SENZA CENSURA N.14

GIUGNO 2004

 

Tra il Grande Middle Est  e gli interessi europei nel Mediterraneo

 

Gli interessi Usa nel Mediterraneo non nascono oggi, e il lungo braccio della Nato e del Dialogo Mediterraneo hanno rappresentato, e continuano a rappresentare, lo strumento per sviluppare la sua egemonia nell’area. Di questo possiamo trovare conferma nelle evoluzioni che il processo di integrazione mediterranea ha subito negli ultimi anni, ritrovando ulteriore vitalità a fronte delle contraddizioni sviluppatesi in relazione alla gestione politico militare del conflitto palestinese, afghano e in Irak.
La politica americana ha reso ulteriormente difficile la gestione, da parte dei governi fantoccio dell’area, dei normali equilibri nei confronti degli Usa e della loro politica di aggressione. Se già la pesante repressione del Popolo Palestinese aveva risvegliato un sentimento di rivalsa nei confronti degli Usa, la guerra in Irak e il forte valore “ideologico” della capacità della Resistenza Irachena di opporsi all’invasione della macchina bellica più potente del pianeta, ha sicuramente generato un ulteriore passaggio in avanti nella creazione di una identità collettiva, che, al di là della direzione attuale o dell’interesse propagandistico di ricondurla unicamente a caratteristiche religiose, sicuramente si fonda su un sentimento antiamericano e antimperialista.
Ma parallelamente ad un sentimento “popolare”, da quanto si può vedere, osserviamo lo sviluppo di una borghesia araba e islamica che, a fronte delle contraddizioni stesse, tende a voler assumere un ruolo di non più totale subordinazione al dominio occidentale. Una lettura che non possiamo dare come definitiva, ma certo una tendenza che i fatti stessi paiono dimostrare.
Gli stessi governi dei paesi arabo mediterranei stanno sempre più sviluppando tra loro progetti di cooperazione, che se da una parte possono essere letti come normali processi di concentrazione che caratterizzano questa fase, dall’altra possono essere visti come strumenti autonomi di gestione dei loro interessi.
Potrebbe rappresentare un esempio significativo in questo senso l’accordo che vuole essere stipulato per trasportare gas dall’Egitto alla Turchia e ai paesi arabo mediterranei. Un progetto da 1,5 miliardi di dollari dal nome “Trans Mashrek pipeline”.
La mancata presenza di molti paesi arabi al G8 di Sea Island, le critiche al piano Bush del Grande Middle Est, possono rappresentare un ulteriore tassello, così come avvenuto nello sviluppo del polo europeo, di un tentativo di autonomia delle borghesia arabo islamiche. Non certamente uno scontro, ma una rinegoziazione del loro ruolo all’interno della gerarchia della “catena imperialista”. Ma anche il fronte arabo si vede spaccato sulla posizione da adottare nei confronti dell’”amico americano”. Un esempio può essere rappresentato dal fallimento della Lega Araba di Tunisi e dalle “alleanze” che si sono create all’interno dello stesso mondo arabo. Le posizioni sul piano americano di riforme hanno sicuramente determinato questo passaggio che vede il crearsi di una alleanza tra Tunisia, Libia, Algeria e Marocco, tra Egitto, Arabia Saudita e Siria, senza dimenticarsi l’alleanza di “paesi moderati arabi” che include lo Yemen, il Qatar e il Sudan.
Teniamo a precisare che l’utilizzo del termine “medio oriente” non vuole essere un adeguamento ad una categoria o ad una area geopolitica definita tale dall’imperialismo ma una scelta di “comodo” essendo di uso comune..
Nel mese di Dicembre il Segretario di Stato Usa Collin Powell annunciò il lancio della Middle East Partnership Initiative e lo stanziamento di 29 milioni di dollari per il sostegno economico al progetto di riforma dell’area. Questi vanno ad aggiungersi al miliardo di dollari stanziati annualmente. I finanziamenti dovranno servire anche all’assistenza tecnica per lo sviluppo della piccola e media impresa nello Yemen, Arabia saudita, Algeria e Libano.
L’iniziativa Usa, secondo Powell, si fonda su tre pilastri principali:
- ridurre le differenze economiche attraverso riforme, sviluppare il settore privato, favorire gli investimenti,
- sviluppare riforme politiche
- aumentare il livello di educazione scolastica e culturale
Powell ha affermato che il Governo americano lavorerà al fine di avviare riforme nei paesi coinvolti nella Middle Est Initiative in modo da sviluppare un sistema economico e finanziario che attragga capitali stranieri e impedisca la loro fuga.Verrà istituito un Fondo per lo Sviluppo del Middle Est sul tipo della Banca per lo Sviluppo Europea.
Secondo il governo americano il progetto consentirà ai paesi aspiranti ad entrare nel WTO, come Yemen, Libano, Arabia Saudita e Algeria, di disporre di un supporto tecnico e politico per completare quanto necessario ad entrare nella “economia globale”.
Ulteriori sviluppi “positivi”, continua l’intervento, si verificheranno nella accelerazione dei progetti di realizzazione di una Free Trade Area tra gli Usa e i Paesi coinvolti, così come avviene già con la Giordania ed è in via di definizione con il Marocco, con l’ambizione di riprorre tali obiettivi con l’Egitto e il Bahrain.
Il progetto viene definito come un momento storico per la politica estera americana.
Il primo visibile obiettivo, secondo gli stessi analisti, è proteggere gli interessi Usa, e le premesse non garantiscono la soluzione ai problemi che sono alla base di questa esigenza.
Quello che appare è una guerra combattuta con altri mezzi: la volontà Usa è quella di utilizzare un sistema di penetrazione “a bassa intensità”, visti i risultati poco incorraggianti della “campagna irachena” che sta estendendo a macchia d’olio la “zona di insicurezza” per la politica imperialista Usa e non solo.
Il progetto non si limita all’area mediterranea ma ha l’obiettivo di coinvolgere i paesi di una area che va dal Nord Africa, all’Asia centrale, all’Arabia Saudita, al continente Sub Indiano. Un’area di “democrazia” dove veder garantiti gli interessi americani.
Come più volte affermato il ruolo della Turchia è fondamentale in questo processo e sebbene si siano registrate accune divergenze nei rapporti con gli Usa, questo non significa che la Turchia non continui ad assumere il ruolo di “servo/garante”, insieme ad Israele, dell’imperialismo Usa nell’area.
Il documento individua in Algeria, Tunisia e Marocco i potenziali partner per garantire la sicurezza nell’area e funzionare da spinta propulsiva per le riforme economiche e politiche proprie del piano di penetrazione Usa.
Il progetto americano per un “Great Middle East” deve però scontrarsi con l’opposizione di alcuni paesi arabi e, non certo ultima per importanza, di parte della stessa popolazione, e dunque, come ricaduta conseguente, con lo sviluppo di focolai di protesta all’interno degli stessi paesi.
Le possibilità di controllo da parte dei governi sulle scelte politico-economiche e il conseguente interesse a negoziare i contenuti del Piano Usa da parte di alcune delle borghesie dell’area, sta sviluppando un notevole fermento politico, in particolare all’interno della Lega Araba.
Nel mese di marzo Arabia Saudita ed Egitto hanno steso una proposta dal nome “A Pledge and A Declaration to the Arab Nation” allo scopo di far assumere ai paesi arabi una posizione comune nei confronti del progetto Usa, cercando di mediare le resistenze presenti. In particolare viene contestata la tesi che tale progetto rappresenti una ingerenza negli affari interni dei paesi coinvolti, titolari delle scelte da un punto di vista economico e politico.
Il tentativo del documento è quello di far passare come necessità il confronto con il progetto americano in funzione di “far giocare al Popolo Arabo il proprio ruolo nello scacchiere mondiale” e di consentire “lo sviluppo della civilizzazione attraverso l’interazione con il resto del mondo”.
Tuttavia lo stesso Segretario Generale della Lega Araba Amr Moussa ha confermato l’impossibilità attuale di rispondere unitariamente alla proposta americana date le profonde divergenze esistenti.
Egitto, Kuwait e Arabia Saudita sono favorevoli ad una trattativa sulle riforme con gli Usa e gli altri paesi occidentali, purchè tengano conto degli interessi arabi. Siria, Libano e Yemen hanno espresso la volontà di rifiutare il piano perchè lo considerano una inteferenza nei loro interessi. Da parte del Bahrain e del Qatar si evidenzia una certa cautela, rimandando di fatto il giudizio alla verifica sulla reale portata del progetto stesso.
Per alcuni dei governi fantoccio dell’imperialismo, l’obiezione sta più nella forma che nella sostanza, richiamando gli Usa a cercare un maggiore coinvolgimento delle parti interessate nella definizione del piano di intervento. Una sorta di “concertazione imperialista”.
Nel frattempo il sosttosegretario Usa agli Affari Esteri Marc Grossman si è recato in Marocco, Giordania, Egitto e Bahrain per sponsorizzare il progetto Usa, definendolo “la possibilità di eliminare quelle disparità con i paesi occidentali nelle condizioni di vita e le sacche di povertà che sono alla base dello sviluppo del terrorismo”. Ma anche in questo caso il giudizio da parte dei paesi in questione è stato nella maggioranza dei casi di ostilità.
Secondo la Siria, per bocca del suo Vice Presidente Abdel-Halim Khaddam, questo progetto rappresenta un ritorno al passato coloniale, alla situazione pre Prima Guerra Mondiale, dove la politica dei paesi occidentali si caratterizzava da una spartizione tra loro delle risorse e territori.
Anche il Ministro degli Esteri Sudanese ha posto obiezioni al progetto, dichiarando “che le riforme imposte dall’esterno sono destinate a fallire se non vengono pensate all’interno di una partnership chiara”.
Durante il Meeting informale dei Ministri degli Esteri Arabi al Cairo nel marzo di questo anno, precedente al “posticipato” summit della lega Araba che avrebbe dovuto tenersi a Tunisi tra la fine dello stesso mese e i primi di Aprile, è stato evidenziato chiaramente il tentativo di alcuni paesi arabi di far passare la linea di confronto con gli Usa sul progetto, insieme al tentativo di non far apparire le riforme in atto in alcuni paesi come un “allineamento” ai dettami Usa. Il rappresentante giordano ha infatti dichiarato che la Giordania ha già da tempo, precedentemente al progetto Usa di Great Middle East, intrapreso riforme economiche e politiche, come peraltro Egitto e Kuwait.
Viste le premesse, i timori per la sicurezza Usa non sono infondati. Alla metà del mese di marzo circa 200 uomini delle truppe speciali Usa sono state inviate in Mauritania, Mali, Chad e Niger a protezione degli interessi americani. Con Marocco, Algeria e Tunisia è stata ulteriormente rafforzata la cooperazione militare ed in particolare per quanto riguarda l’antiterrorismo. Secondo alcune fonti pare che le truppe americane siano già intervenute al confine tra il Ciad e il Niger contro persone sospettate di appartenere al Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento algerino.
Le intenzioni americane si comprendono chiaramente dalla scelta di voler costruire una base militare sull’isola di Cipro. Una base che dovrebbe svolgere una funzione di rafforzamento della presenza Usa nel Mediterraneo, ma che soprattutto rende disponibile una “rampa di lancio” per le azioni in Nord Africa e nel Middle Est. La base infatti dovrebbe avere le carattersitiche proprie delle basi costruite in Asia Centrale, con una presenza di truppe a rotazione pronte a ricevere eventuali contingenti necessari alle operazioni militari. La base consentirebbe maggiore flessibilità, secondo fonti locali, per quanto riguarda la difesa degli interessi petroliferi nel Mar Caspio, in Asia Centrale e nel Middle East.
Francia e Germania, pur plaudendo alla iniziativa americana e ad una collaborazione transatlantica in merito, hanno congiuntamente evidenziato differenze all’approccio che tale intervento deve prevedere. Definisce chiaramente distinte le modalità di approccio della Ue da quelle intraprese da Washington e che in futuro potranno essere assunte in quadro Nato. Il documento richiama gli Usa ad una maggiore collaborazione tra Usa-Ue e Middle Est nella realizzazione delle riforme nella “regione”, criticando l’approccio unilaterale degli Usa che potrebbe portare ad un generale rifiuto di tale iniziativa. Il documento, assunto dalla Ue come base per la propria politica nell’area, focalizza l’attenzione su alcuni punti chiave:
- gli stati coinvolti devono partecipare alla definizione delle riforme necessarie e alla definizione della loro applicazione
- ogni iniziativa deve tenere conto delle differenze tra i vari stati in termini di cultura, religione, ecc.., senza nessuna stigmatizzazione dell’Islam che rischierebbe di creare un clima di avversione da parte della popolazione
- qualsiasi iniziativa deve comprendere i paesi Mediterranei, del Middle est e del Gulf Cooperation Council, e costruita all’interno di quanto già esistente (Processo di Bracellona e European Security Strategy)
- le riforme devono riguardare l’economia, ma anche tutte le sfere della vita sociale
- le riforme dovranno consentire la realizzazione di ulteriori accordi e collaborazioni in quadro Nato, Ue, Onu e gli altri organismi finanziari internazionali.
- è necessario rinvigorire il processo di pace per la Palestina
La scommessa degli analisti europei è la preferenza da parte dei paesi coinvolti nella Middle Est Initiative dell’approccio dell’imperialismo europeo, considerato meno “invasivo” di quello americano, data la sua capacità di non porre al centro unicamente l’azione politica come frutto del rapporto di forza derivante dalla capacità militare, rendendo meno complicata la gestione stessa delle ricadute delle politiche economiche e finanziarie nei singoli paesi e garantendo maggiore “spazio” alle borghesie o potentati dell’area.
Sono molti i paesi che oramai vivono la Ue come una alternativa agli Usa, ad esempio la Siria, con cui la Ue ha da tempo accordi di cooperazione, e con la quale gli Usa vorrebbero riallacciare rapporti di scambio.
Le differenze e l’approccio della Ue nei confronti del piano americano devono essere quindi ricercate all’interno delle differenze della gestione della propria politica di penetrazione.


Secondo uno studio del German Institute for International and Security Affairs, l’esempio più chiaro può essere rappresentato dall’atteggiamennto nei confronti dell’Iran. Per gli Usa la Repubblica Islamica dell’Iran si colloca tra gli stati canaglia; da parte Europea l’Iran viene visto come un partner “complesso” ma ritenuto tra i paesi con maggiore pluralismo politico, definendo “il progetto di democratizzazione come un processo non lineare e complesso, marcato da passi indietro e temporanei stop”. A differenza degli Usa, la Ue viene considerata come portatrice di una politica più mirata a creare strutture di cooperazione bilaterale creando un terreno di maggior confidenza e possibilità di gestione delle contraddizioni.
Un esempio portato dallo studio è la possibilità di applicare una strategia, per quanto riguarda la “soluzione” del “problema iracheno”, secondo uno schema 6+4+1 dove siano rappresentati i 6 paesi confinanti con l’Irak, il cosiddetto Middle East “Quartet” (Usa, Ue, Russia e ONU) e il neonominato governo iracheno, allo scopo di prendere decisioni sul futuro iracheno e sugli interventi da operare. La concezione americana, prosegue lo studio, si basa principalmente sul proprio vissuto di personalizzazione della politica in una figura e il suo ruolo di decision-maker, a differenza di una Europa che protende maggiormente verso al creazione di strutture bilaterali per le decisioni.
Quindi, al di là del fallimento formale della “proposta”, se così possiamo chiamarla, o meglio la difficoltà a trovare il giusto equilibrio all’interno della catena imperialista, come all’interno della riunione del G8 di Sea Island, nella sostanza vediamo che la “politica” non è differente tra i due blocchi.
La sostanza delle critiche al progetto Usa vanno quindi ricercate all’interno degli interessi che la Ue si sta giocando in Nord Africa e in tutta l’area mediterranea e mediorientale, e come molte volte evidenziato, in competizione con la politica Usa, in particolare da parte di quella borghesia europea poco incline a sottostare silenziosa alla “direzione imperialista” americana.
La Ue nel mese di Aprile ha “elargito”, all’interno del programma MEDA, finanziamenti per 34,5 milioni di euro per Marocco, Algeria, Egitto, Giordania, Libano, Siria, e Tunisia.
Pochi giorni prima è stato dato giudizio positivo sugli stanziamenti del Meda Regional Financial Plan 2004 per Algeria, Siria e Libano, che dovrebbero destinare 37 milioni di euro per l’Algeria, 18 milioni per il Libano, e 53 per la Siria. La prima parte del Financial Plan 2004 (circa 78 milioni di euro) sono già stati destinati a migliorare le possibilità di investimento e la struttura finanziaria nel quadro della Partnership Euromediterranea. Sempre per questo anno sono stati finanziati progetti per quanto riguarda la gestione delle coste (circa 15 milioni di euro) e per la realizzazione del Mediterranean Satellite Navigation Project (GNSS) e del SAFEMED Project for Cooperation on Maritime Safety per circa 4,5 milioni, da aggiungere ai 15 milioni per altri progetti “minori”.
Le dichiarazioni di Francia e Germania, successivamente assunte dalla Ue, sulla autonomia delle proprie scelte in merito alle decisioni di Washington e Nato, non si fondano semplicemente su supposizioni o prospettive.
Abbiamo più volte affrontato il ruolo della Nato come braccio Usa e del suo ruolo nella penetrazione americana nel Mediterraneo.
Tale ruolo viene confermato dal suo coinvolgimento, comunque possibile, nel progetto di Great Middle Est.
In preparazione del vertice Nato di Istambul del mese di Giugno 2004, la diplomazia Usa sta svolgendo un gran lavoro per arrivare a determinare un più largo consenso possibile al proprio progetto. Ma secondo alcune fonti governative francesi la “Istambul Initiative” rischia di non trovare consensi in quanto sembra contenere quanto già criticato all’interno del “Great Middle Est”.
Dai documenti Nato emerge chiaramente la volontà americana di condizionare le scelte che verranno ufficializzate al vertice di Istambul verso una totale sovrapposizione a quelle previste dalla Middle East Partnership Initiative. Secondo quanto riportato “l’espansione del Dialogo Mediterraneo ai paesi della regione interessati dal progetto, sulla base dell’esperienza del Partner for Peace, potrebbe consentire di costruire le basi certe per la realizzazione di uno spazio di sicurezza e libertà”. Il PfP consentirebbe inoltre, da parte dei paesi terzi, di non doversi obbligatoriamente confrontare con una alleanza organica e quindi con una partecipazione ufficiale nella Nato. Tale forma potrebbe, sempre secondo le stesse fonti, consentire di limitare le contraddizioni, visto la idea diffusa tra le masse popolari arabe e islamiche che l’entrata nella Nato rappresenterebbe una ulteriore ingerenza e controllo da parte degli Usa. Utilizzare quindi un un intervento di basso impatto, ma che nello stesso tempo garantisca la creazione di rapporti bilaterali stabili in termini di sicurezza e cooperazione militare.
La riuscita dell’intervento Nato in Afghanistan rappresenta, secondo gli stessi documenti, un banco di prova sulla possibilità del suo utilizzo futuro nell’area.
La eventuale riuscita Usa in Irak potrebbe rafforzarla.
Ma quello di cui non parlano le loro “carte” è di ciò che può indebolire questo processo. Se è fondamentale conoscere, capire, informare, questo non può esimerci da individuare il terreno pratico verso cui indirizzare il risultato delle nostre valutazioni. Le soggettività più avanzate del movimento contro la guerra si trovano obbligate a definire il loro campo di azione per il futuro, davanti ad un opportunismo che continua a collocare le contraddizioni su un piano arretrato di prospettiva, sempre imbrigliata nelle maglie del capitale e dei suoi interessi. La nostra prospettiva, davanti a questo panorama, è tutta interna alla capacità di cogliere le potenzialità di internazionalizzazione della nostra azione, sganciandoci dal rituale “scadenzismo politico”, senza per questo non parteciparci nei modi e negli obiettivi autonomamente determinati, ma intervenendo, all’interno di uno scambio reciproco e militante, nei confronti degli interessi fondamentali alla base delle attuali politiche imperialiste, siano esse ad opera di Usa o Ue.

 

ICE rafforza propria presenza a Baghdad

Nell’ottica di rafforzare il proprio sostegno alla comunità imprenditoriale italiana, alla vigilia dell’assegnazione dei 17 nuovi prime contracts per la ricostruzione dell’Iraq da cui scaturiranno un elevato numero di subappalti gestiti per la maggiorparte in loco, l’ICE ha deciso di rafforzare ulteriormente la propria presenza in Iraq con l’invio di due nuovi funzionari presso l’Antenna ICE attiva presso la Delegazione Diplomatica Speciale in Iraq.
A partire dal 29 Marzo, le aziende interessate al processo di ricostruzione in Iraq potranno rivolgere le proprie richieste di assistenza ai funzionari Florindo Blandolino e Marco Pintus che saranno a disposizione delle imprese italiane a Baghdad.


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Missione di Urso in Giordania: oltre 100 incontri bilaterali tra imprese italiane e giordane

Gli scorsi 15 e 16 marzo il vice Ministro è stato accompagnato da un folto gruppo di imprenditori italiani nei settori di maggiore interesse per i due Paesi
Nei giorni 15 e 16 marzo 2004 ha avuto luogo la visita ufficiale in Giordania del vice Ministro Adolfo Urso, accompagnato da un folto gruppo di imprenditori italiani appartenenti ai settori di maggiore interesse per i due Paesi: farmaceutico, agroalimentare, cosmetico, materiali da costruzione (marmo), packaging ed ambiente.
In tale occasione il giorno 15 si è svolto presso l’Hotel Grand Hyatt di Amman, un seminario tecnico-istituzionale, organizzato dall’ICE, MAP, Ambasciata d’Italia con la collaborazione delle Autorità locali che hanno visto impegnati rappresentanti degli Enti e delle Istituzioni preposte all’internazionalizzazione delle PMI dei due Paesi.
Obiettivo dell’incontro è stato quello di identificare e sviluppare opportunità di affari e di collaborazione economica tra l’Italia e la Giordania. Oltre al citato obiettivo specifico di favorire la collocazione dei prodotti italiani in Giordania e la costituzione di forme di presenza permanente di imprese italiane sul mercato locale, è stata dedicata una speciale sezione di lavoro alle opportunità di utilizzo della collaborazione imprenditoriale italo-giordana in funzione di ponte verso il mercato iracheno.
Dopo l’apertura dei lavori da parte dell’Ambasciatore italiano Stefano Jedrkiewicz, del V. Ministro delle Attività Produttive Adolfo Urso e del Vice Primo Ministro e Ministro dell’Industria e del Commercio Mohammad Halaiqa, sono seguiti una serie di interventi su argomenti chiave riguardanti le facilitazioni e gli strumenti a sostegno dell’internazionalizzazione delle PMI italiane e giordane.
Il V. Ministro Urso ha avuto, nelle due giornate, numerosi incontri con le massime Autorità economiche e finanziarie locali ed in particolare con il Ministro delle Finanze con il quale ha firmato l’accordo italo-giordano contro la doppia imposizione.
Inoltre, nel pomeriggio del 15 alla presenza dei Ministri sono stati siglati due accordi:
1) Accordo di Cooperazione tra UNIONCAMERE e la FEDERAZIONE DELLE CAMERE DI COMMERCIO giordana;
2) firma della lettera d’intenti per la costituzione di una joint venture tra la Societa’ Italiana Block and Rock e la Zammar Group (settore marmo).
Nel pomeriggio del 15 sono seguiti incontri bilaterali tra le aziende della delegazione italiana ed imprese giordane, nella mattinata del 16 si sono svolti incontri bilaterali tra aziende irachene, partecipanti all’iniziativa e le aziende italiane interessate alla triangolazione Italia-Giordania-Iraq.
La delegazione imprenditoriale italiana era composta da 35 membri tra imprese private, Banche ed Associazioni, mentre i partecipanti giordani sono stati circa 100. Si sono svolti circa 100 incontri bilaterali.


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Società italiana si aggiudica contratto per la produzione di energia elettrica in Iraq

28/05/2004 – Un contratto per la produzione di energia elettrica in Iraq (power generation), fino ad un massimo di US $100 milioni, è stato aggiudicato ad una società italiana.
La Bertoli Srl si è vista assegnare il contratto per provvedere alla fornitura ed istallazione, sul territorio Iracheno, di numerosi gruppi elettrogeni e relativi componenti.
I gruppi di generatori saranno utilizzati per ripristinare e mantenere in efficienza l’operatività di numerose stazioni di pompaggio, dighe e sbarramenti e su tutta una serie di infrastrutture presenti nei sei settori – petrolio, elettricità, controllo delle acque, lavori pubblici, trasporti e comunicazione , costruzioni di scuole e di ospedali – in cui il PMO ha suddiviso il sistema industriale dell’Iraq.
La fornitura comprende generatori diesel, alternatori, pannelli elettrici e di cablaggio.
Il progetto assegnato fa parte dei contratti coordinati dal PMO, il Program Management Office, che gestisce US $ 18.4 miliardi assegnati dal Congresso USA all’Iraq per il piano di ricostruzione e di infrastrutturazione del Paese.



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