SENZA CENSURA N.13

FEBBRAIO 2004

 

La nascita d’Israele e la catastrofe palestinese

 

Quest’articolo è la seconda parte della sezione dedicata alla ricostruzione della lotta del popolo palesinese in una prospettiva storica, iniziata nel n.12 della rivista e che continuerà in ordine cronologico con altri contributi sui prossimi numeri.

«Se sapessi di poter salvare tutti i bambini [ebrei] tedeschi trasferendoli in Inghilterra, o solo la metà di loro spostandoli in Eretz Yisrael, sceglierei di salvarne la metà perché il calcolo non può limitarsi a quei bambini, ma deve includere la sorte storica dell’intero popolo ebraico»
David Ben-Gurion, dicembre 1938

La nascita dell’Entità sionista è una tappa fondamentale per la soluzione imperialista della questione ebraica, per la genesi del dramma palestinese così come lo conosciamo ancora oggi e per lo sviluppo del nazionalismo arabo contemporaneo.
Il piano di spartizione voluto dalle potenze imperialiste e più che caldeggiato dai sionisti, la capitolazione militare, l’odissea dei profughi nel mondo arabo, la frustrazione per il tentativo di impedire ogni possibilità di riscatto delle masse sono l’humus su cui crescerà l’attività dei nazionalisti arabi.
La risoluzione delle Nazioni Unite sulla divisione del paese votata il 29 novembre del 1947, successiva alla comunicazione della Gran Bretagna del 15 novembre di volere ritirare completamente le sue truppe entro il 1° agosto dell’anno successivo, attribuiva al 37% della popolazione - quella ebraica - il 55% del territorio, del quale possedeva in quel momento solo il 7%.
Come ha scritto Walid Khalidi: «i palestinesi non capivano perché si facesse pagare a loro il conto dell’Olocausto… Non capivano perché fosse ingiusto che gli ebrei restassero minoranza in uno Stato palestinese unitario, e invece fosse giusto che quasi metà degli arabi palestinesi – la popolazione autoctona, che abitava il paese da secoli – diventasse dalla sera alla mattina una minoranza soggetta ad un potere straniero».
Subito dopo l’accordo iniziarono le ostilità tra le due comunità: era l’inizio della guerra tra palestinesi e israeliani che assunse i connotati di conflitto “convenzionale”, per quanto assimetrico, tra eserciti contrapposti - Israele da un lato, Siria, Giordania, Egitto, Libano, Iraq più un piccolo corpo composto da elementi provenienti da vari paesi dall’altro - dal maggio successivo e che si concluse ufficialmente agli inizi del 1949.
Il compimento della prima tappa del progetto sionista di uno “spazio vitale” per la propria esistenza, notevolmente incrementato rispetto a quello votato dalle Nazioni Unite; la naqba palestinese e l’inizio della diaspora di poco meno di 900.000 palestinesi a cui fu negato da subito il diritto al ritorno; il ruolo degli stati arabi e gli equilibri inter-imperialistici post-bellici nell’area, non possono essere considerati fattori separabili ma parti di un unico intreccio, aspetti di un medesimo processo storico ancora in evoluzione.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la progressiva perdita di peso economico-politico e militare dell’imperialismo inglese e di quello francese, l’azzeramento momentaneo di una qualsiasi valenza della Germania nel consorzio internazionale, come degli altri paesi dell’Asse, l’emergere di una dimensione bipolare nella contesa egemonica mondiale, che vede contrapposti da un lato gli USA e i suoi alleati e dall’altro l’URSS e i paesi che gravitano attorno all’orbita sovietica, non sono solo lo sfondo in cui si svolgono gli avvenimenti che interessano il conflitto arabo-israeliano, ma costituiscono dei fattori co-determinanti per lo sviluppo delle vicende medio-orientali: il voto favorevole al piano di spartizione d’entrambe le potenze uscite dal conflitto mondiale ebbe un peso più che rilevante, nulla invece l’opposizione degli stati arabi che abbandonarono l’assemblea.
Il dominio delle risorse petrolifere, il controllo delle rotte marittime, il posizionamento geo-strategico, la compressione o l’inquadramento dei sommovimenti sociali locali erano già allora i fattori critici per l’intera area nella contesa imperialista a spese delle popolazioni locali: in questo quadro va inserita il conflitto arabo-palestinese, non nella semplice contesa tra la popolazione autoctona palestinese e la comunità ebraica immigrata.
Senza l’addestramento militare britannico e in generale l’apprendimento dei metodi di guerra moderna mutuati dall’esperienza bellica mondiale, e la rielaborazione in chiave di strategia politico-militare anti-insurrezionale dell’esperienza della Grande Rivolta del ’36-’39; l’approvigionamento d’armi cecoslovacche permesso anche dalle generose donazioni provenienti dalla comunità ebraica statunitense; la politica sionista di prediligere l’immigrazione di maschi adulti arruolabili, oltre agli elementi sovra-citati, non si può comprendere la contingenza positiva in cui si siano trovate ad operare le soverchianti forze sioniste che hanno imposto sul campo, con la politica del fatto compiuto, i propri interessi.
Se si aggiunge che si sono scontrate contro una popolazione che aveva perso durante la Grande Ribellione le sue avanguardie politiche (uccise, ferite, incarcerate, esiliate o semplicemente demoralizzate) e contro eserciti arabi inferiori numericamente, poco e male armati, scarsamente coordinati e diretti da un potere politico incline al compromesso con lo stato sionista e quindi in partenza votato alla capitolazione, il quadro della disfatta è completo.
Bisogna comunque riprendere brevemente le conseguenze della Grande Ribellione e gli sviluppi del periodo della Seconda Guerra mondiale, come premesse alle sorti del primo conflitto arabo-israeliano.
Nel paragrafo sulle conseguenze politiche della ribellione araba, Benny Morris, in Vittime, storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, scrive: «gli arabi palestinesi restarono una comunità ferita a morte, e lo yishuw continuò a crescere rapidamente. L’immigrazione proseguì, influenzata più dagli eventi sul continente che dalle limitazioni britanniche; l’economia ebraica fioriva, e l’Hanagah cresceva e accumulava preziose esperienze. Perfino l’acquisto di terreni da parte degli ebrei non cessò completamente, nonostante il libro bianco. Un certo numero d’insediamenti fu fondato negli anni del conflitto mondiale, quasi tutti in zone vietate dai britannici» (1).
Già durante il periodo ’36-’39, l’immigrazione ebraica non si era arrestata, la disoccupazione all’interno della comunità sionista era stata drasticamente ridotta dal reclutamento di nuovi agenti di polizia, dal programma di lavori pubblici e dallo sviluppo delle infrastrutture – è da ricordare l’opera di crumiraggio e di luogotenenza della comunità ebraica in favore dei britannici e il boicottaggio dei prodotti palestinesi che misero in ginocchio la possibilità di sussistenza dei palestinesi - mentre il porto di Tel Aviv, sbocco strategico per lo sviluppo economico sionista, continuava la sua crescita.
La lealtà verso i britannici da parte delle due maggiori organizzazioni sioniste, tranne il LHI, si concretizzò con l’appoggio agli Alleati. Nel giorno della dichiarazione di guerra britannica alla Germania l’esecutivo dell’Agenzia Ebraica dichiarò che: «in questo momento fatale, la comunità ebraica ha una triplice preoccupazione: la difesa della patria ebraica, il benessere del popolo ebraico e la vittoria dell’impero britannico».
Ottenere uno stato ebraico, nel quadro del commonwealth imperiale, sull’intera Palestina, che nella terminologia sionista di allora: Erez Israel maaravit, ovvero Terra di Israele Occidentale, era un obbiettivo che caratterizzava tutto il movimento sionista, ecceto una sparuta minoranza, che parteciperà comunque attivamente alla lotta di “liberazione nazionale” sionista.

I rifugiati troveranno il loro posto nella diaspora. Grazie alla selezione naturale. Alcuni resisteranno, altri no […] La maggioranza diventerà un rifiuto del genere umano e si fonderà con gli strati più poveri del mondo arabo.
Moshè Sharet, capo del Dipartimento
politico dell’agenzia ebraica

I. Eldad, giornalista israeliano d’estrema destra, ex-appartenente al gruppo LHI, universalmente conosciuto come Banda Stern, si chiedeva sul quotidiano «Haarez» del 14 novembre 1985, perché molti laburisti israeliani facessero mostra di scandalizzarsi per le attuali posizioni del Likud e della destra israeliana favorevole allo stato ebraico su tutta la riva occidentale del Giordano e al trasferimento degli arabi palestinesi: in verità sono queste le posizioni a suo tempo pure assunte dai maggiorenti del laburismo israeliano.
Infatti, il progetto sionista in tutte le sue varianti di “destra” e di “sinistra” aveva, e ha, come prospettiva strategica la creazione di uno stato sufficientemente grande, omogeneamente popolato e socialmente coeso, economicamente auto-sufficiente, militarmente adeguato allo scontro con la popolazione locale e con gli stati arabi vicini, con un appoggio attivo internazionale da parte delle comunità ebraiche, egemonizzate dal sionismo, e una tutela imperialista sicura, che non da subito, ma abbastanza precocemente, troverà negli Usa (2).
Il progetto di trasferimento senza ritorno della popolazione palestinese e di colonizzazione delle terre strappate, ne era la premessa necessaria e ineludibile.
Come ha scritto lo storico Israeliano “ufficiale” Joseph Heller nell’introduzione di: La lotta per lo stato ebraico – la politica sionista negli anni 1936-1948, raccolta di documenti e di discussioni che si svolsero in campo sionista in quegli anni cruciali: « il progetto rivelò che nella sostanza le differenze tra Organizzazione Sionistica e la Nuova Organizzazione Sionistica di Jabotinsky non erano […] che tattiche» (3).
Questa omogeneità progettuale nei fini di tutte le correnti sioniste aveva e ha tuttora solo sfumature tattiche sui mezzi per la realizzazione della “Grande Israele”: l’eliminazione fisica delle sue avanguardie politiche, il trasferimento della popolazione palestinese con ogni mezzo necessario, la distruzione della base materiale tradizionale di sussistenza di questo popolo (abitazioni, coltivazioni, vie di comunicazione tradizionali) e la cancellazione di ogni traccia della sua presenza sul territorio, la sconfitta militare di chi si oppone a questo progetto, ne sono gli strumenti indispensabili.
Le missioni diplomatiche, l’uso politico dell’olocausto e della questione dei profughi ebrei, il terrorismo delle squadracce sioniste e la mancata volontà di affrontare il problema dei profughi palestinesi, la profonda militarizzazione e corporativizzazione del corpo sociale sionista e l’assimilazione forzata - nel processo di nazionalizzazione delle masse sotto l’egemonia laburista - sono aspetti fondamentali dello sforzo sionista nel nation building, che caratterizzano sin dalle origini lo stato “ebraico” (4).
Tornando alla guerra “assimetrica” arabo-israeliana, è necessario citare la prima teoria militare che possa essere considerata israeliana: Tochnit Daleth, il cosiddetto piano D, elaborato dal generale Ygael Yadin, capo del dipartimento operativo delle Forze Armate Israeliane (ufficialmente costituite il 31 maggio del ’48), e lanciato il 10 marzo ’48, come anticipazione dei previsti scontri militari tra la comunità ebraica, in procinto di creare uno Stato, e la comunità araba, col probabile intervento degli eserciti degli Stati arabi.
Il piano D non seguì le sorti di molti altri piani militari che, formulati dallo stato maggiore dell’esercito, vengono poi riposti in uno scaffale: questo fu realmente attuato, e costituì lo sviluppo lineare dell’evoluzione del pensiero militare in ambito sionista, lo sbocco necessario della strategia della difesa aggressiva applicata ai metodi di guerra moderna.
Il 14 maggio 1948 fu dichiarato lo stato d’emergenza D e tutte le unità di combattimento ricevettero l’ordine di mettere in atto il piano.
Il preambolo del piano D è una sintesi della “missione” sionista, mentre le misure da adottare per tali fini sono: «distruzione dei villaggi per mezzo di fuoco, esplosivi e mine, specialmente quei villaggi su cui non può essere esercitato il controllo. L’acquisizione del controllo avverà secondo i seguenti metodi: accerchiamento e ispezione del villaggio e, in caso di resistenza, distruzione delle forze resistenti ed espulsione della popolazione al di fuori dei confini dello stato» (5).
Se le varie articolazioni particolari del piano ebbero più o meno successo, complessivamente la strategia militare che si concretizò con i bombardamenti aerei e l’uso d’artiglieria, seguiti dalla scorribanda dei mezzi corazzati e dai saccheggi e violenze nei villaggi con fucilazioni e attentati dinamitardi sulla popolazione inerme, sottoposta ad una pressante guerra psicologica orchestrata dal nemico, fu vincente e tralasciò abbondantemente ogni distinzione tra un atteggiamento collaborativo o ostile della popolazione araba locale, tanto che lo stesso Servizio Informazioni Israeliano, stimò che durante la tregua, ben 3/4 delle espulsioni erano il risultato diretto della campagna di terrore sionista.
Bisogna ricordare che tutto questo fu sostenuto da un’accorta capacità d’intelligence e di “camuffamento” delle proprie spie sguinzagliate a raccogliere informazioni e a diffondere notizie preoccupanti sulle stragi sioniste e l’arrendevolezza degli eserciti arabi: ascolto telefonico dei dirigenti arabi, creazione di una rete d’informatori all’interno delle organizzazioni arabe, istituzione di un centro per la propaganda psicologica specie tramite una stazione radio in lingua araba, furono strumenti utilizzati dai sionisti, che trovavano un avversario completamente sprovvisto e all’oscuro di tali strumenti.
Ancora oggi, nonostante la documentazione dimostri l’esatto contrario, lo stato ebraico propaganda la tesi di un esito volontario dei palestinesi stimolato dalle direttive degli eserciti arabi e dalla convinzione di una guerra lampo sui sionisti, mentre le stragi nei villaggi palestinesi anziché essere considerate parte di un progetto organico di pulizia etnica sono considerate - così come le azioni contro i diplomatici inglesi - episodi isolati ed eccezionali di diretta filiazione dei gruppi dell’estrema destra sionista: che i membri di questi gruppi abbiano goduto della più grande impunità, e che anzi abbiano avuto rispettabili percorsi di carriera al pari degli altri padri fondatori, parte del gotha della classe politico-militare israeliana fino ad oggi, rende ancora più improbabile una netta distinzione tra falchi e colombe israeliani.
A tappe successive, ma in un margine di tempo assai ridotto la palestina venne spopolata: 60.000 persione evacuate fino al massacro di Dein Yassin, parte dell’elité palestinese che fu la prima ad abbandonare la propria terra, 350.000 fino al giugno ’48, 160.00 nel luglio ’48, 175.000 tra ottobre ’48 e febbraio ’49.
Al trasferimento e alla distruzione seguì il rifiuto più netto alla possibilità che i profughi tornassero e la rapida colonizzazione dei territori, senza che fosse assolutamente smobilitata, ma anzi perfezionata, la macchina bellica sionista e lo spirito da nazione in armi sotto assedio.

Io sono l’uomo senza nome
Senza origine sulla mia terra
Dalle mie mani impastata.
Passaporto, Mahmud Darwish

«Per i palestinesi» scrive Rashid Khalidi, nell’introduzione a Identità Palestinese, la costruizone di una moderna coscienza nazionale, «l’esperienza decisiva che chiarisce subito alcuni dei fondamentali problemi legati alla loro indentità, ha luogo lungo una linea di confine, in un aeroporto, a un posto di blocco, cioè in corrispondenza di una di quelle moderne barriere dove vengono controllate e verificate le identità. Quanto accade ai palestinesi in quei punti di attraversamento li rende consapevoli di quelli che essi hanno in comune come popolo. Perché è su quelle linee di confine, e davanti a quelle barriere, che sei milioni di palestinesi vengono sottoposti ad un “trattamento speciale” e sono costretti a ricordare la loro identità: a tener presente chi sono, e perchè sono diversi dagli altri» (6).
È il risultrato dell’esperienza della Diaspora, prodotto dell’espulsione.
C’è chi ne conserva il ricordo ed è memoria vivente di una ferita ancora aperta, assieme ad un qualche oggetto della vita quotidiana strappato furtivamente al destino cinico e baro, c’è chi ne ha memoria perché la narrazione orale di quegli eventi è divenuta trama ed ordito del tessuto connettivo del proprio passato e ragione di lotta per il proprio presente, c’è chi attraverso la sapiente costruzione della memoria delle organizzazioni palestinesi ne ha appreso il significato che vive nella coralità dei canti, nella vivacità della poesia e nei movimenti delle danze tradizionali.
Prima del 1948, nei 16 distretti in cui era divisa la Palestina mandataria esistevano 475 villaggi arabi, attualmentene ne esistono solo 90, gli altri 385 essendo stati distrutti da israeliani.


All’atto della creazione dello stato d’Israele – 15 maggio 1948 – in Palestina la popolazione era sostanzialmente divisa in due gruppi: gli arabi palestinesi che assommavano a 1.380.000 individui e i coloni sionisti distribuiti nelle colonie e in alcune città. Questi ultimi erano 649.000.
Nell’area che divenne stato ebraico vivevano 860.000 palestinesi. Dopo le espulsioni e gli spostamenti di popolazione dovuti agli eventi bellici tale cifra si ridusse, stando al censimento israeliano dell’8 novembre 1948, a sole 69.000 persone.
Tuttavia dopo gli accordi armistiziali (gennaio-luglio 1949), la popolazione arabo palestinese del nuovo stato israelinao, era salita a 160.000 persone e ciò a causa del programma di riunione delle famiglie, e a causa della cessione, da parte della Giordania ad Israele di una serie di villaggi ancora abitati della zona cosidetta del “Triangolo”.
Occorre poi tenere conto di un certo numero di palestinesi che riuscirono a rientrare furtivamente, infiltrandosi attarverso le nuove frontiere.
Consideriamo il problema dei profughi, scoglio su cui si abbatte e si si è abbattuta ogni ipotesi di accordo tra israeliani e palestinesi non per semplice indisponibilità reciproca ad un margine di dispoonibilità accettabile dal proprio interlocutore, ma per una ragione storica obbiettiva che rende i due punti di vista irrimediabilmente contrapposti e irriducibilmente antagonisti.
Cerchiamo di dare un quadro della dislocazione e della consistenza attuale di parte della nazione palestinese in esilio.
In Cisgiordania vivono attualmente 600.000 profughi originari per lo più della regione centrale della Palestina, di cui un terzo circa nei 19 campi profughi, mentre la maggioranza vive in città e in campagna.
A Gaza, che è una delle zone più densamente popolate al mondo, risiedono 800.000 rifugiati, provenienti per più della metà dalla regione mediorientale della Palestina; vivono in uno degli 8 campi dell’UNWRA. Sovraffollamento, povertà, condizioni igenico-sanitarie precarie e formazione carente sono più acute che altrove.
In Libano vivono circa 350.000 profughi, di cui 200.000 nei circa 12 campi.
I Palestinesi sono formalmente e legalmente stranieri, non possono fare ben 72 professioni, non possono possedere immobili, né attività economiche.
In Siria vivono poco meno di 400.000 rifugiati, di cui un quarto nei 10 campi presenti, e godono di diritti sociali ed economici non dissimili da quelli goduti dai cittadini siriani. La gran maggioranza degli 82.000 rifugiati arrivati entro il 1950 proveniva dalla zona settentrionale della palestina.
In Giordania, allora chiamata Transgiordania, approdarono la maggior parte dei palestinesi espulsi, circa 500.000 mila. Attualmente sono circa un milione e cinquecento mila i palestinesi, di cui 300.000 nei 10 campi profughi.

Note:

1) Pubblicato da BUR storia,luglio 2003 Milano.
2) Con l’appoggio “formale” dato agli americani nella guerra in Corea e con l’aiuto materiale dato allo stato francese contro l’insorgenza algerina, inizierà poi il suo ruolo contro-rivoluzionario attivo in aree del pianeta lontane dalla sua immediata proiezione strategica, compiendo il percorso che lo porterà a diventare ben presto potenza d’area e contemporaneamente elemento attivo della contro-rivoluzione mondiale.
Sui rapporti tra Stati Uniti e questione ebraica e progetto sionista e poi tra USA e Israele in questi anni, e in generale sull’articolazione della politica medio-orientale degli States si può leggere: gli Stati Uniti, la shoah e i primi anni di Israele (1938-1957), a cura di Antonio Donno, Giuntina, Firenze 1995, libro di impostazione filo-sionista ma che ricostruisce alcune delle tappe e dei nessi principali. Molto più interessante il libro di Andrew e Leslie Cockburn, Amicizie pericolose, soria segreta dei rapporti tra Stati Uniti e Israele, Gamberetti Editrice, Roma, 1993
3) L’opera disponibile in ebraico è stata pubblicata dal Centro per l’approfondimento di Studi di storia ebraica intitolato a Zalman Shazar, terzo presidente di Israele. È citata nel Dossier palestina-NAKBA-l’espulsione dei Palestinesi dalla loro terra, edizioni Ripostes (Salerno-Roma), 1988, a cura del Gruppo di ricerca sul Medio Oriente Contemporaneo- Milano, Collettivo Palestina, Fondazione internazionale Lelio Basso per il diritto e la liberazione dei popoli, uno degli studi più accurati e interessanti sull’argomento a cui volentieri rimandiamo il lettore.
4) Questi aspetti della costruzione dello stato sionista messi in luce da tempo dagli intellettuali palestinesi, sono da qualche anno evidenziati anche dalle ricerche storiche d’alcuni storici e politologi israeliani: Tom Segev, Benny Morris, Baruch Kimmerling, per citarne alcuni, che hanno in parte messo in discussione la narrazione storica ufficiale, ma non hanno demolito fino in fondo “i miti fondatori” dello stato Israeliano.
5) Lo si può trovare citato in differenti pubblicazioni, tra cui, tra le più recenti: Bauch Kimmerling, Politicidio, Sharon e i palestinesi, Fazi Editore, Luglio 2003
6) Edito da Bollati Borlinghieri, Torino, 2003.



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