SENZA CENSURA N.23

luglio 2007

 

Morti sul lavoro

L’indignazione non basta, le leggi neanche

 

In Italia di lavoro si continua a morire, ad infortunarsi, ad ammalarsi. Ed il nostro paese non è un’eccezione ma è la normalità di una catastrofe immensa che spesso viene oscurata, dimenticata, coperta e solo dei gravi fatti di cronaca riescono a portare all’attenzione collettiva, a far diventare momento di riflessione e di dibattito.
Ma allo sdegno del momento ritorna forte il silenzio e l’oblio perché l’insicurezza sui luoghi di lavoro non è un fatto emergenziale ma una costante caratteristica dell’organizzazione capitalistica del lavoro. In Italia si muore ogni giorno sul lavoro ed a questo occorre aggiungere le migliaia di infortunati e di mutilati, più altrettanti operai e lavoratori che contraggono malattie sul posto di lavoro.
In tutti questi casi si tratta di vite rovinate dalla barbarie dell’attuale organizzazione del lavoro, vite rovinate dall’incuria, dalla superficialità e dalle condizioni disumane di lavoro, che ha una conseguenza diretta e disastrosa su tutto il tessuto sociale ed in particolare per le famiglie dei questi lavoratori, che per di più si trovano alle prese con un sistema assistenziale che fa acqua da tutte le parti e che viene continuamente ridimensionato.
Periodicamente balza all’attenzione la situazione sulla sicurezza del lavoro e la conta dei lavoratori morti, un vero e proprio bollettino di guerra, che fa dire in modo chiaro che in Italia andare a lavorare è più pericoloso che andare in guerra. Questo anche perché spesso si vuole ignorare che la statistica che parla di una media di quattro morti al giorno per infortunio sul lavoro è comunque sottostimata. Mancano quei lavoratori, fra cui molti immigrati, che non sono registrati come tali perché in nero, clandestini, sommersi, mancano quegli altri lavoratori che sono vittime di incidenti stradali perché stanchi e affaticati dalla guida o dal lavoro precedente. E muoiono anche altri lavoratori, vittime di esposizioni ad agenti cancerogeni e tossici che quasi mai o a grande fatica riescono a dimostrare che la causa della loro morte è il lavoro.
Questa strage che si compie quotidianamente è tanto più grave in quanto da questo sistema sociale viene culturalmente accettata. Una cultura che tende a fare passare la “questione sicurezza” sul lavoro come un fatto accidentale e legato alla casualità mentre occorre evincere come la causa principale di questa epidemia è l’organizzazione del lavoro e ciò che vi sta attorno con il paradosso di questi ultimi anni, durante i quali mentre si facevano delle leggi che si “promettevano” di migliorare la tutela della sicurezza nei luoghi di lavoro si sono fatte altre leggi che vanno nella direzione opposta, quella della deregolamentazione del lavoro e della più completa liberalizzazione, cause prime appunto degli incidenti sul lavoro.
Accendere i riflettori di per sé non basta ad arginare un fenomeno che ha assunto proporzioni (non da oggi) allarmanti.
Dallo Stato questo richiamo viene assunto nella misura di spostare il problema da un dato strutturale, l’organizzazione produttiva capitalista, ad un aspetto di co-gestione legislativa, con l’obbiettivo di voler dimostrare la buona volontà nel cercare di risolvere un problema che sicuramente non è risolvibile ne affrontabile solo attraverso un piano di normative. Cercano in questo modo di assolvere la propria funzione di essere protagonisti di una mobilitazione reazionaria che vuole imporre ai lavoratori il punto di vista culturale del capitale.
Nell’anno in corso la “buona volontà” del governo Prodi si è concretizzata nell’aver varato un disegno legge delega da parte del Consiglio dei ministri per l’emanazione di un nuovo Testo unico sulla salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro. Il provvedimento predisposto dai ministri del Lavoro e della Salute secondo gli estensori vuole essere una pietra miliare per contrastare il tragico bilancio di oltre mille morti all’anno. La sicurezza sul lavoro sarà insegnata già sui banchi di scuola con programmi scolastici e universitari tesi a sensibilizzare e a informare i giovani.
Fra le novità del provvedimento, che interessa tutti i settori e tutti i lavoratori, indipendentemente dalla qualificazione del rapporto di lavoro, ci sarà la lotta al sommerso e al lavoro irregolare, che sono tra le principali cause degli incidenti e degli infortuni, proprio perché è proprio lì che le condizioni di salute dei lavoratori sono spesso poco tutelate o del tutto ignorate.
«È una riforma di civiltà - sottolinea il ministro della Salute Livia Turco - che punta a garantire che si possa lavorare senza morire e in salute in qualsiasi realtà lavorativa. Per questo oltre al lavoro subordinato, sarà finalmente tutelato con specifiche misure anche il lavoro flessibile e autonomo. Particolare attenzione viene riservata ad alcune categorie di lavoratori come i giovani, gli extracomunitari, i lavoratori avviati con i cosiddetti contratti interinali, e per alcune lavorazioni in relazione alla loro pericolosità, come ad esempio quelle svolte nei cantieri».
Il provvedimento impone responsabilità alle aziende che ricorrono a sub appalti, introducendo norme che riconducono la responsabilità della sicurezza, e quindi degli eventuali infortuni, all’azienda appaltante e non più solo a quella sub appaltatrice.
«Un aspetto significativo - dice sempre il ministro Turco - perché ben l’85% degli infortuni con esito mortale avviene proprio nell’ambito dei sub appalti dove le attuali leggi non sempre riescono a risalire alle effettive responsabilità».
Le disposizioni prevedono anche un meccanismo premiale per le imprese virtuose, che sapranno ridurre in modo consistente gli infortuni nelle proprie attività: una normativa ad hoc individuerà forme e incentivi, come, per esempio, la priorità nell’assegnazione di appalti. Sono previste sanzioni rigorose, un coordinamento nella vigilanza e una campagna di informazione e di formazione.
Sono anche previste misure di semplificazione in particolare per le piccole e per le medie imprese e sarà previsto il miglioramento del collegamento delle reti informatiche di enti e istituzioni. Valorizzato, poi, il ruolo della bilateralità tra datore di lavoro e organizzazioni sindacali nella definizione degli aspetti organizzativi e in materia di piani per la sicurezza, anche come supporto ai datori di lavoro per l’adempimento degli obblighi di sicurezza per il miglioramento delle tutele negli ambienti di lavoro. Un ruolo fondamentale sarà affidato alla formazione come strumento di prevenzione e di tutela.
Sintetizzando il Testo Unico ha quattro capisaldi: l’inasprimento sanzionatorio, la maggiore responsabilità delle imprese committenti anche rispetto alla catena di appalti, il pieno coinvolgimento del mondo dell’istruzione per costruire e veicolare competenze in materia di sicurezza e, infine, la diffusione di “buone prassi” basate sulle esperienze di prevenzione quotidiana.
Con questo Testo verrebbe modificato il quadro normativo esistente attraversi il rispetto e il recepimento delle normative comunitarie.
Si tratta del solito bagaglio di normative tanto caro al riformismo, una somma di indicazioni (che rimangono per lo più sulla carta), che servono essenzialmente come elemento propagandistico che però sempre più faticano ad essere recepite ed assimilate dai lavoratori che si trovano a fare i conti con la cruda realtà delle proprio condizioni di lavoro sempre più caratterizzate da una “insicurezza” complessiva e dove la realtà dimostra che nonostante tutto il fenomeno degli infortuni sul lavoro è in drammatica crescita.
Se ad esempio viene previsto un ulteriore potenziamento dell’apparato ispettivo con l’assunzione degli idonei ai concorsi di ispettore del lavoro e di ispettore tecnico e l’aumento delle risorse per le missioni questo stride con l’esperienza concreta delle ultime legislazioni dove la pubblica amministrazione, sia quella di sinistra che quella di destra, ha progressivamente contribuito allo smantellamento delle strutture ispettive e di controllo impedendo nei fatti l’attività stessa di queste strutture.
Non a caso il 29 maggio 2007 si è verificata l’ennesima protesta degli ispettori del lavoro con presidio a Roma per mancanza di fondi, (sono senza telefoni e soldi per la benzina e vengono tagliati i fondi per le missioni); tagli indicati e previsti nell’ultima Finanziaria. Finanziaria che fra le altre cose prevede alle aziende che emergono dal nero un anno di esenzione dai controlli per la sicurezza.
Nella realtà la tanto sbandierata sinergia fra le diverse strutture istituzionali preposte ad un controllo sulla sicurezza nei posti di lavoro rimane un principio che trova la sua smentita nella effettiva capacità operativa di tali strutture. Negli anni la tendenza è stata quella di fatto di smantellare i servizi ispettivi di vigilanza per la prevenzione nei luoghi di lavoro. Uno smantellamento sistematico che viene confermato anche dall’attuale governo viste le scelte strategiche in campo economico e sociale espresse sia dalla finanziaria che dal dibattito intorno al nuovo dpf condizionato dagli interessi degli imprenditori e dalla scelta di un protagonismo del paese nelle guerre imperialiste in corso.


La realtà ad esempio del lavoro svolto dall’ASL 2 di Salerno ci ha dimostrato questa chiara tendenza e in un confronto fatto fra il primo semestre del 2002 e quello del 2003 risulta che nel 2003 i volumi di prestazioni rese da questo settore erano diminuite di circa il -45%:
- Anno 2002, 1° semestre di riferimento: prestazioni di vigilanza tot. 881; verifica adempimenti 440; inchieste infortuni 773; verifica impianti 240; verifica impianti di sollevamento gru, scale, ponti, sviluppabili, 424; verifica apparecchiature ex ancc n. 449....
Tot. generale delle prestazioni n. 3570; totale generale delle ore dedicate 16.832.
- Anno 2003, 1° semestre di riferimento: prestazioni di vigilanza tot. 458; verifica adempimenti 240; inchieste infortuni 282; verifica impianti 176; verifica impianti di sollevamento gru, scale, ponti, sviluppabili 281; verifica apparecchiature ex ancc n. 252....
Tot. generale delle prestazioni n. 2251; totale generale delle ore dedicate 10.587.

Questi dati si riferiscono a qualche anno fa ma la tendenza espressa in questo confronto è rimasta invariata, anzi, viene confermata continuamente. Ma se da più parti è stata più volte denunciata l’inadeguatezza dei controlli in parallelo alla carenza di ispettori sul lavoro non è da qui che dobbiamo partire per una critica che vada oltre l’aspetto emergenziale ma faccia vivere elementi di prospettiva e di ricomposizione fra i lavoratori.
Bisogna rendersi conto che poche centinaia di ispettori del lavoro in più non possono che continuare a garantire l’impunità ai datori di lavoro e ad un sistema di sfruttamento finalizzato al profitto a discapito della salute degli uomini e della natura.
Un solo dato per rendere l’idea del problema degli ispettori del lavoro è quello del Veneto dove l’organico degli Spisal (gli ispettori) ammonta, tra medici e tecnici, a circa 202 unità. Una quantità irrilevante considerando il fatto che dovrebbero monitorare e controllare oltre 350 mila imprese e 1 milione e 600 mila lavoratori.
Ritornando alle iniziative finora intraprese dall’attuale esecutivo, altre misure, di cui si è fatto carico il governo, sono quelle legate alla denuncia “del giorno prima” o all’obbligo del tesserino di riconoscimento, misure che riguardano i lavoratori nei cantieri.
Mentre in precedenza vigeva l’obbligo di denunciare l’assunzione di un lavoratore nei cinque giorni successivi, adesso bisogna farlo il giorno precedente, così non è più possibile per un datore di lavoro - nel caso di notifica di un’irregolarità - sostenere che “casualmente” quel lavoratore era stato assunto proprio lo stesso giorno. Nel periodo settembre-dicembre 2006 le ispezioni svolte in particolare nel campo dell’edilizia hanno determinato la chiusura di 500 cantieri a causa di varie irregolarità, con la conseguenza che 40 mila lavoratori sono stati fatti uscire dal “nero” e sono stati regolarizzati.
Ma per anni i governi hanno fatto a gara a depenalizzare i reati commessi in violazione delle norme sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, ridimensionando gli uffici degli ispettori del lavoro e tagliando i fondi necessari a questo servizio per risanare il debito pubblico
L’insicurezza sul lavoro viene consentita dalla totale deregolamentazione dei rapporti di lavoro, che hanno eliminato ogni diritto conquistato con le lotte e dal soffocamento e limitazione della rappresentanza sindacale e politica dei lavoratori.
Le leggi da sole non bastano, ne è esempio la tanto citata “626” che sicuramente non è riuscita ad arginare il fenomeno delle morti e degli incidenti sul lavoro. Oltre al fatto che questi interventi applicativi siano stati fiaccati dalla complessità delle procedure burocratiche che spesso hanno depotenziato gli effetti delle iniziative concrete a tutela della salute, queste misure nascondono degli elementi più subdoli per i lavoratori, essendo leggi classiste che vanno nella direzione di mantenere invariata la subordinazione dei lavoratori rendendoli copartecipi nelle responsabilità di un buon funzionamento dell’attività lavorativa.
Questa legge è tutta improntata su una serie di norme comportamentali a cui tutti i soggetti che partecipano all’attività lavorativa devono attenersi per fare in modo che nessuno si infortuni. Si stabiliscono inoltre le rispettive responsabilità e funzioni all’interno di strutture che si vanno a creare per il raggiungimento dell’obbiettivo dell’azzeramento degli infortuni. Si stabilisce per legge che, poiché il raggiungimento della sicurezza è un obbiettivo di tutti, anche i lavoratori devono collaborare con i superiori affinché sul lavoro nessuno si faccia male.
Si cerca di far credere ai lavoratori che essi hanno tutto l’interesse a difendere la competitività sui mercati dei propri padroni e che quindi lo sfruttamento che viene esercitato su di loro è inevitabile; i lavoratori pertanto devono favorire questa cosa facendo in modo di non infortunarsi, “comportandosi responsabilmente”. Viene stabilito addirittura che hanno diritto di avere un proprio delegato (RLS), istruito a spese dell’azienda, perché sia in condizione di spiegare ai suoi rappresentati quali sono i loro diritti ma soprattutto i loro doveri.
Con questa legge i risultati che ottengono i nostri padroni sono rilevanti. Per il padrone, percorrere questa strada (cioè quella della sensibilizzazione dei lavoratori) ha dei costi molto bassi, il padrone può svolgere agevolmente la sua funzione di sfruttatore, senza preoccuparsi troppo dell’incolumità dei lavoratori.
Altro aspetto non secondario è quello che la “626” non riguarda solo i lavoratori in Italia ma recepisce delle normative europee che sono da un lato le regole che riguardano tutti i padroni ma anche una possibile condizione comune degli operai e dei lavoratori del polo imperialista europeo.
La sicurezza dei lavoratori è strettamente connessa all’aumento dello sfruttamento - precarietà salariale – aumento dei ritmi e estensione orario – flessibilità organizzativa – necessario all’ottenimento di profitti sempre più elevati. I profitti vengono dallo sfruttamento e dal mantenere il costo del lavoro più basso, come affermato dagli stessi capitalisti “l’espansione dei profitti richiede una continua riduzione dei costi unitari del lavoro”.
Il capitalismo è guerra di concorrenza tra capitali e l’aumento della competitività tra i padroni ha come diretta conseguenza l’aumento del numero dei morti e infortunati tra i lavoratori. L’aumento della concorrenza tra i padroni nei paesi a capitalismo avanzato costringe a fare investimenti in impianti e tecnologie spesso costosi in modo da ridurre il numero dei lavoratori.
La diminuzione degli organici correlata ad un aumento dei ritmi ha come conseguenza un aumento del rischio di infortuni. Produrre in sicurezza richiederebbe un quantitativo alto di investimenti aggiuntivi che si ripercuoterebbe sui costi di produzione e sui prezzi delle merci con un calo della competitività delle aziende. Qui si vede la contraddizione “insanabile” delle politiche riformiste e anche dell’attuale governo: continuare a finanziare e sostenere la competitività dell’economia produce “morte”.
L’aumento degli infortuni va messo in stretta correlazione anche con la precarizzazione del lavoro e l’uso indiscriminato del lavoro in appalto e al massimo ribasso.
Un lavoro di inchiesta svolto nella provincia di Savona ad esempio dove nel 2006 secondo fonti dell’Inail ci sono stati 6 infortuni mortali e 6.732 incidenti, mette in evidenza come siano la precarietà e il lavoro nero a favorire questa situazione con una incidenza maggiore nel settore dell’edilizia. La formazione nelle piccole imprese é scarsamente diffusa e i lavoratori vengono messi a fare lavori che non hanno mai svolto. Quando poi il lavoro è poco sicuro, sono i lavoratori con più esperienza, quelli con il posto fisso, a saperlo prima, mentre gli atipici o quelli in nero hanno spesso una percezione minore dei rischi che corrono. Non a caso la condizione sul territorio savonese è caratterizzata da lavoro nero, evasione contributiva, mancato rispetto delle norme contrattuali e legislative, assoluta precarietà delle condizioni di lavoro e sicurezza, presenza del caporalato, minacce a chi si oppone a questa situazione.
Ricatti e licenziamenti, inseriti in un sistema repressivo generalizzato, sono una condizione a cui i lavoratori spesso incorrono quando si ribellano e si oppongono a queste condizioni come il caso di un lavoratore del Petrolchimico di Gela licenziato per aver segnalato i pericoli legati alle emissioni nocive delle ciminiere dello stabilimento o come all’Ilva di Taranto, dove non si può far finta di non vedere il clima di ostilità che circonda i lavoratori più sindacalizzati, coloro che alzano la testa per difendere le condizioni di lavoro. Ma con il peggiorare della situazione ed il ritmo ormai quotidiano degli incidenti stanno sviluppandosi diversi momenti di iniziativa da parte dei lavoratori con scioperi, presidi e cortei in numerose aree del paese.
Queste iniziative sono principalmente legate all’attività dei sindacati che però, allo stesso tempo, svolgono anche un ruolo di controllo e di contenimento della protesta al fine che rimanga all’interno delle compatibilità del sistema e serva a dare un peso maggiore nel quadro della contrattazione e della concertazione agli stessi sindacati e/o alle forze politiche che questi rappresentano.
Si stanno comunque sviluppando forme di partecipazione collettiva autonome e orizzontali come quelle dei lavoratori dell’Ortomercato di Milano o dei portuali di Genova. L’iniziativa dei lavoratori genovesi è un importante esempio nella lotta per la sicurezza e la salute nei luoghi di lavoro.
Questi lavoratori si sono organizzati in un comitato, il Comitato di Ponte Etiopia, ed in aprile di questo anno dopo l’ennesimo grave incidente mortale hanno bloccato il porto, i ponti e la circolazione sui viali e successivamente organizzato scioperi e manifestazioni cercando e trovando il sostegno e la solidarietà di altre realtà politiche e sociali della città. Stanno affrontando collettivamente i problemi connessi alla gestione della lotta, alla questione della repressione, alle proposte e alle valutazione delle richieste e dei tavoli di trattativa, senza delegare queste funzioni ai vari sindacati.
Anche sul problema della sicurezza si deve porre all’ordine del giorno la necessità della lotta e dell’unità dei lavoratori e delle lavoratrici.
Occorre iniziare una seria riflessione sul nesso emergenza-infortuni e organizzazione del lavoro, a partire dalla turnistica e dai ritmi.
Occorre iniziare a monitorare i luoghi dell’insicurezza, i cantieri come le fabbriche e tutte quelle realtà che vedono in posizione di svantaggio fin dall’inizio i lavoratori meno esperti, quelli che sotto i capannoni dovrebbero beneficiare del periodo di formazione e che invece subiscono ricatti. Il giogo dell’insicurezza mortale colpisce proprio i più deboli, i precari.
Bisogna andare a vedere sul campo cosa succede, nelle aziende. Un lavoro di inchiesta che non è possibile delegare a leggi o istituzioni estranee ai lavoratori. Costruire reti, strutture autorganizzate dai lavoratori, che siano in grado di agire sul territorio.
Bisogna sostenere l’organizzazione di lotte specifiche per la sicurezza, per contrastare tutti i processi causa dell’aumento dei fattori di rischio.
La battaglia per la sicurezza del lavoro non può però essere disgiunta da quella contro la precarizzazione e lo sfruttamento dei lavoratori, contro quelle leggi che hanno moltiplicato la precarietà nel lavoro, negli orari. Questa necessaria battaglia và inserita nella più generale critica al capitalismo come sistema di produzione, alla denuncia sistematica dello sfruttamento e dei suoi effetti sulla salute e sulla vita dei proletari in tutto il mondo.

 

alcuni dati significativi

- Al 12 giugno 2007: 472 morti, 472.052 infortuni, 11.801 invalidi (dati presi da www.articolo21.info che fornisce un aggiornamento in tempo reale)
- In Lombardia nei primi 4 mesi del2007 si sono registrati 61 morti sul lavoro
- Secondo l’INAIL nel 2006 le morti sono state 1280 con un incremento dell’11% rispetto all’anno precedente. 1115 i morti nell’industria (di cui 280 nell’edilizia) 114 nell’agricoltura e 11 tra i dipendenti statali. Sono in aumento le vittime tra le donne e gli extracomunitari. Il numero degli infortuni mortali aumenta per le donne: 103 uccise nel 2006 contro 88 nel 2005
- Il picco degli infortuni sul lavori si raggiunge nei mesi di giugno e luglio, particolarmente intensi per le attività edilizie, agricole e anche manifatturiere
- In Europa avvengono 4 milioni di incidenti sul lavoro all’anno, di questi 1 milione solo in Italia
- L’Ufficio Internazionale del Lavoro (ILO) ha registrato per il 2005 circa 2,2 milioni di morti l’anno, di cui “solo” 350.000 sono dovute a infortuni (e fra questi ben 60.000 nell’edilizia). Tutti gli altri sono vittime di malattie professionali (l’amianto da solo è ancora responsabile di circa 100.000 morti l’anno). La maggior parte degli infortuni mortali avviene in Cina (circa 90.000), in altri Paesi dell’Asia (76.866) e in India (40.133)
- per una cronologia aggiornata degli incidenti sul lavoro www.ecn.org/reds/lavoro/infortuni.html



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