SENZA CENSURA N.20

luglio 2006

 

Lo sterminio alle radici

La liquidazione della cultura irachena di ieri e di oggi

 

L’invasione dell’Iraq nell’aprile 2003 ha comportato un attacco al suo popolo che non solo ha a che fare con la sua stessa sopravvivenza fisica ma va a colpirne l’immenso patrimonio intellettuale e culturale, perseguendo il gravissimo obiettivo di sottrarre agli iracheni la coscienza del proprio passato. In base all’Accordo dell’Aia del 1954 denominato “Convenzione per la protezione della proprietà culturale in caso di conflitto armato”, il Consiglio Internazionale dei Musei aveva esortato preventivamente le forze della Coalizione affinché impedissero qualsiasi atto di vandalismo e saccheggio nei confronti dei beni culturali del Paese. Coerentemente con i propri interessi nella ricostruzione post- conflitto, gli occupanti hanno ignorato tale appello.
Moltissimi tra biblioteche, musei e siti archeologici sono stati immediatamente devastati e privati dei propri contenuti; la Biblioteca Nazionale Irachena e l’Archivio Nazionale, situati di fronte al Ministero della Difesa a Baghdad, contenevano 12 milioni di documenti di vario tipo, libri, testimonianze del periodo della monarchia hashemita (1920-1958), del periodo turco-ottomano (1534-1918), del periodo della repubblica, dal 1958 ad oggi.
Un’intera ala della Biblioteca, la cosiddetta Biblioteca Antica, è stata distrutta quasi completamente con la conseguente perdita di circa il 60% dei documenti hashemiti.
La Biblioteca Al-Awqaf fondata nel 1920 e situata di fronte al Ministero della Salute a Baghdad, è stata completamente bruciata con quasi tutti i 45.000 libri che conteneva, tra cui manoscritti ottomani ed una collezione unica di testi medici.
Simile sorte per La Casa della Sabidurìa così nominata in onore della dinastia abbaside, sede del primo parlamento iracheno, e per l’Accademia delle Scienze.
L’Informativa realizzata sotto gli auspici dell’Associazione dei Bibliotecari del Medio Oriente da Jeff Spurr, membro della Facoltà di Belle Arti dell’Università di Harvard, riporta tuttavia solo le informazioni riguardanti le biblioteche più importanti, possiamo quindi immaginare il portato della devastazione se la allarghiamo a tutta l’infrastruttura culturale nelle sue dislocazioni territoriali.
Si fa inoltre riferimento alle iniziative internazionali per sovvenzionare la ricostruzione, ad oggi piuttosto scarne ed oggettivamente vincolate agli interessi degli occupanti i quali parallelamente a scarsi investimenti si preoccupano però di inviare propri esperti e bibliotecari. L’Italia come sempre occupa un posto in prima fila, avendo acquisito la direzione unica del progetto di catalogazione di tutti i documenti cuneiformi dell’Iraq Museum (duecentomila iscrizioni sumeriche ed assiro-babilonesi).
Che in tutto questo niente sia dato dal caso è tristemente messo in luce dal fatto che nei tre anni trascorsi è stata oltrepassata di gran lunga la distruzione a livello materiale, per approdare a ciò che viene definito “sistematica liquidazione” dei professori iracheni. Infatti oltre alla devastazione e al saccheggio di circa l’84% delle scuole superiori del Paese (che vantava uno dei migliori sistemi educativi della regione mediorientale) gli occupanti hanno pensato bene di estirpare l’identità culturale del popolo iracheno alle radici, eliminandone fisicamente le teste pensanti portatrici della cultura del passato e del presente: ad oggi secondo calcoli di approssimazione per difetto sono stati uccisi più di 250 docenti e altri centinaia sono scomparsi.
Dall’”Appello internazionale urgente per salvare i professori iracheni” leggiamo: “Con migliaia di essi che fuggono dal paese per timore di perdere la vita, l’Iraq non solo sta soffrendo di una notevole fuga di intellettuali ma anche la classe professionista laica del paese , che si è rifiutata di essere cooptata dall’occupazione, sta venendo decimata , con le gravissime conseguenze che questo comporta per il futuro dell’Iraq.
Già il 14 luglio 2004 l’esperto corrispondente Robert Fisk dall’Iraq dava indicazioni: - Il personale universitario sospetta che sia in atto una campagna per privare l’Iraq dei suoi docenti, per completare la distruzione dell’identità culturale del Paese cominciata nel momento in cui l’esercito statunitense entrava a Baghdad”.
Ritenendo necessario veicolare questo tipo di informazioni e denunciare anche questo tra gli aspetti devastanti dell’occupazione, presentiamo di seguito attraverso alcuni estratti dal prologo, l’uscita del libro di una coraggiosa docente di Baghdad, Imán Ahmad Jamás, che mettendo continuamente a rischio la sua stessa vita ha voluto documentare in presa diretta la furia democratizzante dell’ Occidente, immemore delle sue stesse origini.
Ricordiamo in tal senso le parole di Tariq Ali in “Bush in Babilonia”:
“I mongoli erano un popolo privo di cultura scritta e si sentivano sempre minacciati da libri, manoscritti e biblioteche. Quando nel 1258, i guerrieri di Hulegu bruciarono la Biblioteca di Baghdad, stavano distruggendo qualcosa che, assurdamente, pensavano potesse essere usata contro di loro. Quest’atto barbarico portò alla distruzione di migliaia di preziosi manoscritti, tra i quali traduzioni rare di antichi testi greci. Se alcune delle commedie di Aristofane siano andate perdute per sempre in quest’incendio o in quello che distrusse la Biblioteca di Alessandria, rimane oggetto di dibattito.
E’ invece indiscutibile la perdita subita dalla cultura islamica e mondiale. La memoria può essere conservata nelle sale di un museo situato in una città, ma appartiene al mondo intero. L’incendio dei libri di Baghdad ad opera dei mongoli, e a Granada a opera dei cattolici duecento anni dopo, costituiscono episodi indimenticabili per il mondo islamico.
I generali americani al comando delle truppe che occuparono Baghdad nel 2003 avevano la responsabilità di salvaguardare i suoi tesori culturali. Hanno fallito completamente. Dopo aver spronato i loro soldati a combattere e distruggere i “turbanti”, descritti nei rapporti come barbari incivili responsabili dell’11 settembre, forse ora avevano paura di ammettere che i “turbanti” erano un popolo con una cultura. Qualunque fosse il motivo, non venne fatto nulla”.


Imán Ahmad Jamás
CRONACHE DALL’ IRAQ
Edizioni dell’Oriente e del Mediterraneo,
354 pp., Euro 17,00 - Lingua: Castigliano

Dal prologo al libro, di Santiago Alba Rico

“[…] Spesso sapere non serve a niente o precisamente serve (molto peggio) a farci abituare a tutto. Spesso si sono ripetuti i motivi per cui gli USA, dopo aver strappato all’Iraq pezzetti e pezzetti per un decennio (come un gatto strappa le piume all’uccello che sta per mangiarsi), hanno dovuto alla fine imporvi la “democrazia diretta” e che tali motivi hanno finito per sembrarci non incredibili ma accettabili.
Quasi tre anni dopo l’invasione e l’occupazione dell’Iraq, lungo tutta la scala, dalle Nazioni Unite ai governi europei fino al comune lettore di giornali, tutti ugualmente coscienti della situazione, abbiamo imparato ad allineare con un certo opportunismo, su due piani contigui, il riconoscimento dell’orrore e la riproduzione dell’orrore stesso, nello stesso modo e per gli stessi motivi per cui accettiamo, studiando a scuola la legge della forza di gravità, che le mele cadono dagli alberi e le pietre in pendenza rotolano giù. Sangue per il petrolio?. […]
Il dolore altrui è un’incidenza meteorologica, i nostri vantaggi appartengono invece alla geologia. Le pietre in pendenza rotolano in basso, i bambini iracheni scoppiano in pezzi, le auto, le pizzerie e i giocattoli convergono sui nostri mercati. Reale , nel significato forte del termine, è solo ciò che possiamo cambiare o ciò che cambia repentinamente le nostre vite, e l’occupazione dell’Iraq non appartiene a nessuna delle due categorie.
Reale è solo ciò che ci “scandalizza”, ciò che (nella sua originale accezione etimologica) ci fa cadere al suolo; e il paradosso della cosiddetta “società della conoscenza” è che in essa nessun “sapere” può abbatterci ne’ abbattere la barbarie che lo sostiene. Il sistema, per così dire, è sopravvissuto alla conoscenza, ha superato la propria completa superficialità, la sua totale visibilità, in modo che il reale, slegato dalla coscienza, adesso comprende unicamente, come nella mentalità primitiva, ciò che è più empirico e più piccolo: il calcio, il bere, le auto, la minaccia degli immigranti.
Quanto più sappiamo, tanto più ci angustia soltanto ciò che tocchiamo. Quanto più è ampia ed esatta la nostra conoscenza, tanto più stiamo chiusi nel piccolo cortile delle nostre sensazioni. Sangue per il petrolio? Tale vigliaccheria mortale, e la forza a cui si appoggia, è la legge della forza di gravità; ciò che veramente è immorale, ciò che davvero ci scandalizza, è che si continui a fumare nei luoghi pubblici.

Cosa deve succedere?
Cosa deve succedere, cosa deve succederci perché le sofferenze degli Iracheni ci sembrino “reali”? Si dovrà aspettare la prossima esplosione nella metro, la penultima bomba nella stazione di Atocha? Non ci basterà sapere, leggere, osservare, per cadere fulminati a terra con gli abitanti di Baghdad e Ramadi? In modo che ci abbatta lo stesso missile che ha causato la morte di 25 bambini, bambine e nipoti di Rekad in una sola notte a Murgarladib durante un matrimonio?
L’occupazione dell’Iraq non occupa la nostra mente perché già la conosciamo così come sappiamo le tabelline o la data della Rivoluzione francese; però non occupa la nostra mente anche perché “ciò che sappiamo” di essa riveste naturalmente (sui giornali e sulla televisione) una forma “troppo” spettacolare, “troppo” impressionante e, pertanto, allo stesso tempo incredibile ed eccezionale.
Gli stessi crimini degli USA , la pubblicità ben dosata delle loro barbarie, sono la miglior garanzia per la loro impunità. La denuncia delle torture ad Abu Ghraib o delle esecuzioni di feriti a Falluja, rendono naturale l’occupazione, assumono la presenza statunitense in Iraq come un dato di fatto: alle forze occupanti chiediamo soltanto di trattare “umanamente” gli Iracheni (o, per dirlo con Donald Rumsfeld, come se fossero umani).
Ma allo stesso tempo la denuncia delle torture ad Abu Ghraib o delle esecuzioni a Falluja, lampi isolati in un cielo sereno, occultano l’occupazione: fanno dimenticare che queste pratiche criminali non sono eccessi occasionali o irregolarità eccezionali ma la struttura ordinaria, quotidiana, regolamentata, ben pianificata, del giogo statunitense”
“[…] Non è che ci sono l’occupazione e la violazione dei diritti umani; è che non c’è occupazione senza tali violazioni, che Imán Jamás registra, con nomi e cognomi, nei villaggi e nelle città che visita rischiando la sua stessa vita; bombardamenti indiscriminati, sgozzamenti a sangue freddo, incursioni notturne, assalti armati ad organizzazioni per i diritti umani, distruzione di ospedali o impianti idraulici, esecuzioni extragiudiziali, detenzioni arbitrarie, torture sistematiche, violazioni ed abusi sessuali, sparizioni, cecchini che sparano a discrezione ed impediscono che vengano soccorsi i feriti o che si raccolgano i morti, umiliazioni culturali, distruzione di case, dispersione della popolazione, saccheggi, bastonate, assedi medievali. I soldati USA viaggiano per l’Iraq con la Dichiarazione dei Diritti Umani in mano per non dimenticarsi di violarne qualcuno; Imán Jamás viaggia dietro a loro con la penna in mano, perché non si dimentichi ciò che hanno fatto (ne’ a chi lo hanno fatto)”.
“[…] L’occupazione non è una narrazione, non è niente che sia accaduto; sta ancora accadendo e non sarà terminata perché o quando posiamo il libro che ora abbiamo in mano”.

Tratto da www.iraqsolidaridad.org
[ Per la lista dei docenti assassinati e per l’Appello si veda il medesimo sito]

 

ACCADDE IN IRAQ
di Cesare Allara
Edizioni Colibrì, 2005

(…) Dunque c’è una guerra mondiale, non soltanto la solita guerra di rapina imperialista per il controllo delle risorse umane e naturali di qualche regione, ma una guerra che partendo dal controllo diretto di quelle risorse vuole imporre all’intero pianeta un altro secolo americano. Una guerra asimmetrica, dove da una parte gli USA sono dotati delle armi più letali e sofisticate e dall’altra non si dispone di niente se non del proprio corpo e della volontà di cacciare gli invasori. Una guerra di classe che i paesi ricchi conducono contro quelli poveri cercando di convincerli che la fanno per il loro bene. Una guerra razzista perché giudica gli iracheni incapaci di progettare autonomamente il loro futuro. Un razzismo con molte facce. Un razzismo patriottico, di destra, dove i morti provocati dalla guerra pesano diversamente in base alla loro nazionalità. Un razzismo progressista, di sinistra, che condanna la guerra contro l’Iraq, ma non riconosce al popolo iracheno la capacità di autodeterminarsi e vuole prolungare la permanenza di truppe straniere per evitare la guerra civile; magari sotto la sigla dell’ONU, cioè di quella organizzazione che in 13 anni d’embargo ha provocato la morte di qualche milionata di iracheni. Un razzismo dell’informazione di destra e di sinistra che pur sapendo che c’è una guerra non riconosce a una parte belligerante neanche lo status di combattente, ma lo chiama terrorista.

Cesare Allara
Cesare Allara è nato a Torino il 2 Dicembre 1944. Da molti anni si occupa delle questioni del medio oriente, e, in particolare, delle vicende dell’Iraq. Durante gli anni Novanta ha collaborato con altri volontari alla realizzazione di progetti umanitari volti ad attenuare le sofferenze del popolo iracheno. [sitoti@libero.it]



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