SENZA CENSURA N.15

NOVEMBRE 2004

 

Iraq 1964-1990

Appunti di storia irachena dalla presa del potere del Baath alla prima crisi del Golfo.

 

Questo contributo sulla storia sociale irachena che inquadra il periodo tra il colpo di Stato baathista del 1964 e l’inizio della “Crisi del Golfo” dei primi anni novanta è la continuazione dell’articolo: “Appiccate il fuoco…” apparso sul numero 14 della rivista.

Il Baath al potere
Il crollo dell’Ancien Régime, sotto i colpi di un gruppo di «Ufficiali Liberi» golpisti e di un imponente movimento popolare, nel luglio del ‘58, segna l’inizio dell’esperienza post-coloniale dal punto di vista politico; mentre, con la nazionalizzazione dell’Iraqi Petroleum Company, nel giugno del ’72, prende il via il processo di modernizzazione sociale del paese.
L’opera di intervento statale nell’economia era già cominciata nel luglio del ’64 con la nazionalizzazione di tutte le banche, le assicurazioni e le 32 maggiori imprese industriali e commerciali del paese.
Ma la pianificazione economica a direzione statale ha il suo vero e proprio inizio con il consolidarsi del nucleo del Baath che sale al potere, nonostante le poche centinaia di aderenti all’organizzazione e senza avere una solida base sociale di consenso.
Con le riforme agrarie, promulgate dal ‘70 al ‘75, il potere delle vecchie classi terriere, impersonato dagli shaikh, viene spezzato insieme ai vincoli tribali che legavano i contadini alla terra.
Con l’introduzione, nel ’71, del Codice del Lavoro, viene assicurata per due decenni una sostanziale sicurezza dei posti di lavoro.
La principale risorsa dell’esperimento post-coloniale iracheno risiede nel controllo dei flussi di valore derivanti dalla rendita petrolifera e nell’aspirazione a rivestire un ruolo cardine nella determinazione del prezzo del greggio. Tale esperimento nasce, si sviluppa e declina in un arco temporale che può essere compreso tra l’impennata del prezzo del greggio, alla fine dell’anno successivo alla nazionalizzazione dell’IPC, nel ’73, fino al suo abbassamento nella seconda metà degli anni ottanta.
Qualche dato, a tal proposito, ci può essere utile a comprendere questo passaggio: nel 1970 la rendita proveniente dal petrolio ammontava a 520 milioni di dollari, ma crebbe in 10 anni di ben 52 volte fino a raggiungere, nel 1980, la cifra di 26 miliardi di dollari!


Una società in trasformazione
La re-distribuzione della rendita petrolifera, la violenza securitaria e la proiezione militare esterna sono gli assi principali sui quali si fonda il sistema politico dell’Iraq Baathista dopo il 1968.
Il nucleo degli ufficiali, usciti vincitori dagli altalenanti colpi di Stato succedutesi tra il ’64 e il ‘68, prepara il terreno per la stabilizzazione politica interna attraverso il consolidamento del proprio ruolo nelle leve di comando.
Nel luglio ’73, coopta nel governo comunisti e nazionalisti kurdi, con la creazione del Fronte Nazionale Progressista – formato dal Baath, PCI e PDK – e si assicura il ferreo controllo degli apparati di sicurezza interna e procede all’epurazione degli ufficiali non in linea con la “baathizzazione” del partito.
Il gruppo dirigente si assicura una solida collocazione nell’arco di forze del mondo bi-polare, firmando, nell’aprile del ’72, un trattato di amicizia e di cooperazione con l’URSS, criticando le condizioni di cessate il fuoco imposte da Israele e, infine, proponendosi, fino al 1978, come paese guida del “Fronte del Rifiuto” – comprendente Libia, Iraq, Algeria, Olp, Yemen del Sud, Siria – avverso al dialogo avviato dal presidente egiziano Sadat nei confronti di Israele.
Terzo produttore petrolifero del Medio-Oriente, ben provvisto di terre agricole fertili e di risorse idriche (1), risparmiato dalla pressione demografica, l’Iraq, con un rapporto di PIL per singolo abitante di 2.300 dollari, raggiunge alla fine degli anni ‘70 i paesi a reddito medio.
È soprattutto un paese in via di industrializzazione, dove lo Stato lancia ambiziosi progetti agricoli, avvia giganteschi lavori destinati alle infrastrutture e accetta “chiavi in mano” attrezzature industriali dall’occidente per diversi miliardi di dollari.
L’estrazione, la raffinazione e l’esportazione del greggio sono il cuore dell’economia irachena.
L’apertura dell’oleodotto Kirkuk-Dortyol (nel Sud della Turchia), nel 1977, e i terminal di Mina al-Bakr, nel Golfo Persico, assicurano all’Iraq la completa indipendenza in fatto di esportazioni petrolifere, cessando così con la dipendenza dalla vicina Siria verso cui, fino ad allora, veniva trasportato il greggio attraverso l’oleodotto più antico, che fu tra l’altro raddoppiato nel 1975 con una estensione Nord-Sud da Haditha a Rumayla.
Inoltre i progressi nel campo della raffinazione, che alla fine degli anni ’70 avevano portato il paese ad una capacità di 184.000 barili al giorno, grazie soprattutto alle sette raffinerie di cui due successivamente ampliate, permetteranno al governo di Baghdad di esportare la propria tecnologia verso numerosi paesi del cosiddetto Terzo Mondo.
Durante i sette anni di boom del petrolio, tra il 1973 e il 1980, l’infrastruttura petrolifera raddoppia seguendo la formidabile esplosione delle esportazioni di greggio mentre la rendita petrolifera, grazie al rialzo dei prezzi, si moltiplica per quattordici!
I benefici legati all’”oro nero” consentirono di finanziare un’industrializzazione abbastanza completa: petrolchimica a Bassora, siderurgica a Zubayr, la grande città del Sud, cementifici, raffinerie di zucchero, industrie leggere a Baghdad.
Più che la preoccupazione di accrescere l’apparato produttivo è la prospettiva sociale che guida la distribuzione della rendita petrolifera, soprattutto tra le fasce di popolazione urbanizzata, in particolare a Baghdad: garanzia di un reddito minimo, investimenti nella sanità, protezione della famiglia, tutela dei diritti della donna, eliminazione artificiale della disoccupazione attraverso il rigonfiamento dei ranghi della funzione pubblica e, soprattutto, una intensa politica di alfabetizzazione, scolarizzazione e formazione professionale.
Se, dunque, la militarizzazione dello scontro sociale segna, fin dai suoi esordi, l’instaurarsi del regime Baathista, l’integrazione della classe operaia industriale, del ceto medio urbanizzato e della borghesia agricola rappresentano l’altra faccia della medaglia.
Per non cedere il controllo delle risorse petrolifere nelle mani di notabili locali, ispiratori di movimenti nazionalisti kurdi, e per contenere l’espansione del movimento sciita, in misura tale da mantenere il proprio controllo sulla società, il regime di Baghdad applicherà “ragion di stato” e ingegneria sociale per includere/escludere consistenti fasce di popolazione.
Il nazionalismo iracheno sarà il cardine della moderna identità nazionale e l’antidoto all’emersione dell’appartenenza etnica o della fede religiosa considerati come fattori di destabilizzazione nel processo di costituzione dello Stato e dello sviluppo economico.
Brevemente, passiamo ora in rassegna le trasformazioni sociali più significative.

Lo sviluppo industriale
L’industrializzazione a cui abbiamo accennato, avviene in settori produttivi ad alta composizione organica di capitale, alimentata da grandi centrali elettriche che permettono all’Iraq di beneficiare in abbondanza di questo tipo di energia già alla fine degli anni Settanta.
Per ciò che concerne i beni di consumo e le riserve alimentari, l’Iraq risulterà sempre dipendente dalle importazioni, fatta eccezione per la produzione agricola di cereali, la cui coltura occupava la metà delle terre coltivate.
Negli anni Settanta, nonostante lo sviluppo industriale, le importazioni nel settore della metallurgia, dei beni strumentali e dell’edilizia, continuarono a rappresentare il 50% dell’import.
I fabbisogni della popolazione, specialmente quella delle metropoli urbane, non potrà mai essere soddisfatta dall’agricoltura irachena.
L’industria petrolchimica si sviluppa a partire da tre unità: la fabbrica di concimi chimici di Abu al-Khasib, il complesso petrol-chimico di Bassora e quello di Zubayr, non lontano da Bassora.

Il settore agricolo
Negli anni successivi alla presa del potere Baathista, come abbiamo già riportato, le campagne tendono a svuotarsi di quella forza lavoro le cui proprietà terriere e i mezzi di produzione non permettevano di fornire sufficienti mezzi di sussistenza a loro e alle proprie famiglie.
La precedente riforma agraria, varata sotto Qassim, aveva rappresentato soltanto una timida e parziale redistribuzione della ricchezza agricola: gli Shaikh e gli altri latifondisti si tennero per sé le terre migliori e il controllo dei canali di irrigazione e la proprietà della maggior parte del macchinario agricolo.
Con meno di quattro ettari a testa, ma più spesso con meno di due, senza l’ausilio di macchinari agricoli, e a volte senza nemmeno animali per i lavori agricoli, senza l’accesso al credito e in condizioni di vita che differivano dalle città, questa porzione della società irachena emigra nei grandi centri urbani.
Diversa è la situazione per le circa 300.000 famiglie che possedevano tra i 4 e i 150 ettari di terra, in media 15 ettari a testa. Queste dovettero far ricorso in quota significativa al lavoro salariato, costituendo, nelle situazioni più piccole, imprese semi-capitalistiche con il ricorso al lavoro stagionale e, in quelle più grandi, a vere e proprie imprese agricole.
Ma quasi metà della terra coltivabile era di proprietà statale, concessa in affitto soprattutto agli alti funzionari del partito e agli strati intermedi della burocrazia e dell’esercito.
Ciò porterà ad un tale processo di riconcentrazione della terra per cui, sul finire degli anni Ottanta, più della metà della terra coltivata a cereali, sia privata che in affitto, sarà coltivata da grandi contadini privati.
A parte il dattero, di cui l’Iraq è stato il più grande produttore mondiale, le colture industriali e gli ortaggi hanno sempre avuto un peso relativamente basso nell’agro-business.

Il settore pubblico
Bisogna sempre ricordare che in Iraq non esisteva la tradizionale amministrazione statale ereditata dall’Impero Ottomano e che il protettorato inglese nulla aveva fatto per gettare le basi di una simile costruzione; tutto ciò in una situazione di generale arretratezza, specialmente se comparata con quella nella quale si erano ritrovati Egitto, Siria, Libano e Palestina dopo la prima guerra mondiale.
Va parimenti considerato che tra i partigiani dell’unità araba avevano grande importanza gli ufficiali arabi originari delle province irachene dell’Impero Ottomano. Questi ufficiali avevano formato la società al ‘Ahd (il Patto), una delle numerose associazioni arabe create a cavallo del secolo per affermare i diritti degli Arabi all’interno dell’Impero Ottomano. Essi assumeranno una parte di primo piano nella costituzione dell’Iraq e trasformeranno gradualmente l’esercito in un pilastro del potere anticoloniale.
La burocrazia e l’esercito, progressivamente e costantemente epurati degli elementi non sottomessi all’élite al potere, rappresentano la base principale di consenso del regime.
Entrambi conoscono un vero e proprio boom grazie agli introiti petroliferi: i dipendenti pubblici non produttivi passano da 20.000 nel 1958, a 350.000 nel 1968, fino a raggiungere i 550.000 nel 1978.
Di questo mezzo milione di dipendenti pubblici ben 180.000 sono addetti a “compiti di sicurezza” al Ministero dell’Interno e al Dipartimento Presidenziale.
Secondo il partito, La “baathizzazione delle forze armate” doveva tendere a fare dell’esercito “un esercito ideologico” al suo servizio e i servizi di sicurezza dovevano sorvegliare la vita sociale nel suo insieme.
Questa politica è conseguente in un paese come l’Iraq. Il proletariato ha avuto una storia di rivolte sociali destabilizzanti per gli equilibri politici, l’esercito è sempre stato uno dei terreni privilegiati di reclutamento per la sinistra araba che in esso ha sempre creato cellule clandestine sin dai tempi del protettorato inglese e la direzione delle forze armate è sempre derivata da scontri prima della presa definitiva del potere da parte del cosiddetto clan dei “Takriti”.
Nel ’74 il Baath riafferma durante i suo congresso: «nei prossimi anni dobbiamo sostenere una politica mirante a consolidare il controllo del partito sugli altri settori dell’esercito – i servizi di sicurezza, la polizia e i corpi di frontiera», solo i membri del partito sono ammessi nei collegi e nelle istituzioni militari e tutti gli ufficiali devono aderirvi, pena la degradazione, tutti coloro che vengono meno all’impegno di operare nell’interesse del Baath vengono puniti con la morte.
Allo scoppio della guerra con l’Iran, ogni grado della gerarchia viene raddoppiato poiché, ormai, ogni ufficiale è affiancato da un temibile e onnipotente commissario politico!

La borghesia irachena
Questa porzione sociale, nei settori in cui si è sviluppata, come nelle costruzioni o nell’agro-business, è, nel primo caso, direttamente dipendente dallo Stato cliente, mentre, nel secondo caso, dipende dallo Stato per ciò che concerne la cessione della terra e i crediti a tassi vantaggiosi per l’acquisto di concimi e macchinari e per l’afflusso di forza-lavoro non autoctona precaria, flessibile e a buon mercato.
La borghesia irachena ha le sue origini per lo più negli strati medio-bassi della vecchia borghesia “parassitaria” degli anni Sessanta e non costituisce la base sociale di riferimento del regime.
Non avendo sbocchi esterni ai confini nazionali, per i suoi commerci dipende dall’andamento dei consumi interni e quindi dalla politica economica del governo.

Working class
Le stime sui lavoratori in Iraq differiscono grandemente. Nel 1977 la forza lavoro irachena è stata stimata a 3 milioni di persone di cui un terzo “classe operaia” tout court.
Bisogna ricordare che per due decenni circa è stata assicurata la piena occupazione.
Dal tempo del primo colpo di Stato baathista ogni forma di sindacalismo indipendente è stata vietata: vengono ammessi solo i sindacati di regime, creati dallo Stato e sotto stretto controllo dei funzionari del Baath, i quali selezionano fra i lavoratori quelli che partecipano ai consigli di amministrazione aziendale.
I mutamenti nella composizione sociale della working class in Iraq sono dovuti principalmente:
a) All’inurbamento della manodopera agricola liberata dal lavoro dei campi – circa 1 milione di persone – a causa di riforme agrarie.
b) All’afflusso di forza lavoro proveniente dall’estero: Marocco, Egitto, Asia meridionale, stimata da alcuni a 3 milioni di persone a metà anni ottanta.
c) All’ingresso della forza lavoro femminile che arriverà, durante la guerra con l’Iran, al 25% della forza lavoro totale. Questo soprattutto in conseguenza della militarizzazione della porzione sociale maschile arruolabile: se nel 1975, in Iraq, soltanto il 3% della forza lavoro (82.000 persone) si trovava sotto le armi, quando la guerra terminò, nel 1988, era presente nell’esercito il 21% di questa, circa 1 milione di persone.
d) Alle deportazioni dei curdi e degli sciiti del Sud dell’Iraq verso l’Iran.
e) Alla distruzione portata dalla guerra.

Dalla guerra con l’Iran alla crisi del Golfo
La cacciata dello Scià e l’affermarsi della rivoluzione islamica contro “Il Satana Imperialista” in Iran, anche a discapito delle forze laiche e progressiste come di quelle sinceramente rivoluzionarie, cambia gli equilibri della regione anche in virtù del fatto che gli USA perdono un importante alleato nell’area.
Proprio l’Iraq, in specifico le città sante sciite di Najaf e Karbala, erano state il centro propulsivo della costituzione del movimento sciita e il vivaio dei quadri dirigenti degli attuali movimenti islamisti, nonché il luogo di esilio di Khomeini, prima della Francia, che proprio a Najaf, dal 1970, tiene corsi sul potere diretto dei religiosi, pubblicati l’anno dopo con il titolo: “Il Governo Islamico”.
La direzione religiosa sciita, la Marja’iyya, sotto la leadership di Muhamed Baqer Al-Sadr, istituzionalizza il potere del religioso “più saggio”.
Gli ulema, e le tradizionali fonti di reddito che permettono di sviluppare le loro reti di influenza attraverso le scuole e le istituzioni islamiche, entrano in contrasto con il potere centrale che nel ’69 aveva ordinato l’arresto di molti capi religiosi nelle città sante e la confisca dei fondi delle scuole e dei beni ecclesiastici inalienabili ed infine la chiusura dell’università religiosa di Kufa.
Sarà proprio Muhamed Baqer Al-Sadr, padre di Moqtada, ispiratore di gran parte della costituzione della nuova Repubblica Islamica dell’Iran, a promulgare nel ’79 una fatwa che proibisce ai mussulmani di aderire al Baath e legittima il ricorso alla violenza contro la repressione del potere.
Il conflitto con L’Iran costa all’Iraq la distruzione di infrastrutture petrolifere, industriali e di comunicazione; l’esaurimento delle riserve irachene di valuta straniera; l’indebitamento dovuto per la maggior parte all’acquisto di armi; le spese aggiuntive derivate dal complicarsi degli itinerari delle importazioni a causa della guerra.
Da paese creditore l’Iraq diventa paese debitore, soprattutto nei confronti di Arabia Saudita e Kuwait.
Da paese in grado di assicurare la piena occupazione ai suoi abitanti, si ritroverà con 200.000 soldati smobilitati da ricollocare e un settore industriale da ristrutturare secondo i dettami della logica capitalistica, il livello di vita calcolato sul rapporto PIL per abitante calerà dai 6.200 dollari del 1980 ai 4.400 del 1989.
Dalla fine della guerra con l’Iran, l’Iraq aveva lanciato un imponente programma di sviluppo, confidando sul piano di dilatazione scaglionata del debito, sulla ripresa delle esportazioni petrolifere e sull’annullamento del debito contratto dai paesi arabi “fratelli”. Ora, questa dilatazione non può più essere garantita, il debito non viene cancellato e il prezzo al barile cala vertiginosamente a 8 dollari nei primi mesi del 1990.
Va da sé che ogni tentativo pilotato di fissare il costo del greggio su valori sulla base delle esigenze economiche del centro imperialista e il mancato rispetto da parte dei paesi membri delle decisioni OPEC, che tendono ad aumentare la capacità produttiva rispetto ai limiti prefissati, è visto come un attacco diretto alle possibilità di sviluppo della società irachena nel suo insieme, comporta un abbassamento dei margini di riproduzione della sua popolazione e quindi anche un elemento di esasperazione delle contraddizioni interne.
Un paese come l’Iraq, dotato di un esercito e di un apparato bellico di tutto rispetto, non può che tentare di risolvere questi problemi “interni” da un punto di vista militare trovando uno sbocco nella politica estera.
La fase che va dalla metà anni Ottanta, in particolare dal ’87, fino alla prima guerra del Golfo, segna il declino del modello di sviluppo iracheno.
Il livello di vita degli iracheni è stato sostenuto per quasi tutti gli anni Ottanta grazie ad un continuo flusso di prestiti ottenuti dai paesi del Golfo, che portano l’indebitamento estero da 2 miliardi di dollari, nel 1980, a 80 miliardi nel 1987.
L’inversione di rotta del regime, in relazione alle politiche d’ingegneria sociale per il mantenimento dello status quo, rischia di minare alla base i meccanismi di riproduzione del consenso e di invalidare l’efficacia della propria azione nel governo delle contraddizioni sociali.
Nel 1987 viene cancellato il Codice di Lavoro ed abrogate le leggi sulle pensioni e sulla sicurezza sociale, viene altresì dichiarata fuorilegge ogni organizzazione sindacale.
I lavoratori iracheni iniziano ad avere esperienza dei licenziamenti e della disoccupazione.
Nei settori industriali e dell’agro-business vengono aumentate le giornate lavorative e i carichi di lavoro grazie alla pressione dei soldati smobilitati e alla possibilità di importare mano d’opera straniera senza vincoli, che andrà a sostituire una porzione di forza-lavoro compresa fra il 40 e l’80%.
Sempre nello stesso anno, 47 grandi industrie vengono privatizzate, viene cancellato qualsiasi limite all’investimento privato e vengono varate una serie di misure a loro sostegno.
Le privatizzazioni continuano anche successivamente, sebbene il rapporto pubblico-privato non venga modificato in modo radicale, continuando ad essere largamente predominante il pubblico grazie alla presenza di grandi imprese statali ad altissima capitalizzazione.
Successivamente, il venir meno dell’appoggio dell’URSS, che fece le sue scelte in favore dell’Arabia Saudita e decise di lasciare che gli ebrei sovietici emigrassero liberamente in Israele, costituirà un fattore determinate prima della Crisi del Golfo, proprio in un momento in cui l’Iraq si stava proponendo come “polo decisionale” all’interno del mondo arabo, in seno al Consiglio di Cooperazione Araba, cercando di attirare nella sua orbita la Giordania e l’Egitto.
È chiaro che gli Stati Uniti, Israele e qualsiasi polo imperialista in formazione non avrebbe potuto tollerare questa ingombrante presenza nel mondo arabo, collocata geo-politicamente in una posizione di cerniera tra il Golfo e la Mezzaluna Fertile.
Successivamente, privato dall’embargo dei frutti della sua risorsa principale, l’Iraq avrebbe potuto trovarsi più sguarnito del più sottosviluppato degli Stati del Terzo Mondo, se non fosse stato per la tenacia e dignità dimostrata nei confronti dell’imperialismo e per la ricchezza rappresentata da due generazioni dotate di un alto grado di istruzione, acquisita in Iraq, ma anche presso le migliori scuole della tecnologia occidentale e sovietica.

La questione curda
A differenza dell’Iran e della Turchia, anch’essi stati con una significativa presenza di popolazione curda, nel 1970, l’Iraq è stato l’unico paese a concedere ai curdi un’ampia autonomia all’interno delle zone di insediamento curdo e a riconoscere l’uso ufficiale della lingua curda, attraverso l’accordo con il PDK di Barzani che, prima, nel novembre 1971, sottoscrisse insieme al Partito Comunista Iraqueno, la Carta d’azione e poi, nel luglio del ’73, entrò con il Baath e il PCI nel Fronte nazionale progressista. Ma questi sforzi non fecero cessare la ribellione sostenuta dall’Iran e da Israele.
All’origine della ripresa della guerra del Kurdistan, nel 1974, c’è infatti l’esclusione delle regioni petrolifere di Kirkuk, Khanaqin e Mosul dagli accordi per l’autonomia proclamata autonomamente dal governo.
Barzani esigeva una indipendenza maggiore dalle istituzioni, l’elezione di un presidente nell’esecutivo che fosse anche un vice primo ministro ed anche un budget finanziario proporzionato al numero di abitanti della regione. Soprattutto chiedeva che Kirkuk, Sinjar e Khanaqin venissero integrate in questo Kurdistan autonomo.
Il governo invece impose ai dirigenti curdi di ratificare il proprio progetto e quando questi si rifiutarono, furono allontanati i cinque ministri curdi e sostituiti da altri curdi legati al potere di Baghdad.
Ci volle l’accordo di Algeri, firmato nel 1975 tra Iraq e Iran, che divideva fra i due paesi le acque dello Shatt el Arab, affinché il governo iraniano togliesse il suo appoggio al movimento curdo e facesse così crollare il movimento di ribellione. La guerriglia, senza il sostegno logistico iraniano, cederà le armi, con un conseguente esodo di massa verso l’Iran e una numerosa serie di dissidenze. Alla morte di Mustafa Barzani, nel 1979, prenderanno la direzione del PDK i suoi figli Massud e Idris.
Il monopolio della rappresentanza dei curdi sarà conteso, dalla metà degli anni ’70, dall’UPK, scissasi dal PDK nel 1974, di Jalal Talabani, che si porrà come alternativa democratica e di sinistra al PDK.
Criticando la gestione “con metodi tribali”, la “connivenza con l’imperialismo” e l’alleanza con lo Scià, fattori che avrebbero portato alla sconfitta il movimento curdo, questa formazione tenderà a incrinare la leadership tradizionale, mantenendo però i metodi e gli obbiettivi che avevano caratterizzato il PDK, tra cui le trattative con Baghdad, che però falliranno.
L’inizio della guerra tra Iraq e Iran diede un nuovo impulso alla ripresa della guerriglia curda. Il PDK rinnova la sua alleanza con l’Iran. ma questa volta con la repubblica islamica. Anche l’UPK, si allea con l’Iran e alla fine dell’ ’85 interrompe le trattative con il governo.
La repressione irachena contro questo “nemico interno” non si fa attendere.
In seguito a questi eventi nasce, nel maggio 1988, il Fronte del Kurdistan Unito, che riunisce le forze politiche curde contrarie al governo di Baghdad.
 

Note:


1) Alla fine degli anni Settanta le terre coltivate costituiscono poco più del 25% del territorio dell’Iraq mentre la metà del paese è potenzialmente coltivabile. Le risorse idriche, ottimizzate dalle infrastrutture idrauliche permetteranno nello stesso periodo l’irrigazione di 35.000 Km2 di terreno agricolo.

Bibliografia

Oltre alla bibliografia fornita sul numero precedente di Senza Censura, includiamo:
- Pierre-Jean Luizard, La Questione Irachena, Feltrinelli, febbraio 2003.
- AA.VV., Iraq, dalle antiche civiltà alla barbarie del mercato petrolifero, Jaka Book, febbraio 2003, in particolare i saggi finali di G.Corm sull’Iraq contemporaneo.
- Georges Corm, Il Vicino Oriente, un montaggio irrisolvibile, Jaca Book, primo volume dell’opera in via di traduzione: Le Proche-Orient éclaté 1956-2003, Folio Histoire, 2003 per l’impostazione metodologica sullo studio del Vicino Oriente.
- Stephen Zunes, La Scatola Esplosiva, la politica americana in medio oriente e le radici del terrorismo, Jaca Book, aprile 2003, in particolare il capitolo sul Golfo Persico.
- Centro di Ricerche sul Sistema Sud e il Meditteraneo Allargato a cura di Valeria Fiorani Piacentini, Il Golfo nel XXI Secolo, le nuove logiche della conflittualità, Il Mulino, 2002.
- Théo Cosme, Moyen-Orient 1945-2002, histoire d’une lutte de classes, Senonvero, 2002, in particolare il primo capitolo della quarta parte: La version irakienne de l’intégration rentière et la guerre du Golfe.



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