SENZA CENSURA N.14

GIUGNO 2004

 

La resistenza sui due fronti

Alcune note sull’insorgenza iraquena e le sue ricadute sul fronte occidentale.

 

«La decolonizzazione è molto semplicemente la sostituzione d’una «specie» di uomini con un’altra «specie» di uomini…Ma l’eventualità di questo mutamento è vissuta allo stesso tempo sotto forma di un futuro terrificante nella coscienza del un’altra «specie» di uomini e donne: i coloni» (Franz Fanon, I Dannati della Terra)

Per un approccio fruttuoso all’attuale dinamica sociale in Iraq bisognerebbe in primis disfarsi dei retaggi della cultura imperialista, che sono una pesante eredità dei limiti storici del pensiero e della pratica politica della sinistra occidentale ed euro-centrica nei confronti delle lotte dei “dannati della terra” e allontanarsi il più possibile dalla psicologia dei conquistatori-civilizzatori che fabbricano un immagine dei popoli oppressi, e dei loro aneliti di emancipazione, funzionale alla macchina “inferiorizzante” che naturalizza le cause dell’oppressione e eternizza la condizione in cui si vengono a trovare i proletari soggiogati, tuonando contro le barbarie commesse dagli “diabolici” insorti.
Se è vero che, come scrive Tariq Ali: «a volte gli imperi dimenticano contro chi stanno conducendo una crociata e per quale motivo, ma raramente gli occupati sono presi da tale confusione», anche i possibili “nemici all’interno” di questi imperi sembrano non ricordarsi la posta in gioco essenziale e la qualità intrinseca del movimento reale in Iraq e cedono non poco sul terreno dell’interpretazione fornita dal nemico, che spesso, tra l’altro, finisce per credere alle bugie che lui stesso racconta.
Per dirla con le parole dei compagni di Action Directe: «Oggi, uno dei dati fondamentali del cambiamento epocale è dato dal fatto incontestabile che le lotte per l’emancipazione dei popoli del Sud non sono più soltanto “alleate” del fronte della Rivoluzione Socialista, ma ne sono diventate delle determinazioni essenziali».
Siamo certi che ciò che stia avvenendo in Iraq, sia una di queste determinazioni essenziali.
Non ci sentiamo immuni dai limiti espressi dal corpo militante nell’affrontare la “questione iraquena” né dal punto di vista dell’analisi, di cui la scarsa pubblicistica che non sia meramente di propaganda o che tenti una analisi che non attinga solo da fonti giornalistiche ufficiali e canali meno maistream, è un indicatore; né dal punto di vista delle prassi coerente con il proprio orientamento internazionalista, di cui le scarse capacità di costruire mobilitazioni che non si accodassero semplicemente a quelle gestite dal deus ex machina della sinistra istituzionale - in tutte le sue varianti - o di influenzare all’interno di esse la parte più ricettiva del movimento contro la guerra, è una realtà che non possiamo ignorare.
Ciò non di meno pensiamo che la guerra popolare in Iraq e lo sviluppo del conflitto sociale in Italia, così come in altri paesi dell’UE, renda la situazione più fluida, nonostante le caratteristiche strutturalmente negative del ceto politico militante e le difficoltà attuali delle componenti internazionaliste, e si debba lavorare ad un costante lavoro di costruzione delle condizioni soggettive per lo sviluppo di un orientamento e di una pratica di questo tipo.

«…Siete venuti per darci lezioni di civiltà
Noi conosciamo il senso della civiltà
dello sfruttamento e dello stupro
La civiltà della giungla
Eccoci: vi impartiamo lezioni
Sulla civiltà della liberazione
Sulla civiltà della sfida e della grande resistenza…»
(Mohammed Lamsuni, Inno a Falluja)

Nello specifico bisognerebbe avere ben chiaro la traiettoria dell’evoluzione economico-sociale di questo paese all’interno del mondo arabo, la dialettica serrata tra dominazione imperialista e quasi secolare resistenza al giogo coloniale in Iraq, e specificatamente il rapporto tra lo sviluppo della lotta delle classi subalterne, e della piccola borghesia, e le differenti formazioni politiche che ne hanno caratterizzato la storia.
Infatti, solo alcuni sbrigativi elementi cronologici della storia del Partito Comunista Iracheno, che ha avuto un ruolo difficilmente sottostimabile a partire dal 1944 e che costituisce una peculiarità iraquena all’interno del mondo arabo - o un inquadramento della questione “etnica” - in special modo quella curda - , oppure di quella “religiosa” – in specifico quella sciita -, richiederebbero un approfondimento e uno spazio tale da occupare un numero monografico della rivista, così come una trattazione estesa del corso storico degli ultimi quindici anni richiederebbe un numero a sé.
Ci limiteremo perciò a fornire alcuni interessanti contributi che per noi vanno nella direzione di questo sforzo di chiarificazione, tentativo quanto più necessario vista l’opera d’intossicazione mass-mediatica e la deleteria abitudine di dare frettolosi e superficiali giudizi liquidatori su un processo sociale in corso, da cui, tra l’altro, derivano implicazioni fondamentali non solo per l’assetto imperialista, ma anche per la ripresa dell’iniziativa autonoma di classe in Occidente.
Rielaborare le ricerche sull’argomento e fornire una più salda ipotesi interpretativa è importante quanto recepire e amplificare il punto di vista degli insorti, denunciare gli interessi delle borghesie imperialiste coinvolte militarmente, registrare i cambiamenti di relazioni nel bilancio di potenze del mondo multipolare, o affinare tutti gli strumenti che permettano di dare uno sbocco pratico alla propria opposizione alla guerra.
Sembra che l’attuale empasse del movimento contro la guerra comprendente tutti coloro che sono contro l’attuale conflitto e che si sono in qualche modo mobilitati contro di essa, nasconda la propria scarsa incisività reale sui processi decisionali delle borghesie imperialiste - minati invece costantemente dalla potenza di fuoco della resistenza iraquena - trincerandosi dietro una interpretazione della resistenza che ne giustifichi in toto la presa di distanza da essa – la spirale guerra-terrorismo tanta cara a Liberazione - , o si lanci in pericolosi distinguo tra ciò che è resistenza, rientrante nella legittimità sancita dal diritto internazionale, e ciò che è terrorismo. Mentre coloro che solidarizzano con la causa araba non sanno andare oltre un sostegno formale da movimento d’opinione di minoranza alla resistenza e superare lo stadio della battaglia politica di schieramento all’interno della sinistra. Quest’attività, tra l’altro, difficilmente trova sbocchi pratici d’intervento nella metropoli e non si relaziona il più delle volte a quella porzione di classe immigrata che più percepisce l’articolarsi dell’attacco imperialista sul fronte interno, come su quello esterno. Inoltre stenta a relazionarsi con quella parte di mondo arabo-mussulmano, nei suoi luoghi di aggregazione e di promozione culturale, che ha sviluppato una sensibilità in tale senso.
Chi parla poi di dare priorità al conflitto sociale qui piuttosto che alla resistenza là, non coglie le interconnessioni tra i due fronti e tira i remi in barca quando le contraddizioni sociali diventano così esplosive che lo sviluppo embrionale dell’indipendenza assume immediatamente le forme della guerra sociale, salvo poi versare vittimisticamente fiumi di lacrime quando si tratta di denunciare la barbarie capitalista, magari stupendosi delle torture inflitte ai prigionieri, e etichettare alcune espressioni del conflitto come evitabili ed esecrabili degenerazioni violente della guerra di tutti contro tutti, anziché considerale una risposta alla cannibalizzazione sociale.
Come giustamente scriveva Fanon: «quel che il colonizzato ha visto sulla terra, è che potevano impunemente arrestarlo, picchiarlo, affamarlo; e nessun professore di morale mai, nessun prete mai, è venuto a ricevere i colpi al suo posto né a dividere il pane con lui».
È chiaro che l’attuale assetto del capitalismo ha lavorato e lavora a fondo per impedire non solo la saldatura, ma anche il semplice contatto, lo scambio e la contaminazione tra militanti che agiscono nel centro e nella periferia dell’imperialismo, memore tra l’altro del pericolo che ha costituito l’attività di un fronte anti-imperialista agente sul piano europeo nel recente passato: paradigmatica è la legislazione che criminalizza la solidarietà internazionalista e le recenti inchieste e azioni repressive che hanno reso operanti le liste nere in UE, temi che sono sempre stati al centro dell’attenzione della rivista.
L’essere pubblicamente anche solo “idealmente” a favore della resistenza, comporta un grado elevato di sovra-esposizione e d’interessamento particolare da parte dello stato che ha le sue conseguenze evidenti sullo stato del movimento.
La sinistra istituzionale e i suoi “infiltrati” nel movimento svolgono un opera l’una di boicottaggio diretto, gli altri indiretto, quest’ultimi decidendo di volta in volta e a seconda delle divisione tecnica del lavoro, di fungere da polizia interna nei suoi ranghi – che monitorizza le spinte a sinistra e le isola talvolta dandole in pasto allo stato promuovendo ambigue campagna denigratorie e alimentando il pesante clima di caccia all’estremista - così come in alcune circostanze funge da camera di decompressione e valvola di sfogo mediata e mediatica della frustrazione accumulata per l’impotenza dimostrata nei confronti dell’ingranaggio della guerra globale, recuperando gli animi più inquieti.
Se prima, durante l’equilibrio bipolare, esisteva un blocco social-imperialista, e dei partiti comunisti che lo prendevano come riferimento, che per ragioni di real-politik si trovava ad appoggiare alcune esperienze di lotta anti-imperialista, e che contribuiva a dare loro la legittimità all’interno di un arco di forze mondiali, ora questo tipo di copertura e di sostegno, o di dialettica, non è più possibile.
In questo senso la resistenza iraquena si trova ad operare in un contesto differente da quello in cui si è sviluppata la lotta di liberazione cubana, algerina, o vietnamita, per citare solo alcuni esempi, ed è molto più simile alla coeva resistenza afgana e alla lotta palestinese dalla prima intifada fino ad oggi.
Questo è un problema di tutti i movimenti guerriglieri che si pongono attualmente nella prospettiva dell’abbattimento del potere costituito dalle FARC in Colombia, all’esperienza di guerra popolare in Nepal, al Fronte Popolare in Palestina.
Inoltre l’evoluzione capitalistica, il mutamento della struttura sociale e l’esperienza proletaria accumulata dalla fine del ciclo di lotte della decolonizzazione ad oggi, con il peso delle infamie commesse dalla casta di potere nei regimi post-coloniali e l’esaurirsi di un qualsiasi ruolo progressista dello sviluppo capitalista e progressista delle borghesie nazionali, non permettono similitudini che abbiano un valore che vada al di là dello slogan da agit-prop.
Così come l’attuale stato di crisi fa assumere alla resistenza iraquena una traiettoria e uno sbocco che trova ben pochi corrispettivi storici, se è giusto quindi individuare alcuni elementi di continuità, bisogna comunque cogliere anche quelli di rottura che delineano un quadro di riferimento sostanzialmente diverso.
Di questo “isolamento” si devono fare carico e rispondere le forze della resistenza internazionale all’imperialismo che si muovono con una prospettiva di trasformazione radicale dell’esistente e che non si accontentano di un sostegno “solidaristico” a distanza e di un atteggiamento terzomondista da maniera, un contesto in cui, è sempre bene ricordarlo, non emerge con la forza delle cose tra le file del proletariato universale lo sviluppo di una ipotesi rivoluzionaria, specialmente nei paesi dove storicamente questa pratica aveva avuto un peso reale.
Sarebbe infatti necessario cogliere le implicazioni positive che si riverberano al centro della cittadella capitalistica rispetto all’allargamento dei margini di azione politica rivoluzionaria del proletariato metropolitano, che la resistenza iraquena contribuisce ad ampliare.
Bisognerebbe farlo, senza fare forzature politiche che sovrappongano automaticamente lo stato di avanzamento della crisi tra i paesi imperialistici e i paesi “dipendenti”.
Non bisogna mettere sullo stesso piano i paesi in cui i margini di riproduzione sociale del proletariato si stanno tendenzialmente annullando - bacini prioritari di immigrazione e teatri di guerra -, dove la proletarizzazione delle classi di mezzo e la perdita della funzione sociale di queste è ad uno stato avanzato e in cui la gestione delle contraddizioni sociali oscilla tra la risposta militare frontale e la guerra a bassa intensità, con la situazione della metropoli.
Qui il proletariato vede assottigliarsi, e non scomparire, i propri margini di riproduzione, la classe media vive un costante, ma non catastrofico, declassamento e i tradizionali strumenti di ingegneria sociale per il governo delle contraddizioni mantengono una loro residuale capacità di tenuta, così come le organizzazioni storiche del movimento operaio esercitano tuttora il ruolo di mediazione sociale.
Nel caso contrario, non comprenderemmo le ragioni strutturali della mancata saldatura dei due possibili fronti di lotta o l’attribuiremmo solamente ad una mancanza soggettiva dei protagonisti delle lotte sociali nella metropoli, che non soffrono di una congenita e immutabile miopia “localista”, e alla scarsa volontà delle minoranze rivoluzionare nell’essere parte agente e incisiva: entrambi gli aspetti sono diretta filiazione del contesto e della fase in cui ci troviamo ad agire.
Comunque, sarebbe sufficiente pensare in positivo e valorizzare politicamente la fine del mito dell’ invincibilità del polo imperialistico più forte, la sua evidente vulnerabilità sul piano della guerra “assimetrica” quando si confronta con la guerriglia, la propria incapacità di risolvere ad ogni livello le contraddizioni che lui stesso produce, il logoramento degli apparati della contro-rivoluzione preventiva internazionale e la messa in discussione pratica dei piani delle borghesie imperialiste per la “ricostruzione irakena” - incapaci di assicurare quelle condizioni sufficienti di pacificazione sociale che permetterebbero la privatizzazione dell’economia, l’espropriazione delle risorse energetiche, lo sfruttamento della forza lavoro autoctona e straniera - e l’impossibilità dell’installazione delle articolazioni logistico-militari necessarie per la continuazione della guerra permanente agli altri “Stati Canaglia”, Siria e Iran in primis.
Inoltre, l’esacerbarsi della contraddizione tra una base contraria alla guerra e una sinistra guerrafondaia costretta a giocarsi la carta del ritiro delle truppe, vista tra l’altro l’inconsistenza e l’impossibilità, sul piano pragmatico, di una diversa gestione ONU, è più un prodotto della persistenza della resistenza che un merito del movimento contro la guerra nostrano.
Disgusta l’atteggiamento sprezzante nei confronti delle indicazioni politiche date dai sequestratori dei mercenari nostrani a chi ripudia sinceramente la guerra e non condivide realmente le scelte del governo.
Questi combattenti sono stati trattati paradossalmente come intrusi in una faccenda che non è affar loro, invece che partigiani esprimenti un punto di vista che, distinguendo tra governanti e governati e non facendo ricadere le responsabilità della guerra sui primi, cerca di creare un trait-d’union con il movimento pacifista, sapendo che da questo può venire la spinta per far cadere il governo della guerra e far ritirare le truppe.
Se non si da dignità politica alla pratica e al punto di vista degli insorti si rischia di far parte di quella nebulosa zona grigia che permette la riproduzione della complicità con il proprio nemico di classe.
Chi pensa di essere strumentalizzato dalla resistenza iraquena è proprio colui che a sua volta strumentalizza per i propri fini politico-elettorali la resistenza stessa che è in fondo il motivo per cui persiste qui un’opposizione alla guerra.
Anche la martellante campagna mass-mediatica, che è un’arma attiva della guerra globale, ha dimostrato i suoi limiti nel volere fornire una rappresentazione falsificata e falsificante della realtà, quando sotto i colpi costanti della guerriglia e le massicce dimostrazioni contro la presenza degli occupanti, le proteste dei disoccupati, il rifiuto di essere forza lavoro che contribuisce all’amministrazione dell’occupazione, le diserzioni tra le fila della polizia collaborazionista, gli scioperi operai è stata costretta a parlare di resistenza.
Allo stesso tempo i media continuano sempre a fornire un quadro interpretativo della dinamica sociale esistente che oscilla tra il dare rilevanza esclusiva alle infiltrazioni del “terrorismo internazionale”, all’attività dei quadri del passato sistema di potere e all’autorità di alcune figure di spicco militar-politico-religiose storicamente lasciate fuori dalla casta burocratica al potere e talvolta citare strane bande “partigiane” (termine abolito dal linguaggio mediatico) che non sembrano rientrare in queste anguste classificazioni; media che tra l’altro continuano a parlare di una fantomatica parte della società desiderosa di accogliere i valori universali della democrazia totalitaria importata con le bombe arrivando quasi a sostenere che i nemici dell’Iraq sono gli iraqueni stessi!
Nella migliore delle ipotesi il quadro sociale di riferimento rimane sfumato sullo sfondo e il punto di vista soggettivo degli insorti è puntualmente censurato, amputato, snaturato o strumentalizzato, così come l’intelligenza politica delle differenti articolazioni della guerra popolare rimane abilmente sottaciuta.
Affinché le fiamme di babilonia-che-brucia non lambiscano la prateria della cittadella imperialista e il linguaggio del sommovimento in corso sia compreso il meno possibile è necessario porre più filtri possibili alla ricezione del messaggio di ribellione sociale dell’insurrezione Iraquena.
Come afferma un testo pubblicato all’interno di Fuoco alle Polveri: «i mass media riescono a far spostar le persone quando si tratta di protestare contro l’orrore di ciò che le soggioga, ma le immobilizzano quando si tratta di dar man forte a ciò che potrebbe liberarle».
Se non si possono negare alcune sovra-determinazioni e influenze trans-nazionali, che incidono sul corso sociale, alcuni fattori, non solo ideologici ma strutturali che ostacolino la ricchezza di un movimento sociale autonomo delle classi subalterne là, non si può esclusivamente e opportunisticamente focalizzare la propria attenzione su di questi dati e soprattutto non ci si può limitare a fotografare il presente senza coglierne lo sviluppo in prospettiva, come se il proletariato non possedesse la forza di superare l’attuale ordine sociale e liberarsi di tutto il lerciume della società imperialista, tra cui coloro che lavorano “ideologicamente” per negare anche solo in via ipotetica questa possibilità; citando nuovamente Fanon «le forme di organizzazione della lotta gli proporranno un vocabolario insolito», un cibo per l’anima senz’altro meno disgustoso e alterato di quello che vogliono spacciare i conquistatori.
Il movimento contro la guerra non è riuscito ancora a trasformarsi in movimento di appoggio alla resistenza iraquena e i fenomeni di resistenza sociale non hanno trovato uno sbocco politico che li facesse concepire come una delle articolazioni di un movimento oggettivo di resistenza che travalica i confini nazionali, attraversa quelli europei e si ponesse su un piano internazionale, proprio quando i processi decisionali imperialistici e i piani di ristrutturazione sono sempre più centralizzati e immediatamente pensati a livello globale.
Per quanto le lotte di segmenti importanti della classe sul fronte interno abbiano oggettivamente ostacolato il tentativo costante di mobilitazione reazionaria di massa, non si sono concepite, nemmeno negli elementi più coscienti, come articolazioni di una lotta più generale nei contenuti e più estesa a livello geografico.
La guerra in casa in UE sembra essere stata portata solo come giro di vite sul fronte interno dalle borghesie imperialiste nei confronti del proletariato metropolitano e delle realtà antagoniste, e, come in Turchia e in Spagna, sul piano dell’azione da formazioni che non si collocano senz’altro sul fronte della resistenza di classe di matrice internazionalista, anche se una maggiore sensibilità rispetto alla resistenza anti-imperialista oltre a permeare larghi strati di proletari immigrati dell’area mediterranea e “medio-orientale” sembra fare breccia in strati del movimento per lungo tempo assopiti e annichiliti di fronte ad una delle più importanti manifestazioni di lotta alla globalizzazione capitalista.
Non si tratta di affermare un principio sancito dal diritto internazionale calpestato e calpestabile dagli stessi estensori che l’hanno reso definitivamente lettera morta, qual è il diritto alla resistenza di un popolo che ha subito una invasione illegittima, né di proiettare i propri desideri di ribellione sociale e di genuino odio di classe in contesti in cui non ci troviamo immediatamente ad operare, ma quantomeno riprendere ed estendere quelle pratiche che nella primavera scorsa avevano non solo intercettato almeno in parte i responsabili dell’imminente guerra scatenata contro l’Iraq, ma avevano collocato le possibilità di azione concreta contro la macchina bellica qui e individuato almeno a livello embrionale la rete logistica che le permetteva di funzionare.
Si tratta di integrare quest’intelligenza collettiva che si era creata e che era diventata un patrimonio comune di un movimento egemonico almeno sul piano culturale, con le nuove acquisizioni in termini di interessi in gioco e con le storiche centrali che contribuiscono all’aggressione imperialista, il cervello politico e le terminazioni nervose dell’imperialismo: far si che i loro punti di forza, divengano i loro punti deboli.

 

Nel 1857, commentando gli avvenimenti in Cina, durante la seconda guerra dell’oppio, scatenata dall’Inghilterra e dalla Francia, con l’appoggio di Russia e Stati Uniti, Friedrich Engels, in totale accordo con Marx, scrisse parole che si adattano perfettamente alla situazione nel Vicino e Medio Oriente, particolarmente ai movimenti che si svolgono in Palestina, in Iraq e in Afghanistan:

Oggi, fra i cinesi, regna manifestamente uno stato d’animo ben diverso da quello della guerra 1840-42. Allora il popolo non si mosse: lasciò che i soldati imperiali lottassero conto gli invasori e dopo ogni sconfitta si inchinò con fatalismo orientale alla volontà superiore del nemico. Ora invece... le masse popolari partecipano attivamente, quasi con fanatismo, alla lotta contro lo straniero. Con fredda premeditazione, esse avvelenano in blocco il pane della colonia europea di Hongkong... I cinesi salgono armati sulle navi mercantili, e durante il viaggio massacrano la ciurma e i passeggeri europei. Si impadroniscono dei vascelli. Rapiscono e uccidono qualunque straniero capiti vivo nelle loro grinfie. Perfino i coolies a bordo delle navi-trasporto degli emigranti si ammutinano come per un’intesa segreta; lottano per impossessarsi degli scafi; piuttosto che arrendersi, colano a picco con essi o muoiono nelle loro fiamme. Anche i coloni cinesi all’estero - finora i sudditi più umili e remissivi - cospirano e, come a Sarawak, insorgono in brusche rivolte o, come a Singapore, son tenuti in scacco solo da un rigido controllo poliziesco e dalla forza. A questa rivolta generale contro lo straniero ha portato la brigantesca politica del governo di Londra, che le ha imposto il suggello di una guerra di sterminio.
Che cosa può fare un esercito, contro un popolo che ricorre a questi mezzi di lotta? Dove, fino a che punto, deve spingersi in territorio nemico? Come può mantenervisi? I trafficanti di civiltà, che sparano a palle infuocate contro città indifese, e aggiungono lo stupro all’assassinio, chiamino pure barbari, atroci, codardi, questi metodi; ma che importa, ai cinesi, se sono gli unici efficaci? Gli inglesi, che li considerano barbari, non possono negar loro il diritto di sfruttare i punti di vantaggio della loro barbarie. Se i rapimenti, le sorprese, i massacri notturni, vanno qualificati di codardia, i trafficanti in civiltà non dimentichino che... i cinesi non sarebbero mai in grado di resistere, coi mezzi normali della loro condotta di guerra, ai mezzi di distruzione europei.
Insomma, invece di gridare allo scandalo per la crudeltà dei cinesi..., meglio faremmo a riconoscere che si tratta di una guerra pro aris et focis, di una guerra popolare per la sopravvivenza della nazione cinese – con tutti i suoi pregiudizi altezzosi, la sua stupidità, la sua dotta ignoranza, la sua barbarie pedantesca, se volete, ma pur sempre una guerra popolare. E, in una guerra popolare, i mezzi dei quali si serve la nazione insorta non si possono misurare né col metro d’uso corrente nella guerra regolare, né con altri criteri astratti, ma solo col grado di civiltà che il popolo in armi ha raggiunto.

 



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