SENZA CENSURA N.19

marzo 2006

 

Iraqui freedom? Iraqui resistence!

L’occupazione dell’Iraq e la resistenza irachena...


La guerra e la resistenza sono state sempre al centro del dibattito del collettivo politico redazionale che edita Senza Censura e ne cura il sito omonimo, così come costituisce un terreno di intervento centrale nell’agenda politica dei compagni che contribuiscono a questa esperienza il dare uno sbocco incisivo alla pratica internazionalista nella metropoli imperialista.
Il lavoro redazionale sino ad ora svolto ha cercato di scandagliare molteplici aspetti del binomio guerra/resistenza, fornendo vari contributi che fornissero ai compagni approfondimenti utili alla comprensione della realtà da riversare nel dibattito e nell’iniziativa, utilizzando liberamente e a piene mani la pubblicistica del nemico, così come i contributi elaborati da compagni.
Ha sempre avuto un ruolo prioritario per noi l’inquadramento del profilo strategico in cui collocare i singoli eventi, con particolare riferimento all’evoluzione del bilancio di potenza tra i differenti poli imperialisti, le politiche dei diversi stati che li compongono e le fazioni borghesi che li guidano, soprattutto in ambito NATO. Abbiamo perciò collocato in questa cornice il ruolo dello stato italiano nello scenario internazionale, così come quello dei blocchi sociali e delle soggettività che con esso, con gradazioni diverse, convergono o si scontrano.
Abbiamo cercato di iniziare a definire gli interessi economici del capitalismo made in Italy connessi alle’imprese belliche, fossero quelli dell’apparato militare-industriale italiano, come quelli delle aziende interessate al business della ricostruzione, abbozzando quali sono i referenti politici e comitati d’affari che si muovono in seno alle istituzioni.
Abbiamo tentato di iniziare ad indagare il rapporto tra ruolo affidato alle forze armate italiane sul campo e loro ri-organizzazione interna, mettendo in luce alcune specificità della funzione svolta da queste nei teatri bellici come il ruolo guida delle MSU dei carabinieri nel controllo del territorio, nell’addestramento delle forze di sicurezza in loco e nel processo formativo delle polizie con un profilo militare, come della formazione del complesso carcerario; la cooperazione civile-militare; il ruolo dell’aviazione e della marina nel controllo dei cieli e dei mari, le forze speciali, ecc.
Ci è sembrato necessario dare la voce direttamente ai resistenti pubblicandone la traduzione dei comunicati e dedicando una ampia parte della cronologia alle azioni degli insorti, così come abbiamo offerto contributi di riflessione sul movimento contro la guerra in occidente e nel mondo arabo, dando valutazioni che contribuissero a superare gli scogli e a sciogliere gli attuali nodi posti dagli attuali limiti dell’attività internazionalista.
Certamente un peso preponderante l’hanno avuto le vicende irachene, anche se è stato significativo lo spazio dedicato all’Afghanistan, e recentemente, molto ridotto, lo spazio riservato ai Balcani e appena all’inizio il tentativo di analizzare i processi di intervento italiani nell'Africa sub-sahariana e nel resto del continente, come la penetrazione in Asia attraverso l’Afghanistan.
Inoltre molto è ancora il lavoro da fare rispetto alla incessante processo di scomposizione/ri-composizione di classe del proletariato universale nelle zone interessate dai conflitti e alle indicazioni di lavoro concreto sulla solidarietà internazionale dei proletari della periferia integrata, soprattutto rispetto a quelle porzioni dell’area euro-mediterranea che i flussi migratori portano nei ghetti delle cittadelle in cui viviamo.
Abbiamo cercato di valorizzare il contributo dato da altre esperienze che si sono mosse sugli stessi filoni di analisi e con finalità convergenti a livello militante, e lavoreremo affinché la messa in relazione tra queste sia sempre più fruttuosa e incisiva, rinnoviamo l’invito a tutti compagni interessati ad intensificare e ad estendere questa collaborazione con la volontà di ospitare in seno alla rivista contribuiti che vadano in tale direzione e di offrire la nostra disponibilità ad intervenire in ambiti di confronto comuni.
Non ci sembra inutile rimarcare che non ci concepiamo come un corpo separato dalle realtà di classe che si muovono in questa direzione ed ai limiti e alle prospettive espresse da tutto il campo rivoluzionario nella concretizzazione dello sviluppo della pratica rivoluzionaria: se non pensiamo di essere esenti da critiche, crediamo comunque che sia da valorizzare il nostro modesto contributo di avanzamento sul piano analitico, sicuri di potere portare il nostro apporto ad un adeguato e necessario sviluppo politico-organizzativo in un paese imperialista in cui il proletariato metropolitano è sempre più cosmopolita e precario.
«...Oggi stiamo scrivendo un nuovo capitolo nell’arte della guerriglia urbana...»
da un comunicato della resistenza irachena


Elezioni farsa, squadroni della morte, bombardamenti...
Le terze elezioni farsa dell’Iraq sono state rifiutate prima che i risultati di queste divenissero pubblici, gli iracheni sono scesi in piazza da subito contro l’ennesima truffa che si stava perpetrando nei loro confronti.
La loro opposizione andava contro l’ennesimo passaggio legittimante la divisione del paese in patrie etnico confessionali egemonizzate dalle fazioni alleate agli occupanti, che guarda caso componevano la commissione elettorale e a cui è stata “attribuita” la maggioranza dei seggi.
Dahr Jamail e Arkan Hamed hanno scritto in dicembre da Baghdad che erano stati denunciati 1.500 casi di brogli elettorali di cui una trentina estremamente seri.
Manifestazioni si sono svolte a Baghdad, Tikrit e Mosul.
Il caso più eclatante è stato Mosul, dove la rabbia è scoppiata nel campus universitario dopo che il cadavere di Qusay Salaheddin, presidente dell’associazione degli studenti, che ha organizzato due dimostrazioni contro le elezioni farsa, è stato identificato.
Era stato rapito il 22 dicembre con un suo amico, i due corpi sono stati ritrovati due giorni più tardi, con le mani legate e il cranio perforato dai proiettili, Salaheddin era riuscito a far sapere grazie al suo telefono cellulare che era stato rapito dai Peshmerga.
Quest’ultimo non è che un esempio della politica di genocidio dell’intellighentia irachena portata avanti dagli occupanti e dai loro collaboratori. Sono più di 100 i docenti iracheni uccisi dall’inizio dell’occupazione, gli ultimi casi sono quelli di Kadhem Mashhoot Awad dell’università di Bassora e Nawfel Ahmed dell’università di Baghdad.
Proprio le città di Mosul e a Tal Afar sono, come altre città dell’Iraq, al centro di una operazione di pulizia etnica, di assassini sistematici degli oppositori e di uccisioni e sequestri di giornalisti scomodi, condotte dai miliziani Peshmerga kurdi e dalle brigate Al-Badr, parti integranti delle nuove forze di sicurezza del “governo” iracheno, oltre che, nel caso di Tal Afar di bombardamenti aerei e attacchi con armi di distruzioni di massa.
Il “Consiglio dei notabili, sheijs, e ulema della provincia di Ninive” ha denunciato tutto questo, protestando: «per la assenza di informazioni e il silenzio totale praticato dalle organizzazioni internazionali e dalle organizzazioni dei diritti umani riguardo a ciò che sta accadendo a Tal Afar e a Mosul.»
Le incarcerazioni segrete e gli assassini sistematici di oppositori da parte delle milizie Al Badr sono emersi da tempo.
Questi fenomeni sono iniziati ad essere evidenti dal maggio dell’anno scorso, soprattutto a Baghdad, ma non solo, dopo la conclusione della Operation Lightning/Thunder in cui sono stati impiegati nella capitale 40.000 soldati che hanno installato 675 check-points, con centinaia di arresti per “stanare gli insorti”.
Questa politica è la conseguenza della scelta dell’ “Opzione Salvador” discussa dall’amministrazione americana all’inizio dell’anno scorso, di cui la nomina di Negroponte come ambasciatore degli USA in Iraq è stato un passaggio necessario.
Si è trattato di usare le Special Forces per addestrare gruppi che facessero il lavoro sporco incorporandoli nelle forze di sicurezza irachene alle dipendenze del ministro degli interni, da allora si sono moltiplicati i casi di sparizioni “sospette” e la presenza di uomini con indosso la divisa della polizia, maneggianti costose pistole 9mm Glock, che parlano attraverso sofisticati sistemi radio su Toyota Land Cruisers con il simbolo della polizia.
Lo stesso sito web del pentagono, DefendAmerica, riporta il fatto che per i Bush bad boys sia stato allestito un centro di commando, controllo e comunicazione per gestire lo stato dell’arte di queste operazioni.
Vi è una lunga lista di casi storici in cui gli USA hanno operato in questo modo, dalle operazioni che all’inizio degli anni ‘50 hanno destabilizzato l’Iran preparando la strada per l’instaurazione del regime dello Shah, ai massacri perpetrati in Indonesia nei confronti dei militanti comunisti nei primi anni della dittatura di Suharto, alle circa 21.000 esecuzioni “extra-giudiziarie” compiute durante l’operazione di contro-guerriglia “Phoenix” durante la guerra del Vietnam, solo per fare alcuni esempi un po’ lontani nel tempo.
Certamente le esperienze della guerra fredda sono un patrimonio prezioso per l’attuale “guerra al terrorismo”.
All’inizio dell’anno scorso un reporter di Knight Ridder, Yasser Salihee, aveva trovato alcuni testimoni oculari disponibili a testimoniare il coinvolgimento dei commandos addestrati dagli USA in 12 omicidi... Fu ucciso qualche giorno dopo da un cecchino americano ad un check-point durante un controllo di routine.
Naturalmente alle denunce effettuate il Ministro dell’Interno ha risposto che si tratterebbe di gruppi della resistenza che sarebbero travestiti da poliziotti per fomentare le divisioni etniche, i mass-media hanno sposato e diffuso questa tesi, non interrogandosi sul peso effettivo di tale fenomeno, sull’impunità di cui godono gli artefici di tali atti e soprattutto su chi li dirige.
La disintegrazione dell’Iraq sembra un passaggio necessario per perseguire i fini americani di controllo delle risorse petrolifere e avere una presenza militare stabile in loco: la distruzione delle città irachene e l’annientamento delle popolazioni civili, la pulizia etnica funzionale alla divisione in patrie etnico-confessionali egemonizzate dai gruppi alleati agli occupanti, l’azione delle squadre della morte che rapiscono, torturano e uccidono esponenti dell’opposizione sono i mezzi più usati.
L’unica forza che si sta opponendo a questa barbarie non sono certo gli altri governi arabi, né certo il movimento contro la guerra e l’opinione pubblica dei paesi occidentali ma è la resistenza.

A proposito di Paesi Arabi.
L’incontro preparatorio a una conferenza di “riconciliazione” nazionale irachena svoltosi nella seconda metà di novembre al Cairo, promosso dalla Lega Araba e che ha visto l’Arabia Saudita come suo principale fautore e la presenza qualificata di esponenti del governo fantoccio, non denuncia assolutamente l’occupante, dice solamente che: « Il popolo iracheno non vede l’ora che arrivi il giorno in cui le forze straniere lasceranno l’Iraq, in cui verranno costruite le sue forze armate e di sicurezza, e in cui esso godrà della sicurezza e della stabilità, liberato dal terrorismo che colpisce gli iracheni e le infrastrutture dell’Iraq, e distrugge le ricchezze nazionali e gli apparati dello stato».
Più sotto evidenzia quello che può essere il contributo della Lega Araba: una forte presenza diplomatica, la formazione di nuovi quadri statali, la ricostruzione...
Lo stesso ministro della difesa Italiano Antonio Martino, ha citato tale conferenza, che dovrebbe svolgersi ad Amman in febbraio, come un esempio che si inserisce «in un quadro di crescente sostegno internazionale all’Iraq» [1].
Come ha scritto in conclusione del suo articolo sull’Al-Quds al-Arabi, Abdel Bari Atwan, chiedendosi tra l’altro come ci può essere riconciliazione tra gli iracheni che resistono e gli altri che collaborano con l’occupazione: «L’unico intervento necessario è quello di appoggiare la resistenza irachena[...] Qualsiasi altra cosa sarebbe un peccato in più nella lunga lista di peccati commessi dalla Lega Araba.»

Il valore intrinseco della resistenza irachena
La resistenza ha un valore intrinseco: non solo si oppone efficacemente all’occupazione dell’Iraq, ma impedisce una riorganizzazione complessiva della regione ed è un vettore di ricomposizione per la popolazione del mondo arabo e di crisi per gli alleati USA nell’area.
Da 15 anni circa, la soluzione definitiva della “questione irachena” è al centro del progetto statunitense di creazione di un “Nuovo Ordine mondiale”, di cui il “Grande Medio Oriente” è una tappa necessaria dell’imperialismo americano, un tentativo obbligato di uscita dalla crisi che attraversa la società capitalistica.
Gli ideologi della supremazia americana non potrebbero essere più chiari sul secolare sogno stars and stripes quando affermano di essere entrati nella «quarta guerra mondiale» e auspicano una durata di questa inferiore ai quaranta anni.
«Probabilmente bisognerà prevedere più decenni» ci informa James Woolsey, direttore della CIA dal ‘93 al ‘95, che continua: «é chiaro che la guerra terrorista non scomparirà mai almeno fino a quando non cambieremo la faccia al Medio Oriente, cioè quello che abbiamo precisamente iniziato a fare in Iraq».
Le parole dello spione americano sono state dette quando Baghdad era appena stata “conquistata” e l’Iraq era “sotto controllo” delle truppe USA, chissà se questo luminare dell’intelligence avrà rivisto le sue rosee previsioni: è certo che hanno iniziato a fare gli iracheni cambierà la faccia del mondo non solo arabo.
Infatti, ogni considerazione che prescinda dall’importanza oggettiva che ha la realizzazione dei piani USA in loco per la sua strategia di dominio globale fornisce un punto di vista fuorviante.
Se le parole pronunciate il primo maggio del 2003 sul ponte della portaerei Lincoln dove campeggiava uno striscione con la scritta Mission Accomplished, da Bush Jr che dichiarava ufficialmente finita vittoriosamente la guerra contro l’Iraq non fossero così palesemente state smentite dai fatti, le dinamiche di riallineamento della catena del comando imperialista, che attestano l’incontrastato dominio USA sul mondo avrebbero senz’altro ridotto i margini di resistenza non solo nella periferia integrata, ma nel centro imperialista stesso.
Ci sembra doveroso affermare che grazie agli iracheni siamo tutti un po’ più liberi e sicuri.

 

Occupazione, resistenza e terrorismo
La conoscenza della resistenza, per quanto possa essere superficiale per un italiano che non parla l’arabo, non abbia vissuto per un periodo in un paese arabo occupato, non abbia una conoscenza approfondita della storia di quella regione e rapporti stabili con essa, ma abbia sufficiente onestà intellettuale e volontà di soddisfare la propria curiosità, non può che rifuggire il nefasto paradigma interpretativo della spirale guerra-terrorismo e quindi l’equazione resistenza = terrorismo.
C’è da dire che la sotto-stima della resistenza è il Leit Motif della propaganda bellica dell’occupante già dal periodo di poco successivo alla fine ufficiale della guerra, a cui gran parte della sinistra, anche quella che si è espressa un po’ più chiaramente contro la guerra, si è subordinata.
Buford Blount, generale responsabile dell’area di Baghdad, dichiarava a fine maggio del 2003, dopo che un attacco della guerriglia a Falluja era costato la vita a due militari, il ferimento di altri nove e l’abbattimento di un elicottero Medevac, intervenuto in loro aiuto: «Ogni settimana subiamo qualche attacco, sparano dalle auto o usano lanciagranate, ma si tratta di piccoli gruppi, di attacchi isolati».
Gli attacchi isolati sono stati 34.131 nel 2005, il 29% in più rispetto all’anno precedente, ci informa un recente dispaccio della United Press International.
Alla sottostima pregiudiziale della sinistra occidentale si unisce il timor panico di avviare un processo di conoscenza minimamente serio su ciò che sta succedendo in Iraq.
Siamo d’accordo con Fouad Laroui, quando in un interessante analisi sulla tv satellitare araba Al Jazeera, che prende spunto dall’intenzioni di G.W. Bush di bombardare la sede del canale del Qatar, scrive sul mondo arabo: «che non è opaco se non per coloro che non lo vogliono vedere».
E qui in Italia di non vedenti ve n’è assai...
Un interprete sufficientemente critico della realtà dovrebbe avere ormai accumulato alcune certezze basilari su ciò che accade in Iraq, in particolar modo se si tratta di un compagno: sono usciti diversi contributi sulla sua ricchissima storia politico-sociale dalla sua creazione fino ad oggi, esistono bollettini aggiornati sulla resistenza consultabili su internet, essa stessa si è premurata di informarci su cosa considerare tale e su cosa invece ritenere il frutto dell’ingerenza straniera o il prodotto dell’attività di counter-insurgency degli stessi occupanti, e sul livello di collaborazione tra le forze che la animano.
I Peshmerga kurdi che hanno supportato l’invasione e aiutano l’occupazione; le Brigate Badr, addestrate in Iran, l’ala militare dello SCIRI, il Consiglio Supremo della Rivoluzione Islamica in Irak guidato da Ibrahim Al-Jaaferi del partito Da’wa; la milizia dell’INC di Ahmed Chalabi e la milizia dell’INA di Lyad Allawi sono tutte forze collaborazioniste che lottano insieme agli occupanti e alla “nuova” polizia e al “nuovo” esercito iracheno contro la resistenza, i civili e le persone “scomode”.
L’attuale esercito conta 87.000 effettivi che dovrebbero aumentare fino a 131.000 nel corso del 2006, è costituito da 10 divisioni, una - la 9° - meccanizzata, le altre nove tutte di fanteria. Complessivamente a fine novembre la NATO aveva fornito al nuovo esercito iracheno 26.000 armi leggere, 200 lanciarazzi, 10.000 elmetti, e oltre nove milioni di munizioni.
Mentre si calcola che siano circa 30.000 gli elementi delle forze di sicurezza locali in grado di operare con un certo grado di autonomia.
Lo scorso novembre sono state utilizzate massicciamente truppe irachene per la prima volta.
Durante l’operazione “Steel Curtain” più di 1000 soldati iracheni hanno affiancato 2.500 tra Marines e militari della US Army nelle operazioni di guerra, durate 17 giorni, condotte nei confini con la Siria nelle città di Hussaybah, Karabilah e Ubaydi.
Anche in questa operazione la strategia di annientamento americana attraverso massicci bombardamenti aerei su civili è continuata e si intensificata, infatti nel corso dell’ultimo anno, in Iraq, gli attacchi aerei sono passati dai circa 25 nel mese di gennaio ai 120 del novembre, causando proprio in novembre la morte proprio a Hussaybah di quasi 100 civili, e questo non è stato denunciato da una misconosciuto media indipendente, ma dal Washington Post.
Il profilo dell’intervento militare nelle città è sempre identico, prendiamo l’esempio dell’attacco a Qaim, città di 150.000 persone dell’Iraq occidentale, alla fine dell’estate scorsa.
I militari l’hanno circondata, hanno tolto l’elettricità, l’acqua e i rifornimenti alimentari, poi hanno scatenato l’inferno con l’artiglieria e i bombardamenti aerei al napalm e con bombe a frammentazione, dopo di ché i militari sono entrati in città con la copertura aerea, vietando l’entrata agli aiuti umanitari e all’assistenza medica, mentre l’informazione in Italia ci aggiornava sui rientri degli Italiani dalle vacanze estive...
La resistenza ha redatto comunicati video che oltre a mostrare il tipo d’azioni di guerriglia intraprese ha parlato a tutta l’umanità, distinguendo tra le scelte guerrafondaie dei governi coinvolti nel conflitto e l’orientamento contrario alla guerra della popolazione, invitando alla lotta contro le scelte belliciste dei governanti e al boicottaggio dei prodotti americani e inglesi, dicendo ai militari USA: «potete anche scegliere di combattere la tirannia con noi. Posate a terra le vostre armi, e cercate rifugio nelle nostre moschee, chiese e case. Vi proteggeremo. Vi porteremo fuori dall’Iraq, così come abbiamo fatto con altri prima di voi. / Tornate alle vostre case, dalle vostre famiglie, dai vostri cari. Questa non è la vostra guerra. Non state combattendo per una vera causa in Iraq».
Cosa dire di più?
Non da ultimo vi sono correnti comuniste che partecipano alla resistenza e che denunciano il ruolo dell’attuale leadership del Partito Comunista Iracheno, partecipante al governo fantoccio messo su dagli occupanti. I veri comunisti cercano di delegittimare tale dirigenza all’interno del movimento comunista internazionale, facendola apparire per quello che è: traditrice, collaborazionista, venduta a USA e soci.
Se l’alibi delle armi di distruzioni di massa è stato usato per legittimare l’ennesima aggressione militare all’Iraq, lo sforzo successivo dei media è stato quello di equiparare la resistenza al terrorismo sin dai primi attacchi della guerriglia e di presentarci questa ultima come un corpo separato rispetto alla popolazione.
Gli insorgenti usano la tattica della guerriglia per colpire gli eserciti occupanti ed i mercenari privati assoldati da questi, le forze collaborazioniste come la polizia e l’esercito “iracheno”, così come gli uomini politici messi su dagli invasori, i convogli di viveri e altro destinati agli eserciti, gli impianti e le infrastrutture petrolifere che dissanguano l’Iraq da una sua ricchezza; i resistenti sono soliti filmare le proprie azioni e ad usarle come strumento di propaganda, anche se come recita un loro comunicato: «vorremmo solo avere più telecamere per mostrare al mondo la loro reale sconfitta».
A metà gennaio il numero “ufficiale” di perdite di militari USA nel conflitto ha superato quota 2.200, sono stati abbattuti due elicotteri a distanza ravvicinata di tempo e una conduttura petrolifera a sud di Baghdad è stata ripetutamente attaccata.
Il 2 gennaio la polizia irachena ha aperto il fuoco contro un gruppo di dimostranti che a Kirkuk, nel nord del paese, stavano protestando contro la penuria di carburante facendo almeno un morto e quattro feriti.
Gli agenti, secondo il capo della polizia Moanis Ishak, sono intervenuti quando diverse centinaia di manifestanti hanno attaccato alcune stazioni di servizio e alcuni uffici dell’ente petrolifero iracheno, oltre che le stesse pattuglie. Il 18 dicembre il governo di Baghdad ha deciso di triplicare il prezzo della benzina, fino ad allora venduta a prezzi fortemente scontati.
Particolarmente rilevante è l’utilizzazione e il perfezionamento degli IED, improvised explosive devices, artefatti esplosivi di produzione per così dire domestica, che sono la causa del maggior numero di morti e feriti tra gli occupanti.
I numeri parlano chiaro: «secondo dati provenienti dal Pentagono» ci informa Carlos Varea a fine ottobre del 2005, in un articolo dal nome eloquente: La resistenza perfeziona i IED, la più caratteristica delle sue armi «e elaborati dall’Iraq Coalition Casualities Count, 302 militari sono morti tra il primo di gennaio del 2005 e il sette ottobre per l’esplosione di IED, mentre l’anno precedente ne morirono nello stesso periodo circa la metà. Il Pentagono ha destinato dall’inizio dell’occupazione in Iraq 2.530 milioni di dollari per la costruzione di veicolo blindati multi-ruota del tipo dell’Humvee ( se ne fabbricano ora 550 al mese in confronto ai 30 del maggio 2003) e altri 2.210 milioni per rinforzare la protezione degli altri veicolo di trasporto per le truppe e il materiale utilizzato in Iraq.»
Mentre i media parlano quasi esclusivamente di attacchi “suicidi” e di azioni contro la popolazione civile, sullo sfondo di una guerra civile dispiegata che, guarda caso, solo le potenze occidentali, aiutando i fantocci che hanno messo su come governanti, possono fermare; mentre attribuiscono all’ esclusiva regia di un giordano e di un saudita e dei gruppi legati alla loro organizzazioni “esogene”, la realtà ci parla di una resistenza popolare che non dà tregua all’occupante, che lotta per salvare i propri figli e non per fare si che si uccidano tra di loro e dove “i tagliatori di teste” e i propugnatori di un guerra fratricida sono una infima minoranza sovra-mediatizzata, combattuta dalla resistenza stessa e i cui fini sembrano stranamente convergere con le linee guida della politica americano-sionista nell’area [2].
Il settimanale egiziano Al-Alhram ha scritto che: «quando sono avvenute le più importanti operazioni terroriste, gli USA ne erano a conoscenza o ne erano coinvolti. Il Mossad, i servizi segreti israeliani, hanno pianificato le maggiori operazioni terroristiche in Iraq, reclutando 2.000 mercenari prima dell’inizio della guerra e inviandoli in varie città dell’Iraq per offrire protezione e sostegno alle forze d’occupazione».
E se non ci si fida di ciò che in merito dice la resistenza, o illustri commentatori arabi, almeno che si prenda sul serio le analisi degli occupanti non prodotte dai giornalisti con l’elmetto che contribuiscono alla propaganda bellica.
Secondo il recente rapporto redatto da Anthony Cordesman, esperto di politica internazionale del del Centre of Strategic and International Studies (CSIC), la percentuale di combattenti “stranieri” tra i gruppi della resistenza irachena è «ben sotto il 10 per cento, e potrebbe essere vicino al 4 o al 6 per cento», e non si capisce perché nella rappresentazione occidentale del conflitto questa percentuale di combattenti dovrebbe essere composta interamente da membri di Al-Quaida. Sempre secondo il rapporto CSIC, le operazioni condotte dalla resistenza durante il periodo che va dal settembre del 2003 all’ottobre del 2004 contro le truppe USA e le altre forze di occupazione costituiscono il 75 per cento di tutti gli attacchi, mentre quelle condotte contro i civili iracheni costituiscono il 4,1 per cento.

DisInformazione strategica e contro-informazione
Ancora una cosa su un aspetto importante della rappresentazione mediatica del conflitto.
Non è causale che a distanza di tempo emergano le barbarie compiute dagli occupanti nel mentre sono già state consumate, proprio quando le dinamiche stesse dell’informazione globalizzata e “in tempo reale” non implicherebbero di amplificare a distanza di così tanto tempo tali fatti, eventi che non vengono comunque messi in relazione con una continuità di eventi – come logica vorrebbe - che definirebbero quindi il profilo di un conflitto rispetto alle tecniche utilizzate: massicci bombardamenti sui civili e disinvolta opera da cecchino su tutto ciò che si muove, carcerizzazione massiccia e uso sistematico della “tortura”, operazioni condotte da “squadre della morte”...
Se sui bombardamenti sui civili e sulle milizie abbiamo già riferito sopra, vogliamo ricordare che dell’universo carcerario iracheno vengono a galla ogni giorno nuovi particolari, tra i quali, l'ampliamento delle strutture stesse e la costruzione di nuove: ad Abu Ghraib verranno detenuti 4.200 al posto dei circa 3.600 attuali, a Camp Bucca, nel sud, 7.200 al posto dei circa 6.450 attuali, a Camp Cropper, nell’aereo-porto di Baghdad, che ora detiene 121 prigionieri “eccellenti”, compreso Saddam Hussein, verranno “ospitati” 2.000 prigionieri, mentre Fort Suse, verrà trasformato in una prigione in grado di contenere 2.000 persone...
Se le barbarie mostrate – massacri di civili, torture, ecc. - hanno per USA e soci un indubbio valore di dissuasione psicologica nei confronti dei propri oppositori a cui è riservato un destino letteralmente annichilente, hanno anche la funzione di “riqualificare” i media come fonte d’informazione, prima che un reale assalto di una informazione totalmente altra e che scaturisca dalla necessità di fare realmente luce su cosa accade in Iraq delegittimi radicalmente la rappresentazione mediatica del conflitto, facendo si che della situazioni parli direttamente la resistenza.
In fin dei conti ciò che si rimprovera alle TV satellitari arabe è proprio una eccessiva professionalità: cercano di mostrare ciò che accade sul terreno e mostrano le immagini della resistenza.
Facciamo un esempio un po’ paradossale, se l’informazione che danno i mainstream media sull’Iraq verrebbe fornita per una partita di calcio sarebbe scandaloso: nessuna immagine della partita, intervista ai dirigenti di una sola società, nessuna informazione sul risultato.
Certamente alcune immagini mostrate hanno prodotto indignazione e fatto capire parte della barbarie imperialista in Iraq, ma nel migliore dei casi hanno momentaneamente contro-bilanciato quel continuum di immagini di civili uccisi in attentati suicidi di una parte della popolazione contro l’altra e di soldati che aiutano la popolazione civile e sfidano indomiti i terroristi.
Anche Hollywood, uno dei più grandiosi strumenti da guerra americani è in crisi: quando la produzione di immaginario è in crisi, e l’informazione che vieta di mostrare i soldati nei sacchi neri, le bare che tornano at home e proibisce ai soldati tornati in patria di parlare della loro esperienza, l’industria dei sogni ha difficoltà a sfornare icone positive ma produce piuttosto spettri e zombies...
Comunque, quando continuano a compiersi episodi identici, i media non riportano contemporaneamente un bel nulla, anzi riaccreditato le ipotesi degli occupanti (la caccia ad Al-Zarqawi) come è il caso dell’assedio a Tall’Afar in settembre, in cui i bombardamenti aeri massicci e l’attacco di 6.000 soldati statunitensi coadiuvati da circa 4.000 tra Peshmerga curdi e brigate Al Badr filo-iraniane hanno provocato una catastrofe umanitaria per i civili uccisi nei bombardamenti e l’esodo di circa 300.000 profughi dalla città.
Ma Tall’Afar non è stata rappresentata, perciò non esiste, non pre-esisteva, non esisterà, almeno che tra più di un anno l’Informazione non decida di farci vedere questo crimine contro l’umanità.
Vorremmo potere affermare che chi non ha memoria, non ha futuro, riferendoci ai Balcani. In quel caso c’è stata l’invenzione di una catastrofe umanitaria e la sua associazione ai crimini nazisti per legittimare l’aggressione alla Serbia, e la rimozione in tempo reale delle conseguenze dei bombardamenti, di un attacco condotto con 600 missioni aeree al giorno, per non richiamare alla mente Hiroshima...
Vorremmo, ma purtroppo, visto che la corretta percezione di ciò che stata la guerra nei Balcani non è patrimonio dei più, non è memoria, possiamo solo dire che fino a che “la disinformazione strategica” non verrà percepita come tale e la necessità della contro-informazione come una sua naturale conseguenza, difficilmente riusciremo non solo a non fare dei passi in avanti, ma almeno a non arretrare visibilmente.
L’informazione è una arma di guerra, la contro-informazione combatte sempre un conflitto “asimmetrico” ma necessario che oltre al coraggio intellettuale abbisogna di una forte motivazione politica, oltre che etica, una rete che crei una intelligenza collettiva in grado di sostenerla, attori disposti a sovra-esporsi ed un contesto disposto ad accoglierla e a farla circuitare a sua volta.
In sintesi il fatto che non ci sia stata una corretta informazione sulla guerra e sulla resistenza è conseguenza del fatto che non c’è stato un reale movimento contro la guerra in appoggio alla resistenza.

 

Democratizzazione, petrolio e resistenza
Attualmente non ci sono multinazionali dell’energia che operano in Iraq, in quanto non ci sono quei margini di sicurezza necessari per potere operare in quel teatro, solo 15 dei 70 piattaforme estrattive conosciute sono adeguatamente sfruttate.
Non vi sono le condizioni per cui gli investimenti diretti nel risanamento dell’industria petrolifera possano essere profittevoli, in quanto non possono essere assicurati da una adeguata estrazione del greggio.
Il cosiddetto processo di “democratizzazione” – la nuova costituzione, le elezioni, e la nuova legislazione - è strettamente legato all’apertura alle multinazionali straniere, la ricostruzione irachena sarebbe ripagata con la vendita del suo petrolio.
La trappola del debito contratto con le condizioni di restituzione del prestito imposte dai donatori, permetterebbero alle multinazionali di mettere le mani sui giacimenti del terzo paese con le riserve stimate più grandi al mondo, pari a 115 miliardi di barili.
I Production Sharing Agreements (PSAs) – gli accordi di spartizione della produzione, erano già stati proposti dall’amministrazione americana prima dall’invasione e fatti poi propri dalla Coalition Provisonal Authority – l’autorità provvisoria – , ora, l’attuale governo ha accelerato questo processo. Sta già negoziando i contratti con le compagnie petrolifere in parallelo con il processo costituzionale, le elezioni e il licenziamento della legge sul petrolio.
Il Fondo Monetario Internazionale ha approvato il 24 Dicembre un prestito per l’Iraq pari a 685 milioni di dollari: è una sorta di auto-aiuto delle multinazionali, che vincoleranno l’Iraq alle condizioni dittatoriali che i paesi che hanno subito il processo di globalizzazione già conoscono.
Ma i fautori della globalizzazione incontrano sulla propria strada la Resistenza Irachena.
La Resistenza aveva ben chiaro quale era la posta in gioco in Iraq e quali erano le carte che doveva giocare.
In un comunicato del 13 Maggio del 2004 il Partito Socialista Arabo – Baath, proclamava: «Il Petrolio iracheno… Sarà un legittimo e permanente bersaglio dei progetti della resistenza armata per liberare l’Iraq e sconfiggere gli invasori… La resistenza armata userà ogni possibile mezzo tecnico e militare per impedire all’occupante di rubare il petrolio iracheno e usare i suoi proventi, in qualsiasi circostanza, a livello nazionale ed internazionale…
Con queste premesse, chiunque collabori con l’occupante, come addetto, commerciante o intermediario, sia iracheno, arabo o non-arabo sarà monitorato e diverrà un bersaglio senza alcuna esitazione.»
Come riportato da Al Jazeera, a gennaio il Ministero iracheno del Petrolio ha dichiarato che la produzione ha raggiunto il suo livello più basso dalla fine ufficiale della guerra e che «l’esportazione di greggio, che procedeva ad una media di 1,6 milioni di barili al giorno dall’inizio della guerra, è calata a 1,2 in novembre e ad 1,1 in dicembre».
Il successo della resistenza è quantificabile in termini di riduzione delle esportazioni petrolifere: nel 1990, l’Iraq esportava 3,5 milioni di barili al giorno.
Tra il maggio del 2003 e la fine di ottobre del 2005, gli osservatori hanno riferito di ben 282 attacchi contro le infrastrutture di trasporto petrolifero.
Inoltre, Il FMI ha chiesto che il Ministero del petrolio eliminasse le misure di calmierazione dei prezzi per il consumo domestico iracheno, misure che hanno naturalmente provocato un ulteriore ostilità nei confronti della corrente occupazione.
Queste misure di aggiustamento sono solo un parziale assaggio delle ricette che il FMI ha previsto per l’Iraq, forte tra l’altro ora del prestito concessogli a dicembre: al centro delle riforme strutturali dell’economia ci sta il controllo diretto delle risorse petrolifere da parte delle transnational corporations che decideranno i termini con cui queste risorse verranno vendute.
Ma le capacità di sabotaggio delle condutture petrolifere si stanno sempre più affinando e non rendono solo assolutamente dis-economico l’estrazione e il trasporto del greggio, ma non permettono appunto di realizzare i sogni di Paul Wolfowitz and Dick Cheney che l’Iraq pagasse la propria ri-costruzione, cioè le multinazionali che in essa avrebbero investito, con i proventi del greggio.
Come si poteva leggere in un rapporto del mese di Dicembre della Berclay’s Capital: «l’integrità complessiva delle infrastrutture petrolifere irachene ci appare che sia arretrando invece che avanzare.»
«Mentre i proventi dei giacimenti già scoperti e sfruttati» scrive Gabriele Colombini, in Iraq: all’ombra delle elezioni, su «Tecnologia e Difesa» del Gennaio 2006 «prima dell’approvazione delle Costituzione saranno gestiti dal governo centrale e ridistribuiti a tutto il paese, lo sfruttamento delle risorse individuate successivamente al 25 ottobre saranno proprietà delle regioni cui giacimenti appartengono e che, quindi, potranno trattenerne i guadagni. Ciò interessa sia il Kurdistan che le regioni dell’estremo sud, al confine con l’Iran. A Taq Taq, tra Erbil e Kirkuk, le riserve petrolifere già vengono stimate in circa 130 milioni di barili, ma nonostante questo sembrano irrisorie di fronte ad una miriade di giacimenti di piccole e grandi dimensioni, mai esplorati, che potrebbero custodire miliardi di barili di petrolio. Territori, questi, controllati dai peshmerga, i soldati kurdi inseriti formalmente nel nuovo esercito irakeno ma fedelissimi ai propri capi tribù, e che sorvegliano una regione potenzialmente ricchissima, attraversata da un oleodotto che attraverso la Turchia raggiunge il Mediterraneo e i mercati mondiali. A Dohuk si sta progettando un impianto di raffinazione gigantesco: come non legarlo a queste prospettive e ai faraonici progetti di sfruttamento, visto che il petrolio esistente nella regione è, per ora, solo quello proveniente dal martoriato oleodotto di Kirkuk?».
Sembra che uno dei tre nuovi campi petroliferi che il governo autonomo curdo ha cominciato a perforare sia proprio vicino a Dohuk e che Barzani abbia sottoscritto un accordo con la compagnia norvegese “DNO” per tali opere al confine con la Turchia, sancendo il primo accordo di tale tipo dall’inizio dell’occupazione.
È chiaro che le fazioni che governano le milizie Peshmerga e le brigate filo-iraniane Al Badr hanno delle solide ragioni per affermare la propria egemonia all’interno del processo di disintegrazione dell’Iraq in patrie etnico-confessionali, e ad affermare il proprio dominio incontrastato sulle porzioni di territorio “conquistate” grazie agli occupanti.
Queste milizie contribuiscono al processo di “democratizzazione” affiancando gli occupanti nelle loro operazioni militari sulle città, sono tra i principali artefici della pulizia etnica e fungono da squadroni della morte con i sequestri, le torture e le uccisioni degli oppositori.

[Questo contributo è stato scritto avvalendosi degli articoli riportati sui seguenti siti:
- “Center for Research on globalization”: www.globalresearch.ca, in particolare, di quelli contenuti nella sezione “Iraq Report”, quelli di Ghali Hassan, Chris Floyd, Michel Chossudovsky
- “Campaña Estatal Contra L’Ocupation y Por La Soberania de Iraq”: www.iraqsolidaridad.org che contiene tra l’altro anche numerose traduzioni in castigliano di vari contributi anche in arabo, tra cui vogliamo segnalare gli articoli di Carlos Varea
- “Comité de solidaridad con la causa arabe”: www.nodo50.org/csca, che contiene tra l’altro anche numerose traduzioni in castigliano di vari contributi anche in arabo, tra cui vogliamo segnalare “diarios della resistenza iraquì” una cronaca dettagliata e aggiornata della resistenza;
- Un bollettino della resistenza aggiornato quotidianamente in italiano si trova sul sito di: http://www.albasrah.net, specificatamente alla pagina: http://www.albasrah.net/moqawama/iraqiresistancereport_italian.htm
- il sito di Michel Collon, http://www.michelcollon.info/ che contiene molti inviti alla lettura
- Oltre alla consultazione delle riviste mensili : «Tecnologia e Difesa», «Rivista Italiana di Difesa» e «Panorama Difesa»]


Note

1 Il “Comunicato finale” della “Riunione preparatoria alla conferenza di riconciliazione nazionale irachena” svoltosi al Cairo, il 19-21 novembre 2005 si trova sul sito: http://www.osservatorioiraq.e specificatamente alla pagina web: http://www.osservatorioiraq.it/modules/wfsection/article.php?articleid=1784

2 Con questo non vogliamo assolutamente associare i cosiddetti attacchi suicidi contro gli occupanti e i loro collaboratori alle forze al soldo di una frazione della borghesia petrolifera arabo-islamica, perché sarebbe falso, né tanto meno denigrare i martiri che hanno deciso di sacrificare la propria esistenza in azioni contro il nemico, con euro-centriche spiegazioni moralistiche sulle ragioni del martirio tanto distanti dalla realtà quanto coloro che le formulano.

 

Mercenari in Iraq e in Afghanistan
Per molte settimane dopo la fine proclamata della guerra la presenza delle Private Military Companies è passata inosservata, nonostante si trovassero sul terreno più 15.000 mercenari o “contractors”. La sicurezza è diventata uno dei principali business del cosiddetto dopoguerra: si calcola che il giro d’affari superi abbondantemente i tre miliardi di dollari annui. Attualmente il numero dei mercenari in Iraq si aggira attorno alle 30- 35 mila unità; un vero e proprio esercito, il cui personale costituisce il contingente multinazionale privato numericamente più importante dopo quello schierato dalle Forze Armate statunitensi. «Senza di noi gli americani avrebbero già fatto i bagagli», afferma Stanley B., ex ufficiale dell’US Marine Corps, oggi dipendente della PMC statunitense Blackwater Corporation.
Il business della sicurezza ha conosciuto una crescita esponenziale, se si considera che un decennio fa era quasi inesistente. Nel 1991, durante la prima Guerra del Golfo, il Pentagono disponeva di poco più di 700 mila militari operativi. Oggi ce ne sono circa 500 mila, un calo superiore al 30%. All’epoca c’era un civile a contratto per ogni 50 o 100 militari. attualmente in Iraq il rapporto è di circa uno a 10. In Afghanistan, sono presenti tra i 400 e 600 contractors statunitensi impiegati da una dozzine di PMC. La paga per un mercenario assunto dalla DynCorp, senza trasferimenti e altre spese, quali vitto e alloggio. è per l’Afghanistan di 120.632 dollari annui, circa 10.000 dollari al mese, mentre per l’Iraq ammonta a 100.324. Dough Broohks, presidente dell’International Peace Operations Association (IPOA), associazione internazionale che comprende importanti PMC, ha dichiarato che un consorzio della IPOA sarebbe in grado di risolvere tutti i conflitti che affliggono l’Africa per la modica cifra di 700 milioni di dollari, che era la somma chiesta all’ONU da un consorzio costituito da alcune aziende statunitensi e britanniche per ripristinare l’ordine nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo.

Fonte:
Iraq: il business della sicurezza, j.-P. Husson, in «Rivista Italiana di Difesa», luglio 2005


Un esempio di cooperazione militare europea e multilaterale: Galileo
Gallileo è il più ambizioso progetto dell’apparato militar-industriale europeo e della collaborazione scientifica, industriale e finanziaria del “Vecchio Continente” che lancia la sfida agli USA.
Lo sviluppo di tale programma è stato avviato concretamente nel 2002 ed entro il 2008 dovrebbero essere in orbita tutti i 30 satelliti previsti per completare la costellazione del sistema. La sua applicazione riguarderà sia l’ambito militare, che l’ambito civile, sganciando i promotori dell’iniziativa dalla dipendenza dal Sistema Navistar (GPS USA) e in misura molto minore dal GLONASS russo.
I partner principali del consorzio InavSat, che produce il sistema Gallileo, sono: Germania, Francia, Italia, Spagna, UK, ai quali si aggiungo numerosi altri paesi UE in veste di utenti finali e non di investitori primari.
Il progetto costerà 1100 milioni di euro per la fase di sviluppo e più del doppio per la realizzazione vera e propria, con una spesa ripartita tra UE (e quindi gravante sul bilancio comunitario a cui partecipano tutti gli stati) e l’Agenzia Spaziale Europea.
I Partner extra-UE e gli investitori privati parteciperanno con una quota di 2.300 milioni di euro e rispettivamente: 200 milioni la Cina, 300 milioni l’India e 15 milioni Israele, e 1.785 milioni gli attori privati.
Questo progetto darà linfa al complesso militare industriale generando un indotto di 100.000 che verranno nel tempo occupate nel progetto.
Per ciò che riguarda i partner extra-UE, la firma della partecipazione indiana al programma è il risultato di un percorso di collaborazione che dura ormai da anni tra il paese asiatico con l’Agenzia Spaziale Europea, mentre per ciò che riguarda la Cina questo progetto è un fattore di normalizzazione dei rapporti con l’UE.
Per Israele è importante ottenere l’accesso senza restrizioni ad un sistema che permetta la localizzazione, la navigazione e il puntamento di armi di precisione. La Russia potrebbe accreditarsi come partner di primo livello, visto l’avanzamento dei suoi programmi aereo-spaziali e la possibilità di integrazione con suo sistema satellitare.
Inoltre Brasile e Messico sono altrettanto interessati e in procinto di firmare accordi esclusivi di partecipazione, mentre il Marocco per l’area mediterranea e la Corea del Sud si sono dimostrati interessati, in particolare la corea del Sud sarebbe interessata non solo all’acquisto del servizio ma anche alla spartizione degli utili.

Gallileo: sviluppi e attori in gioco, G.G.Cimetta, «Panorama Difesa», dicembre 2005



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