subito dopo Russia (20) e Francia (18): 
Per quanto riguarda i 13 contratti italiani approvati al Luglio 2003, per un totale di circa 23 milioni di USD, verranno gestiti dalle Agenzie dell’ONU (UNDP, FAO, PAM, UNICEF, etc.).
Riservandoci di riprendere sul numero successivo un quadro temporale più ampio del lungo corso degli interessi italiani in Iraq, ci limitiamo a segnalare qui alcune imprese coinvolte nel programma Oil for Food, terminato ufficialmente a sette anni di distanza nel novembre del 2003.
Le basi per l’impresa neo-coloniale
Dal mese di ottobre 2002 al mese di aprile 2003, attraverso l’Osservatorio Italia - Iraq, l’Istituto Affari Internazionali (www.iai.it) ha seguito la posizione italiana nella crisi internazionale irachena. Particolarmente interessante, per ciò che concerne l’avvio delle operazioni italiane civili in Iraq, intrecciate alla funzione di luogotenenza del territorio, è lo studio di Francesca Nardi del 21/5/03 scaricabile dal sito dell’IAI, di cui riportiamo un ampio stralcio:

Operazioni Civili
I compiti civili saranno essenzialmente volti a garantire

1. il ripristino delle infrastrutture pubbliche essenziali (ripristino immediato delle tratte della viabilità ordinaria, ferroviaria e aeroportuali; acquedotti, reti telefoniche) e

2. la ristrutturazione del settore medico sanitario (unità ospedaliera di campo e presidi sanitari regionali).
Il Governo prevede altresì di intervenire nel settore agricolo-rurale e nel settore culturale ed archeologico.
Se per quanto riguarda il settore agricolo-rurale si prevedono due iniziative:

1. la prima volta alla riabilitazione delle infrastrutture ed alla commercializzazione dei prodotti;

2. la seconda volta alla riabilitazione delle reti elettriche per garantire una erogazione costante e continua nelle zone agricole, negli ospedali e nelle strutture sociali (scuole), per il rafforzamento delle capacità gestionali nel campo archeologico è previsto l’invio dell’Ambasciatore Pietro Cordone [sfuggito miracolosamente ad un incidente provocato dal “fuoco amico” che è costata la vita al suo interprete è rientrato i primi d’ottobre in Italia, dopo una missione di circa 6 mesi, gli è subentrato l’ambasciatore Mario Bondioli Osio, precedentemente presidente della commissione italiana per il recupero delle opere d’arte trafugate, sfuggito a inizio gennaio ad un attentato in cui è rimasta uccisa l’interprete] il quale dirigerà i Beni Culturali nell’amministrazione provvisoria insediatasi a Baghdad.
Ad oggi, nel quadro delle operazioni di assistenza umanitaria alla popolazione civile irachena sono stati messi in atto dal Governo i seguenti interventi:

1. L’8 aprile 2003 sono stati inviati e distribuiti dalla Cooperazione italiana 40 tonnellate di aiuti di emergenza (medicinali, generi di prima necessità, generatori elettrici) per un valore complessivo di 250.000 euro.

2. Il 2 maggio 2003 è arrivato ad Al Kuwait un C130 dell’Aeronautica militare italiana con a bordo trenta carabinieri incaricati di garantire la sicurezza del trasporto e dell’operatività di un ospedale da campo destinato a Baghdad che opererà per tre mesi. Il contingente militare, assieme al personale di sicurezza, due esperti della Croce rossa italiana e due funzionari dell’Istituto superiore di sanità, ha come compito quello di avviare il programma di iniziative umanitarie illustrato il 15 aprile 2003. Ai Carabinieri italiani non verrà affidato nessun compito di polizia che toccherà ai 2.500- 3.000 militari annunciati dal governo i quali dovranno coordinarsi con le forze alleate.
Tuttavia, all’indomani del primo arrivo di aiuti umanitari a Kuwait City, il ministro degli Esteri si è detto favorevole a che il contributo italiano diventi operativo anche prima che l’ONU abbia deciso la strategia da seguire. In attesa che l’ONU recuperi la sua capacità di azione, il ministro ha ricordato che l’Italia “non può sottrarsi al compito di dare il proprio contributo costruendo ospedali da campo, reti infrastrutturali di emergenza per portare acqua e luce alla popolazione”.
Prossimamente, verrà inviato un team ricognitivo per determinare i lineamenti programmatici dell’operazione a livello operativo/strategico e stabilire i necessari collegamenti con i Comandanti Multinazionali presenti nell’area.

Il contributo italiano alle Agenzie delle Nazioni Unite
L’Italia ha inoltre voluto sostenere l’azione degli organismi internazionali attraverso un programma di finanziamento per un ammontare di 10 milioni di euro che sosteranno le attività delle Agenzie delle Nazioni Unite e della Croce Rossa Internazionale. Sono stati erogati 5 milioni di euro a favore dell’UNICEF, del Comitato Internazionale della Croce Rossa, alla Federazione internazionale della Croce Rossa, al Programma Alimentare Mondiale, all’Organizzazione Mondiale della Sanità. Sono stati altresì destinati all’UNESCO 400.000 euro per interventi a tutela del patrimonio archeologico irachena.

Queste le linee guida dell’intervento italiano.
Il 12 giugno 2003 presso la SIOI a Roma, Limes, la rivista italiana di geopolitica in collaborazione con la SIOI, Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale Organizza: “Ricostruire l’Iraq” con tre sessioni : La regia della ricostruzione parte dal territorio; Testimonianze dal territorio; Il contributo italiano alla ricostruzione: quale strategia? In cui intervengono figure di spicco (politici, militari, ricercatori, responsabili di organizzazione del commercio internazionale, giornalisti, e persino il Min. Giuseppe CASSINI, Cons. Diplomatico Regione Toscana “sul ruolo delle Regioni” e Fabio Alberti, un esponente di “un ponte per”, su “L’esperienza delle ONG sul territorio e la ricostruzione dell’Iraq”, tutti protagonisti dello sforzo imperialistico italiano (http://www.sioi.org/InvitoIraq.doc.pd).
Riportiamo per intero questo breve comunicato stampa del Ministero dell’attività produttive, perché indicativo delle strategie economiche Italiane di lungo periodo nei paesi che vedono una compartecipazione ai vari conflitti che si sono succeduti dai Balcani fino all’Iraq, passando per l’Afghanistan. Si tratta di una intervista rilasciata nell’aprile del 2003 da Ruggero Manciati3, presidente della SIMEST (Società Italiana per le Imprese all’Estero: www.simest.it) al Wall Street journal.
“La maggior parte delle 250 società che hanno intrattenuto recenti rapporti commerciali con l’Iraq sono piccole e medie imprese, la vera spina dorsale dell’economia italiana. E le grandi aziende inglesi e americane che gestiranno la maggior parte della ricostruzione dell’Iraq, prevede Ruggero Manciati, presidente della SIMEST, in un’intervista a Dow Jones, “passeranno le loro commesse alle piccole e medie imprese – e qui è dove realmente le imprese italiane inizieranno a beneficiarne”. Come? Sicuramente gioca a favore dell’Italia e della SIMEST in particolare, il recente accordo siglato con la sua controparte USA, OPIC (Overseas Private Investment Corp.), per aiutare le piccole e medie imprese ad espandersi all’estero. L’OPIC ha svolto un ruolo chiave nella ricostruzione dei Balcani e in Afganistan. Il volume d’affari è cresciuto del 20-25% e Manciati ha dichiarato che le società italiane sono “ben posizionate” per avere un ruolo importante nella ricostruzione dell’Iraq e per sviluppare più affari nel resto del Medio Oriente. Il Presidente della Società Italiana per gli Investimenti all’Estero prevede che, in seguito alla collaborazione con l’OPIC, le piccole e medie imprese italiane vedranno salire il volume d’affari tra il 20 e il 25% nelle aree nelle quali ci sono le operazioni più rilevanti: il Medio Oriente, l’Est Europa e l’area del Mediterraneo. Il presidente Manciati ha inoltre ricordato che “Simest attualmente ha 19 progetti – prevalentemente nel settore dell’edilizia e costruzioni - per un volume di circa 130 milioni di euro, pronti per la Palestina, quando la situazione si sarà stabilizzata” ed ha dichiarato inoltre che “il bilancio politico che Berlusconi ha stabilito dando agli Stati Uniti un appoggio senza essere implicato nel conflitto, metterà le imprese italiane in una posizione invidiabile”.
Alla fine di giugno è stato poi firmato un ulteriore accordo di cooperazione bilaterale tra Simest e OPIC, promosso dall’ambasciata italiana a Washington, per favorire la collaborazione tra imprese italiane e statunitensi (soprattutto piccole e medie imprese) in mercati terzi, ritenuti prioritari da entrambe le agenzie: l’Europa Sud-Orientale, la Russia, l’Asia Centrale, l’Africa ed il Mediterraneo.
“Con questa intesa le due agenzie si propongono di suddividere i rischi e mitigare i rispettivi oneri finanziari, così da sostenere - a parità di risorse - un maggior numero di progetti di investimento e fornire alle imprese italiane ed americane interessate ad iniziative di cooperazione industriale o commerciale una più ampia gamma di servizi finanziari e di assistenza, anche in collaborazione da parte italiana con Sace ed Ice e da parte Usa con Small Business Administration, Trade Development Agency, US Chamber of Commerce.
Per le imprese italiane l’accordo comporta:

l’accesso a nuovi strumenti finanziari (fondi di venture capital finanziati dall’OPIC) per la costituzione di imprese, joint ventures o l’ampliamento di società esistenti in paesi terzi;
opportunità di sviluppare iniziative di collaborazione industriale e commerciale (incluso il trasferimento di tecnologie) con società Usa per l’esecuzione di lavori e la fornitura di beni e servizi nei mercati emergenti.
Sul piano della politica economica estera l’accordo potrà rivelarsi utile per attrarre risorse pubbliche e private destinate a favorire la partecipazione italiana ai programmi multilaterali di cooperazione economica per la ricostruzione postbellica nelle aree più sensibili, in particolare, in questo momento l’Iraq. Attraverso la partnership tra società italiane e statunitensi, inoltre, si possono favorire gli investimenti esteri, contribuire a diffondere in maniera concreta la conoscenza negli Stati Uniti sulle potenzialità del nostro sistema produttivo nonché offrire nuove opportunità alle nostre società per operare, attraverso gli Stati Uniti, sul mercato della area di libero scambio del Nord America (Nafta).” (www.confindustria.it)
Già a metà aprile del 2000, Il Ministero degli Affari Esteri ha richiesto a Confindustria un primo elenco di imprese italiane disposte ad inviare propri esperti in Iraq al fine di effettuare una valutazione degli interventi “necessari in questa fase di emergenza umanitaria e per la riabilitazione del territorio.
La richiesta è principalmente rivolta alle imprese italiane che, per precedenti contatti avuti con il Paese, sono a conoscenza della realtà locale e potranno dunque mettere a disposizione la propria esperienza e propri tecnici”, precisa Confindustria.
Ai primi di maggio, l’USAID, agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale avvia una serie di interventi per fornire “assistenza umanitaria” e provvedere alla ricostruzione in Iraq. I settori sui quali si concentra l’attenzione sono quelli relativi a: pompaggio e potabilizzazione acque fluviali, generatori di elettricità, riparazioni stradali, ripristino porti, telecomunicazioni, ospedali.
Vengono bandite alcune Gare d’appalto in parte già aggiudicate, di quasi esclusivo appannaggio di aziende americane. Esiste comunque la possibilità, per le imprese italiane, di inserirsi in questo processo di ricostruzione attraverso operazioni di sub-appalto.
A Luglio, in una missione congiunta a Washington di rappresentanti del Ministero degli Esteri, del Ministero delle Attività Produttive e della Confindustria sono state effettuate diverse riunioni con le Autorità americane direttamente coinvolte nella ricostruzione dell’Iraq ed i rappresentanti dei principali contractors americani sinora selezionati (KBR e Bechtel) ad effettuare i primi interventi di emergenza e riabilitazione delle infrastrutture. In tale occasione è stata consegnata agli interlocutori americani la lista delle possibili aziende italiane interessate alla ricostruzione irachena, questo mentre una squadra del Ministero si trovava in loco per sondare il terreno sui possibili settori d’intervento.
Il 20/10/2003 Tom Foley, senior Advisor per le privatizzazioni e lo sviluppo del settore privato in Iraq, ha dichiarato che il processo di privatizzazione in Iraq iniziera’ dalle piccole societa’ di servizi. “Per iniziare il processo di privatizzazione abbiamo selezionato un piccolo gruppo di circa 10 piccole aziende che si occupano di business abbastanza semplici, con asset molto ridotti. Si inizierà dalle piccole società di servizi, come ad esempio le compagnie di Taxi e di noleggio auto con conducente e le società di architettura e progettazione”. Foley ha dichiarato che il processo di privatizzazione non riguarderà terreni e proprietà immobiliari. Prima della recente guerra, le quasi 200 società pubbliche davano lavoro a mezzo milione di iracheni. L’amministrazione provvisoria anglo-americana in Iraq, a metà settembre aveva completato un assessment che prevedeva la possibile privatizzazione di 153 società su 200, con l’esclusione delle società militari; delle società dipendenti dal ministero del petrolio e dalla commissione elettrica; delle banche statali; delle compagnie di assicurazione. Tra le imprese di maggior valore e appetibilità per potenziali investitori, Mr. Foley, ha citato cementifici, società di fertilizzanti, società minerarie, tessili e di pneumatici per auto. Un piano generale di privatizzazione sarà sottoposto all’Iraq Governing Council nelle settimane successive. Tra i progetti in cantiere c’e’ anche la creazione di una agenzia per le privatizzazioni. Mr. Foley ha rassicurato che la maggior parte delle privatizzazioni verranno effettuate quando sarà in carica un governo sovrano e che l’intero processo di privatizzazione dell’economia irachena potrebbe durare dai tre ai cinque anni.
Con l’autunno viene approvata dalla CPA la legge sugli investimenti esteri attraverso la quale viene sancita l’apertura del mercato iracheno con l’estero. La Legge, molto più “avanzata” rispetto alle analoghe dei paesi dell’area medio orientale, permetterà alle imprese straniere di poter acquistare proprietà su tutto il territorio iracheno, sviluppare joint-venture, partnership con imprese irachene, effettuare investimenti diretti in Iraq in quasi tutti i settori dell’economia, eccezion fatta per il settore petrolifero ed i suoi derivati, il settore assicurativo, che sarà regolato con una apposita legge, ed il settore bancario nel quale potranno operare solo sei gruppi bancari internazionali. La legge non fu allora accolta favorevolmente da parte del Consiglio di Governo Provvisorio iracheno, che la considerava inadeguata alla situazione economica attuale e vedeva ancora più marginalizzata la sua quasi totale mancanza di autonomia, cioè ulteriomente ridimensionati gli interessi dei collaborazionisti.
A metà febbraio, la Coalizione provvisoria (CPA) annuncia le gare per 2.300 contratti per la ricostruzione in Iraq, del valore di circa 8 miliardi di dollari.
La comunicazione è giunta in occasione dell’incontro avvenuto il 29 gennaio scorso presso il Centro Convention di Baghdad tra la CPA, rappresentato dal PMO (Program Management Office) ed il gruppo per lo sviluppo del settore privato (Private Sector Development), e le compagnie e gli uomini d’affari iracheni.
Obiettivo dell’incontro, il secondo della serie programmata dalla CPA, discutere le opportunità d’offerta per i “prime contract” e per i contratti in subappalto destinati ai progetti di ricostruzione.
Il colonnello Anthony Bell, responsabile delle attività contrattuali per il Cpa, ha annunciato che ci saranno gare per l’assegnazione di 2300 progetti destinati ai settori infrastrutture, acqua, elettricità ed altri servizi fondamentali. Entro il 2004 sono attesi 5.000 contratti, per un valore complessivo di 8 miliardi di dollari, una parte dei 18,6 previsti dallo stanziamento supplementare. Michael Fleischer, a capo del Private Sector Development, che offre servizi di consulenza e formazione per lo sviluppo del settore privato iracheno, ha messo in guardia i partecipanti all’incontro sull’insufficienza dei fondi a disposizione, che non consentirebbero di gestire tutti i lavori di ricostruzione: “Per la ricostruzione in Iraq sono necessari dai 50 ai 100 miliardi di dollari, ed in questo incontro discutiamo soltanto di 18,6 miliardi disponibili. Pertanto non saranno sufficienti per tutti i lavori di ricostruzione”. Fatta questa premessa, ha comunicato che le proposte e le offerte saranno disponibili sul sito del PMO, anticipando che sarà data priorità ai lavori nel settore tecnologia.
Entrando poi nel merito delle procedure, ha dichiarato che la prima fase consisterà nell’affidare alle compagnie irachene piccoli progetti per verificare le loro competenze, e che solo in seguito sarebbe prevista l’assegnazione di contratti più grossi.
Ma partiamo dagli sviluppi più recenti dell’impegno italiano.

La copertura finanziaria, assicurativa e accordi per l’impresa neo-coloniale
Il 17 marzo del 2003 viene costituita la Task Force italiana per l’Iraq di cui faranno parte rappresentanti della Presidenza del Consiglio, del Ministero Affari Esteri, Ministero della Difesa, Ministero dell’Economia, Ministero delle Attività produttive, Ministero della Salute e dell’Ambiente. La prima fase sulla quale si prevede che la task force lavori è sanitaria-umanitaria, la seconda di ricostruzione materiale e politica.
Il 5 Dicembre l’Italia aveva posto la propria firma in calce all’accordo quadro, firmato a Roma, sulla finanza commerciale tra Coalition Provisional Authority, la Trade bank of Irak e le agenzie di credito di 16 paesi, volto a finanziare le esportazioni di beni e servizi a breve termine verso l’Irak per due miliardi di euro.
Oltre all’Italia, hanno firmato Australia, Spagna, Giappone, USA, Austria, Repubblica Ceca, Belgio, Danimarca, Svizzera, Svezia, Lussemburgo, Polonia, Olanda, Germania e Regno Unito.
Per l’Italia l’intesa è stata firmata dalla Sace (Servizi Assicurativi del Commercio Estero) che ha firmato un accordo per 250 milioni di Euro al fine di sostenere le operazioni commerciali delle aziende italiane.
Per favorire un’ immediata operatività in Iraq SACE rilascerà on line la garanzia al SANPAOLO IMI, tramite il sito www.isace.it; SACE creerà inoltre una struttura interna dedicata alla nuova operatività in Iraq, al fine di agevolare le imprese italiane che partecipano a gare indette dall’Autorità Provvisoria di Coalizione per acquisire beni e servizi necessari alla ricostruzione del Paese.
L’importo rappresenta l’allocazione di una parte del plafond di un miliardo di euro deliberato dal Cipe (Comitato Interministeriale per la Programmazione economica) per gli impegni della Sace a sostegno delle esportazioni e degli investimenti italiani in Irak.
Per le esportazioni italiane il Sanpaolo Imi avrà il ruolo di banca agente per la gestione degli strumenti commerciali che la Trade Bank of Iraq emetterà a favore degli esportatori italiani e attraverso la propria rete potrà fornire agli operatori economici l’assistenza per l’inserimento dei contratti nell’accordo Sace/Tbi e beneficiare della copertura assicurativa del 95 per cento.
Già il 25 Luglio dell’anno scorso, con la delibera firmata dal Presidente del CIPE Mario Baldassarri e del Presidente delegato Giulio Tremonti, il Cipe aveva deliberato che: «La SACE può assicurare operazioni verso l’Iraq, nel limite di un plafond di 500 milioni di euro, nell’ambito delle politiche assicurative definite dal Consiglio di Amministrazione, in ragione dell’evoluzione della situazione politico-istituzionale e fermo restando l’esame caso per caso di ciascuna operazione. Il massimale sopra indicato potrà essere incrementato in rapporto alle richieste di copertura assicurativa provenienti dagli operatori economici».
Lo stesso giorno con le delibere n.48 e n.49 vengono forniti due importanti strumenti per la penetrazione economica della B.I. italiana in Iraq:
«Ad integrazione di quanto previsto dalla propria delibera n. 20/2002 - che ha destinato lo stanziamento complessivo di 36,15 milioni di euro al finanziamento di operazioni di “venture capital”, nei Paesi del Mediterraneo, da parte di imprese ubicate nelle aree sottoutilizzate – l’utilizzazione di tale stanziamento viene estesa, per le motivazioni esposte in premessa, all’Iraq ed ai paesi dell’Africa sub-sahariana.»
«Nel corso del 2003 tra i paesi che sono ammessi a beneficiare dei contributi previsti dalla legge 26 febbraio 1992, n. 212, e successive modificazioni» viene incluso anche l’Iraq. (http://www.cipecomitato.it/Ricerca_Delibere.asp)

Italiani brava gente: l’Italia in Iraq
“Il segno caratterizzante della missione italiana in Iraq è l’impegno deciso ad operare per la ricostruzione del Paese, direttamente dall’interno delle istituzioni provvisorie dell’Iraq. E’ un impegno che, per qualità e quantità, non ha precedenti nella nostra azione di politica estera e che ci vede fortemente rappresentati nel settore della cultura – dove un italiano è responsabile del settore, con rango di Ministro– e in quelli dei trasporti, dell’irrigazione, della sanità, dell’istruzione superiore, della finanza, della giustizia e della pianificazione delle operazioni. Oltre che nell’Amministrazione centrale della CPA a Baghdad siamo presenti nella regione sud del Paese, in particolare a Bassora, dove ricopriamo tra l’altro il ruolo di Vice – Governatore, e nella Provincia di Dhi Qar, il cui capoluogo è Nassirya, dove abbiamo l’incarico di Vice – Coordinatore”.
Vice Ministro alle Attività Produttive con delega al Commercio Estero, On. Adolfo Urso

Nel giugno del 2003, Il Centro Studi della Confindustria evidenzia nella rivista “Politiche e istituzioni nell’Europa allargata” il ruolo dell’Italia nella ricostruzione irachena. I settori primari nei quali l’Italia può dare un contributo sono: il settore medico-sanitario per il quale l’Italia ha una lunga tradizione di cooperazione con l’Iraq; il settore delle infrastrutture, per la riabilitazione immediata degli impianti idrici, elettrici e delle comunicazioni; il settore agricolo, import export di macchinari agricoli, sistemi di irrigazione e fertilizzanti. Il Ministero delle Attività produttive stima che l’impegno finanziario dell’Italia per la ricostruzione irachena intorno ai 2 miliardi di euro. Lo studio evidenzia come le piccole e medie imprese italiane potranno inserirsi nel processo di ricostruzione attraverso operazioni di subappalto dalle società americane.
Alla fine di ottobre Franco Frattini ha annunciato nel suo discorso alla conferenza dei donatori che l’Italia stanzierà un contributo aggiuntivo di 200 milioni di euro nei prossimi tre anni (i quali vanno ad aggiungersi ai 286 milioni di euro stanziati fino ad oggi).
Sul processo di ricostruzione del paese, vi è un forte interesse da parte di quasi 200 imprese italiane le quali sono pronte ad investire nel paese. La task force interministeriale coordinata dalla Farnesina ha raccolto una serie di dati: 24 aziende sarebbero disponibili nel settore delle costruzioni, 8 nell’edilizia, 23 nelle reti idriche, 22 negli impianti petroliferi.
Riccardo Sessa, direttore generale per i paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente, ricorda che visono anche 18 aziende farmaceutiche, 11 aziende sanitarie, 13 dell’agricoltura, 3 del settore alimentare, 5 dei trasporti, 6 per lo sviluppo dell’istruzione, e 43 catalogate in “settori vari”.
Nella mattinata del 22/12, nel corso di una visita a Roma, il ministro degli esteri del nuovo Governo iracheno, Hoshiar Zebari, ha incontrato una ristretta rappresentanza di imprenditori italiani, erano allora circa 350 le imprese italiane che hanno manifestato interesse a partecipare a progetti e iniziative per la ricostruzione post-bellica.
All’inizio di novembre una prima lista compilata dal ministero degli Esteri e della Confindustria comprendeva circa 180 imprese disposte a proporsi come sub-appaltatrici, tra queste 24 aziende per la ricostruzione di strade e di ponti, 23 per le reti idriche, 21 per le reti elettriche, mentre imprese del calibro di Impregilo, Technint, Telecom o Fiat Engennering, come possibili concorrenti nella gara d’appalto, prevista per il febbraio dell’anno successivo, per aggiudicarsi il ruolo di general contractors.
Durante la visita del 22/12 il presidente Franco Frattini avrebbe dichiarato che: «l’Italia prevede di aumentare il proprio contributo alla stabilizzazione del Paese ed è pronta a giocare un ruolo di primo piano nel settore dellaformazione delle alte professionalità del futuro stato iracheno: funzionari, diplomatici, giudici», auspicando la nomina in tempi brevi di un ambasciatore iracheno a Roma, passo importante per creare relazioni diplomatiche.
C’è una foto significativa dell’impegno della borghesia imperialista italiana nella ricostruzione Irachena, che ritrae il sottosegretario del Commercio con l’estero Urso, ex militante del Fronte della Gioventù e protagonista della trasformazione del MSI in Alleanza Nazionale – a cui si affiancato il Sottosegretario all’Economia, Sen. Giuseppe Vegas (Forza Italia) - con i ministri del Kuwait e dell’Autorità Provvisoria Irachena, nella cerimonia di apertura della fiera internazionale “Rebuild Iraq”. inaugurata il 19 gennaio nel quartiere fieristico di Kuwait City.
Le aziende italiane espositrici erano 113 e hanno avuto un peso considerevole all’interno della kermesse, essendo, la partecipazione italiana, la più grande delegazione tra gli espositori stranieri.
Già la partecipazione ufficiale italiana alla fiera Outreach 2004, la grande mostra internazionale dedicata alla ricostruzione svoltasi ad Amman, Giordania, dall’11 al 13 di gennaio, si era tradotta nella presenza di 76 aziende interessate a diffondere il proprio prodotto nell’area medio-orientale e ad inserirsi nel processo di ricostruzione dell’Iraq.
Le 76 aziende provenienti dal nostro paese hanno esposto all’interno del Punto Italia, uno spazio di 65 metri quadrati organizzato dall’ICE, con una catalogoteca e 8 vetrine per l’esposizione di una ridotta campionatura nonché tre sale per gli incontri bilaterali.
I settori che hanno visto l’Italia coinvolta nella rassegna internazionale sono stati: materiali per l’edilizia, agricoltura e agroindustria, information technology, attrezzaturesanitarie, sistemi antinquinamento, attrezzature portuali ed aeroportuali, scuole ed istruzione, impianti di generazione elettrica, tecnologie per la produzione ed il trasporto di petrolio e gas, arredamenti vari.
Protagoniste dell’evento sono state quasi del tutto le aziende del nord, mentre compaiono nella lista due sole società del sud, provenienti da Catanzaro e da Ragusa. La prima è operativa nel settore degli arredi per edifici pubblici, mentre la seconda si occupa di ingrosso, produzione, commercializzazione ricambi veicoli industriali e autobus.
(L’elenco delle aziende espositrici può essere consultato sul sito: www.ricostruzioneiraq.it).
Recentemente, il 12/02/2004 – Kuwait e Usa hanno firmano una partnership commerciale che apre la strada ad un accordo di libero scambio – Free Trade Agreement (FTA) - tra i due paesi.
Un reportage della rivista inglese Oman Daily Observer dichiara che l’accordo, noto come “Trade and Investment Framework Agreement” (TIFA), è stato firmato lo scorso venerdì a Washington da Robert Zoellick, rappresentante del commercio Usa, e dal Ministro dell’Industria e del Commercio kuwaitiano Abdullah al Taweel.
Si tratta della prima fase delle trattative per il FTA tra Kuwait e Stati Uniti. Al Taweel dichiara che questo accordo getterà le basi per un incremento degli investimenti americani nel Kuwait, pronto a trarre vantaggi dalle opportunità commerciali offerte dal processo di ricostruzione nella vicina terra irachena.
Secondo quanto risulta dal suddetto reportage, Washington avrebbe scelto il Kuwait come partner commerciale per affrontare il difficile momento della ricostruzione irachena soprattutto alla luce del considerevole supporto da questo offerto all’America durante l’intervento bellico che ha fatto cadere il regime di Saddam Hussein.
Inoltre il Kuwait, deciso a riconquistare il ruolo di protagonista nell’attività di esportazione nella regione che possedeva negli anni ’70, ha recentemente approvato delle nuove leggi relative agli investimenti all’estero che consentono anche a cittadini non kuwaitiani di possedere il 100% dei loro affari nell’emirato.
L’Italia è già il quinto partner commerciale del Kuwait, e circa il 6% delle importazioni kuwaitiane provengono dall’Italia, di cui un terzo sono attrezzature tecniche e meccaniche.
L’interscambio commerciale tra i Italia e Kuwait è stato nel 2001 pari a 432,80 milioni di Euro di merci esportate dall’Italia verso il Kuwait contro 153,30 importate dal paese arabo, nel 2002 il valore è salito a 442,90 contro a un totale di 28,50 di merci importate dall’Italia.
Il 3 febbraio la Confindustria e la Camera di Commercio Kuwaitiana a Roma hanno firmato un accordo per facilitare i rapporti tra sistema industriale italiano e quello del Kuwait.
Queste aziende cercano di inserirsi all’interno di quella nicchia creatasi dopo la fine ufficiale della guerra dichiarata unilateralmente da G. W. Bush il Primo maggio dello scorso anno, e la triangolazione con le aziende operanti in Kuwait è fondamentale per assicurarsi investimenti in Iraq: già le merci destinate all’Iraq arrivano prevalentemente da i due porti siriani, con il porto di Tripoli in Libano candidato a avere un ruolo sempre più importante.
Questa spazio interstiziale si è creato con gli accordi tra società kuwaitiane e le autorità militari e le società Usa, specialmente per la fornitura di generatori elettrici, materiali da costruzione, prefabbricati, condizionatori d’aria.
Proprio il Kuwait vuole creare i presupposti per annettersi parte dell’economia irachena, creando, tra l’altro, zone economiche speciali (free zone) - sul modello di quelle create tra Israele e il territorio “governato” dall’ANP - che, in una prospettiva di lungo periodo, possono costituire una struttura utile all’insediamento delle imprese italiane nell’area, in realtà tutte gli Stati circostanti sono interessati nell’opera di sfruttamento diretto o indiretto dell’Iraq, a cominciare dal Kuwait, la Giordania e i paesi della penisola Arabica.
La lista dettagliata degli espositori italiani può essere comunque consultata sul sito: www.ricostruzioneiraq.it, che è una delle migliori bussole in Italiano - insieme ai siti dei vari istituti italiani co-artefici dello sfruttamento dell’”Antica Babilonia” - per orientarsi nel mondo degli affari di guerra dei pescecani nostrani, che hanno avuto l’onore di avere ben due chairman all’interno degli appuntamenti della fiera, mentre sulla pubblicazione ufficiale che presentava l’evento spicca in prima pagina una locandina pubblicitaria della presenza italiana sotto l’egida del Ministero per l’attività produttive dal vago sapore imperiale con foto dei contorni geografici dell’Iraq che sfuma sullo sfondo del Colosseo.
Attraverso la rete degli uffici kuwaitiani aperti soprattutto nel sud dell’Iraq, e cercando di rimettere in moto i vecchi agenti iracheni che lavoravano prima del conflitto nella scia delle forniture garantite dal programma Onu oil for food, queste imprese cercano di assicurarsi le briciole che rimarranno dalla più ampia spartizione gestita dai general contractors, più che altro statunitensi, nella gigantesca operazione di privatizzazione dell’economia irachena e che vedrà gli imprenditori locali nel ruolo di trader.
Inoltre, come ha sottolineato una funzionaria italiana distaccata a Bassora presso la Coalition Provisional Administration (Cpa): «il rinnovamento del parco tecnologico iracheno, spesso basato su macchinari italiani vecchi di trenta anni deve essere immediato», mentre Mauro Manconi, area manager di Fata Group, ha dichiarato «Si può iniziare con la fornitura di pezzi di ricambio e di assistenza, e poi passare a raddoppi di impianti e a progetti chiavi in mano».
Tra le aziende interessate a concorrere a progetti specifici per gli appalti rispetto ai servizi essenziali che dovrebbero essere assegnati a marzo e per cui l’amministrazione americana ha messo sul tappeto 18,6 miliardi di dollari ci sono l’Ansaldo Energia che punta alla riabilitazione della centrale di Bajii, Elsag,che ha presentato alla CPA un progetto per la realizzazione di un sistema di carte elettroniche a sostegno della distribuzione alimentare nel paese e Alenia Marconi System, interessata al sistema radar dell’aereoporto di Baghdad, il Gruppo Trevi, leader mondiale nell’ingegneria del sottosuolo, già attivo con Soilmec nel programma “Oil for Food”, fornendo macchinari nei settori acqua e fondazioni e che sta attualmente fornendo tecnici per la formazione di personale specializzato nella conduzione di questi macchinari a Baghdad.
Ansaldo Energia è una società controllata da Finmeccanica, che opera da sempre nel campo della manifattura e dell’impiantistica elettromeccanica ha sede a Genova, copre un’area produttiva di 250.000 mq ed ha un organico di circa 3000 persone.
Elsag, sempre del gruppo Fimeccanica, di cui è il polo strategico nell’Information Technology per il gruppo, offre alle medie e grandi aziende soluzioni informatiche a supporto della reingegnerizzazione e dell’automazione dei processi, ha fatto registrare 431 milioni di euro di ricavi e a un organico di 3000 addetti.
Alla fine di novembre sono rientrati in Italia ingegneri delle FS spediti in Iraq per la stesura di un piano di ricostruzione delle reti di trasporto,
Il governo provvisorio iracheno, guidato dal proconsole Usa Paul Bremer, aveva affidato all’Italia la stesura di un piano per le reti dei trasporti nel nuovo Iraq, stesura che dovrebbe essere ultimata entro il Settembre 2004. Il Ministero delle Infrastrutture italiano ha organizzato un gruppo di lavoro coordinato da Ercole Incalza, collaboratore del Ministro Lunardi e “padre” del primo Piano generale dei trasporti italiano del 1986. All’operazione, che prevede anche una partecipazione finanziaria del Governo italiano per 1,3 milioni dieuro e del Governo provvisorio iracheno per 300.000 dollari, collaborano già attivamente Anas, Fs, Enac (aviazione civile) ed Enav (assistenza al volo). Nelle intenzioni del Governo italiano la stesura del Piano costituisce solo una prima fase dell’impegno italiano nell’opera di ricostruzione del sistema infrastrutturale iracheno. Lunardi apre così una corsia alle imprese italiane per partecipare ai lavori della ricostruzione anche in termini di possibili commesse da acquisire. I tecnici italiani di Anas e Italferr (la società di ingegneria delle Fs) sono sul territorio iracheno già dal Maggio scorso e hanno già svolto un lavoro di ricognizione delle esigenze che ha consentito di mettere a punto un primo elenco di opere necessarie per ridare efficienza al sistema infrastrutturale dell’Iraq. Una lista di priorità che contiene 24 tra opere e programmi, dal costo complessivo stimato in 45.850 milioni di euro. Tra le opere finanziariamente più impegnative le metropolitane di Baghdad (7,5 miliardi di euro), di Mosul (1,7 miliardi) e Bassora (1,8 miliardi), l’asse ferroviario ad alta velocità Bassora-Baghdad-Mosul (8 miliardi) e gli adeguamenti delle ferrovie Mosul-confine turco (1,6 miliardi) e Baghdad-confine giordano (2,2 miliardi), l’adeguamento delle autostrade Mosul-Ankara (2 miliardi) e Baghdad-Amman (1,8 miliardi). Particolare rilevanza nello sviluppo del sistema dei trasporti iracheno avranno i due progetti per rendere navigabili il Tigri e l’Eufrate: il costo stimato è rispettivamente di 1,8 e 3,1 miliardi. Risorse ingenti saranno assorbite dai programmi di adeguamento della viabilità minore a cura dell’Anas (5,5 miliardi), dalla realizzazione di quattro hub interportuali per lo scambio di merci (1,2 miliardi) e dalle opere per l’adeguamento del sistema aeroportuale (1,25 miliardi).


ITALFERR (www.Italferr.it) è la società di ingegneria delle Ferrovie dello Stato, con un organico di poco inferiore ai 1.800 addetti, opera sul mercato italiano e internazionale nel campo dell’ingegneria dei trasporti, tra cui l’Alta Velocità. Il fatturato medio annuo di circa 150 milioni di Euro la colloca in testa alla classifica delle società italiane di ingegneria pura.
Ha lavorato per la Giordania a metà anni ’90, per una commessa di 154.000 euro, per un studio di fattibilità per la nuova linea ferroviaria di collegamento fra la raffineria di Zarqa ed il confine iracheno (285 km), destinata in particolare al trasporto del petrolio, e l’Arabia Saudita, per uno studio di fattibilità tecnico, economica ed ambientale , del valore di 160.000 euro, di una nuova linea ferroviaria, a semplice binario, della lunghezza di 1070 km, per il trasporto di fosfato, dalla località Al Jalamid al porto di Al Jubail, ivi compreso il dimensionamento dei terminali per il carico e lo scarico dei minerali e ha attualmente a una commessa con la Siria.
Inoltre le infrastrutture informatiche di base del Governo Iracheno, potrebbero portare la firma dell’Italia; e Baghdad potrebbe “gemellarsi” con una città italiana (non ancora individuata) in grado ditrasmettere il know-how informatico per la gestione dei servizi sociali. I Ministri degli esteri Franco Frattini e delle Nuove tecnologie Lucio Stanca, scrive il “Velino”, hanno già concordato allo scopo l’invio a Baghdad in marzo di una missione congiunta. Obiettivo, accertare la fattibilità di un programma per dotare il governo iracheno della rete informatica minima indispensabile per far funzionare la “macchina” amministrativa del Governo. Partner industriale del Governo nell’operazione sarà Telecom Italia, con la quale è già stata elaborata una bozza di progetto. Partner straniero potrebbe essere la Giordania.
Tra le imprese già operanti in Iraq, bisogna ricordare l’Impregilo, attiva internazionalmente nel settore delle infrastrutture, con crediti nei confronti del Governo Irakeno superiori a 100 milioni di Euro, che verranno probabilmente convertiti i commesse di ricostruzione e la GTT (Gas Turbine Technologies), oggi del gruppo Siemens, prima Fiatavio power Services, azienda dei servizi nel settore delle turbine a gas per la produzione di energia elettrica.
Il Ministero dell’Estero, la Confindustria, l’ICE (Istituto nazionale per il Commercio Estero), SACE, - che ha aperto un ufficio nella capitale Irachena - e le Camere di Commercio sono le teste di ponte per gli interessi italiani in loco, mentre il Kuwait e la Giordania sono le porte d’ingresso economico per l’Iraq, i cui destini economici continuano ad essere decisi in appuntamenti come The Iraq Economic Summit che si terrà nella prima metà di febbraio a Washington, la terza edizione della Rebuilding Iraq Conference, prevista per l’ultima settimana di Febbraio sempre a Washington, l’Iraq Procurement 2004, prevista per l’ultima settimana di marzo a Londra e la Destination Baghdad Expo prevista per la prima settimana d’aprile a Baghdad.
Un discorso a parte va fatto per l’ENI.
Già agli inizi di Agosto, l’amministratore delegato dell’ENI Vittorio Mincato, aveva affermato, all’indomani dell’esclusione dell’azienda dalla stipula di contratti a termine condodici compagnie straniere per la fornitura di 650.000 barili al giorno di petrolio, che l’azienda avrebbe raggiunto «una ipotesi di accordo a Nassiriya», sotto occupazione Italiana.
L’azienda italiana è presente in “Medio Oriente” in Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Iran, Kuwait, Oman, Yemen.
Per avere un profilo della mole e della longevità degli investimenti dell’azienda e della valenza strategica che quest’area riveste per l’azienda di San Donato Milanese basta consultare il sito: www.eni.it cliccando sulla finestra “ENI nel mondo”4.
Da tempo l’azienda petrolifera ha gli occhi sui campi petroliferi a Nassiriya. All’ENI quel giacimento da 300mila barili al giorno e con riserve tra i 2 e i 2,6 miliardi di barili interessava già ai tempi del regime di Saddam, ma dopo la guerra l’azienda italiana ha riaperto il negoziato con gli americani di Paul bremer e con il ministero del Petrolio Iracheno, prima sotto il controllo di Philip Carrol, ex presidente della Shell e poiformalmente in mano a Ibrahim Bahr al-Ulum, figlio di Mohamed Bahr al-Ulum, uno dei più noti membri sciiti del Consiglio provvisorio nominato da Paul bremer.
Ibrahim Bahr al-Ulum, ingegnere petrolifero laureatosi negli USA, all’università del nuovo Messico, ha vissuto a Londra, ha lavorato nell’industria petrolifera kuwaitiana e soprattutto ha partecipato agli incontri precedenti allaguerra al Dipartimento di Stato sul «progetto per il futuro Iraq». Incontri nel corso dei quali venne delineata una massiccia privatizzazione di tutti i settori strategici dell’industria irachena, a cominciare da quella petrolifera, a favore delle compagnie petrolifere americane e straniere.
Proprio una delegazione dell’ENI, si era recata a Baghdad a Giugno a bordo di un aereo militare italiano per discutere dei dettagli dell’operazione e sembrava essere una delle aziende più accreditate per accaparrarsi le risorse petrolifere della zona.
Questo investimento comporterebbe sul fronte finanziario una spesa che si aggira attorno ai due miliardi di dollari e un notevole dispiegamento di risorse umane, anche in termini di sicurezza, ma che proprio a causa della mancata pacificazione dell’area, vede allungarsi i tempi e essere sempre più improbabile.
Vittorio Mincato, a ridosso dell’attacco della resistenza irachena ai Carabinieri a metà novembre, ha dichiarato: « noi avevamo un interesse per quella zona e lo confermiamo. Contavamo di chiudere i colloqui in corso entro l’anno ma i fatti di oggi confermano quanto temevamo: se ne parlerà l’anno prossimo», successivamente L’ENI ha fatto sapere che stava osservando la situazione ma che riteneva prematuro ogni ipotesi di impegno, a causa della situazione tutt’altro che stabilizzata.


Note:

1) Recentemente, Reporterassociati (www.reporterassociati.it) ha attivato un interessante blog dei bollettini della resistenza irachena tradotti in Italiano, che contribuiscono a far emergere il punto di vista degli insorti.
2) L’ambasciatore Pietro Cordone è nato 70 anni fa ad Alessandria d’Egitto. Ha servito come ambasciatore nello Yemen e negli Emirati Arabi Uniti, ed è stato uno degli ispettori nella prima missione (Unscom) per il disarmo dell’Iraq condotta dall’Onu.
Tra i compiti affidati al diplomatico, quello di ripristinare il patrimonio culturale e archeologico danneggiato dai saccheggi.
Alla guida di una squadra di 10 persone, tra militari e civili esperti nel campo della museologia, archeologia e cultura, Cordone, non appena insediatosi ed avviato il suo lavoro, ha affermato che, nonostante la gravità dei saccheggi, il danno al patrimonio archeologico iracheno è di molto inferiore alle stime iniziali. Nel volgere di pochi giorni, Cordone e il suo gruppo di lavoro ha contabilizzato in 3.000/3.500 (e non 170 mila, come era stato detto nei primi giorni successivi alla caduta del regime baathista) il numero degli oggetti di valore artistico e archeologico saccheggiati, e di questi solo 30 ritenuti di grandissimo interesse.
3) Vice-presidente della camera di commercio e industria Italo Iraniana, co-attore della missione economica Italiana in Bosnia, paese di cui l’Italia è il maggior partner commerciale, e della penetrazione a est dell’Italia, intervenuto sull’ultimo numero di Limes con un contributo proprio sullo sviluppo dell’Itala a est e attivo conferenziere, invitato come relatore al seminario:”prospettive di ricostruzione sui Balcani” alla festa nazionale dell’unità nel settembre del ’99, relatore alla terza sessione “Il contributo italiano alla ricostruzione: quale strategia?”del seminario:”Ricostruire L’Iraq” organizzato dalla rivista Limes e dalla (SIOI) Società Italiana per L’organizzazione Internazionale, a Giugno a Roma dello scorso anno,
4) Due studi particolarmente interessanti sul business petrolifero in cui si delinea approfonditamente il profilo dell’ENI a livello internazionale sono: La guerra del petrolio, la posta in gioco in Iraq e dietro l’asse del male edito, supplemento al n.37 del marzo 2003 di “altreconomia” e Breve storia dell’impero del petrolio, edito nel 2003 dalla manifestolibri entrambi di Marco Paolini, mentre alcune inchieste interessanti sull’argomento, in specifico rispetto al continente africano e latino-americano, sono consultabili sul sito www.terrelibere.it.

 

L’Italia in “oil for food”
Settore Aziende
Agricoltura  Gasparato seminatrici, Iveco, New Holland Officine, Facco
Alimentare Abb industria service, Maragoni meccanica, Sasib tobacco
Edilizia Bandera Luigi,Colmar, Fratelli Mazzon
Elettrico Acciai speciali Terni, Abb sace tms, Ansaldo energia, Fiat avio
Idrico Impianti Gutherm, Simetrato, Trans world construction
Infrastrutture Alenia Marconi, Elsag, Siemens
Istruzione Althay international, Didacta Italia
Medicina  Bormioli, Bracco, Esaote, Glaxo Wellcome, Menarini
Petrolio 

Breda energia, Ingersol, Rand italian, Officine S. Giorgio

 

Informazione e guerra a bassa intensità

La guerra a bassa intensità di norma agisce o come preparazione di una guerra guerreggiata, oppure come strumento di penetrazione che possa permettere di tralasciare una guerra guerreggiata arrivando in ogni caso ad ottenere gli obiettivi prefissati. Ma è importante chiarire anche un terzo punto: una guerra a bassa intensità è di fatto dispiegata in generale per il mantenimento del controllo sul conflitto socio/politico presente in un dato paese, cercando di preservare o modificare un preciso status quo. Si tratta a tutti gli effetti di uno strumento complesso, composito. Dai molteplici obiettivi. E che riguarda anche l’Italia, l’Europa e il cosiddetto mondo occidentale.
Uno degli elementi principe di una guerra a bassa intensità riguarda la massificazione della informazione. Giochi di riflessi che vengono diretti contro quella che si definisce come opinione pubblica e che garantiscono un livello di pacificazione atto all’ottenimento degli obiettivi di cui sopra.
Il “caso Iraq”, come in precendeza la guerra in Yugoslavia, sta portando alla luce in modo sempre più palese questo elemento. Rimane il fatto che all’interno di questo gioco di specchi, riuscire a percepire la realtà oggettiva degli avvenimenti (in dialettica con la realtà) diventa, in assenza di strumenti conoscivi adeguati, una impresa ardua, se non del tutto impossibile.
Ed è su questa strada che i termini si confondono, che resistenza è terrorismo, che terrorismo (quello anglo-americano) è democrazia, che esercito di occupazione è esercito di liberazione, che la resistenza partigiana era una cosa e la resistenza irachena non la possiamo definire neanche resistenza, ecc. ecc..
In questo modo agisce, sul piano dell’informazione, la guerra a bassa intensità.
Governi e corporazioni controllano gli strumenti di comunicazione e attraverso di essi agiscono nella costruzione di uno stato che si potrebbe tranquillamente definire di “incoscienza” se consideriamo quanto da una parte siano chiare le operazioni sporche e i reali obiettivi di questa guerra di distruzione/occupazione/espansione mentre dall’altra parte non si riesca a portare una critica collettiva forte (ma neanche debole) rispetto a tutto questo.



http://www.senzacensura.org/