SENZA CENSURA N.23

luglio 2007

 

Le tante facce della tortura moderna

Dalla Sardegna tra repressione, resistenza e lotta

 

Abbiamo seguito, lungo questi mesi, l’odissea repressiva a cui sono stati sottoposti Paolo, Ivano e Antonella. Riteniamo sia importante evidenziare soprattutto due elementi basilari che hanno contraddistinto il loro caso e la loro carcerazione: la deportazione, che riporta alla memoria una modalità molto in voga negli anni ‘80, e il trattamento detentivo. Entrambe le condizioni, in generale ma soprattutto quando sono attuate in maniera continuativa e pressoché totale, hanno lo specifico scopo di “rompere” le resistenze dei prigionieri e le relazioni (politiche e affettive) che gli stessi hanno con l’esterno. Ovvero “se non posso ricondurre l’identità del detenuto ai valori dominanti, lo anniento un po’ per volta”.
La Sardegna ha storicamente espresso sempre e con continuità una fortissima solidarietà popolare e militante. Il rapporto dentro/fuori e viceversa diventa assolutamente fondamentale per riuscire a contrastare lo “strappo” che lo Stato vorrebbe imporre scientificamente attraverso l’isolamento dei prigionieri e la criminalizzazione delle realtà di lotta che sviluppano, sul territorio, iniziative, interventi, documentazione, contro-informazione.
Entrando nel merito del “piano giudiziario”, con quella del 4 giugno siamo giunti alla terza udienza. Dai resoconti che abbiamo ricevuto, si coglie benissimo la situazione: un controllo totale e un tentativo, da parte della Corte e degli organi di polizia, di gestire il dibattimento rispetto ad un impianto accusatorio impostato su un’azione prettamente preventiva; dall’altra parte, una presenza numerosa e combattiva di familiari, compagne e compagni, che cercano di far pesare la loro voce in aula. Nel mezzo, l’utilizzo dei mass-media che, alla bisogna, sbattono il mostro in prima pagina oppure evitano accuratamente di segnalare la vicenda.
Per fare il punto della situazione e immettere nuovi contributi nel dibattito e nelle iniziative in corso, pubblichiamo qui di seguito due materiali: il primo è il documento che Ivano Fadda avrebbe voluto leggere durante l’udienza del 4 giugno, sottoscritto anche dagli altri due compagni con lui sotto processo, che spiega molto bene il trattamento a cui è sottoposto (che, in definitiva, è la modalità trattamentale che riguarda tutti i prigionieri detenuti nel “girone” della massima sicurezza); il secondo materiale è un intervento del Comitato Permanente Contro la Repressione di Nuoro che, partendo dallo specifico caso dei tre compagni arrestati, deportati, e posti in isolamento continuativo, allarga la riflessione sul piano più complessivo dello scontro di classe in atto.


 

INTERVENTO IN AULA DI IVANO FADDA
Il documento che Ivano avrebbe voluto leggere all’udienza del 4 giugno; la Corte ha proibito la lettura perché “non inerente al processo”...

Alla Corte d’Assise del Tribunale di Nuoro.
Voglio denunciare il perdurante trattamento detentivo cui siamo sottoposti, che calpesta il rispetto dei diritti umani e giuridici previsti anche dall’ordinamento penitenziario e giudiziario di questo Stato.
Veniamo tutti e tre da quasi un anno e mezzo di carcerazione preventiva e deportazione in galere tanto distanti da Nuoro, quanto tra le più infide e dure d’Italia (Antonella da S.M. Capua Vetere Caserta, Paolo da Palmi Reggio Calabria, e il sottoscritto dall’Ucciardone di Palermo), dove a causa della lontananza e degli alti costi dei viaggi è stato pressoché impossibile usufruire oltre che dei regolari e confortanti colloqui con i nostri familiari, anche di un’adeguata preparazione difensiva con i nostri legali (e non sto qui ad elencare la lunga lista delle altre vessazioni di cui siamo stati oggetto in quei logoranti posti…).
Ci eravamo illusi che una volta fissata la data del processo e trasferiti in Sardegna, alcune di queste negazioni venissero superate, consentendoci di poter recuperare il tempo non per nostro volere perduto, e venissero rispettati i diritti difensivi che a ogni imputato dovrebbero essere garantiti.
Invece da quasi un mese, io e Antonella ci troviamo reclusi nel carcere di Buoncammino a Cagliari.
I nostri avvocati - come già sapete - avevano fatto formale richiesta per un nostro avvicinamento a Nuoro che gli permettesse, finalmente, un costante rapporto con noi, considerando che gli altri impegni lavorativi gli impedivano di poter viaggiare a Cagliari.
Questa corte aveva perciò - accogliendo le loro istanze - predisposto l’immediato trasferimento del sottoscritto a Nuoro e quello di Antonella a Oristano - essendo Badu’e Carros sprovvisto della sezione femminile.
Ma la settimana scorsa è arrivato un comunicato del D.A.P. (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) in cui si asseriva che non era possibile il nostro trasferimento perché “….nelle sezioni di massima sicurezza di Nuoro e Oristano non c’è posto sufficiente per accogliere i due imputati e quindi i responsabili dei due istituti non sarebbero in grado di garantirne la sicurezza….”
Considero questa motivazione del tutto insensata e fuori luogo, visto che Buoncammino ha un sovraffollamento molto più grave delle carceri di Nuoro e Oristano.
Tra l’altro per poter ospitare noi due hanno dovuto liberare due “cubicoli” delle rispettive sezioni femminile e maschile di “media sicurezza”, dove prima c’erano ammassati due o tre detenuti che sono stati spostati in altre celle già al colmo della capienza, aggravando le condizioni di vita di chi vi si trovava precedentemente.
In più viviamo questa detenzione in totale isolamento 24 ore su 24, con l’impossibilità di poter ricevere dai pochi detenuti solidali anche un solo giornale o un piatto di pasta, o anche solo scambiare due chiacchiere. E le rare volte che questo è capitato, questi detenuti sono stati intimiditi con la minaccia di “severi provvedimenti” da parte delle guardie, se la cosa si fosse ripetuta.
Di conseguenza non possiamo usufruire di alcuna socialità o attività sportiva (le tre ore “d’aria” quotidiane siamo obbligati a farle in dei “corridoi” di 1,20x4 m.); ci viene negata la possibilità di cucinare per conto nostro e non riceviamo la merce ordinata dalla spesa interna per non ben precisate “….sparizioni degli ordini…”.
Senza poi dimenticare che dal giorno del mio arresto mi vengono costantemente negati gli urgenti controlli sanitari di cui necessito, alludendo che sia io a non volerli fare.
Tutto questo anche se ufficialmente né il D.A.P., né il Ministero, ci abbiano notificato l’applicazione del 14 bis o del 41bis, cioè quegli articoli dell’ordinamento penitenziario che prevedono questo trattamento che comunque subiamo.
“Pare strano” che il Ministero della Giustizia sia riuscito in meno di una settimana a trasformare lo stabile di questo tribunale in una delle aule-bunker più sorvegliate d’Italia (neanche si dovessero processare Bin Laden e i suoi seguaci…), e non si sia prodigato nei quasi due mesi a sua disposizione - cioè dall’udienza preliminare, quando è stata fissata la data dell’inizio del processo - per adeguare i carceri di Oristano e Nuoro ad ospitare me, Antonella e Paolo, che a quanto mi è dato sapere non siamo considerati tra i più “pericolosi” detenuti del Paese - ma sia chiaro che nessuno meriterebbe questi ignobili trattamenti.
Ma in questo caso, perché gli stessi provvedimenti-tampone utilizzati a Cagliari non sono stati presi a Nuoro e Oristano?!
Vi ricordo che questi due carceri sono considerati più sicuri di quello campidanese e questo avrebbe evitato il lungo viaggio di trasferimento ogni volta si svolga un’udienza, evitando così quello che da tutti viene considerato il “momento più rischioso”: il tragitto dal carcere al tribunale.
Tra l’altro questa lontananza da Nuoro, continua a negare ai nostri anziani e acciaccati - ma sempre bellissimi! - genitori la possibilità di venirci a trovare, pagando a loro volta una pena aggiuntiva malgrado abbiano meno colpe di noi, ricordandovi che non hanno mai potuto farlo quando eravamo detenuti in Continente.
Ad aggravare la nostra situazione c’è poi lo sballottamento che dobbiamo subire ogni qualvolta si svolga un’udienza: dobbiamo infatti svegliarci alle 5:30 del mattino per poi affrontare il lungo viaggio da Cagliari a Nuoro all’interno delle gabbie da mezzo metro quadrato dei furgoni, nella quasi totale oscurità e con le manette sempre ben strette ai polsi - trattamento che se venisse riservato ai cani avrebbe sollevato lo sdegno dei tanto delicati benpensanti - e impossibilitati ad allungare le gambe o rimanere in posizione retta, con in più il frastuono delle lamiere di questo vero e proprio buco nero che martellano la mente.
Questo provoca di conseguenza dei problemi che non ci permettono di poter seguire lo svolgimento delle udienze con la necessaria attenzione e serenità, non consentendoci quindi un’adeguata difesa nel luogo dove si dovrà decidere la sorte del nostro prossimo futuro.
Ho deciso di palesare quanto detto quando - in queste poche udienze - mi sono reso conto che quasi preferivo lo stare da solo nel silenzio della mia cella che sentire tante voci e vedere tante persone tutte insieme in quest’aula.
Un “plauso” per questo va ai sistemi repressivi del Sistema, che evidentemente stanno raggiungendo i loro scopi….
Considero queste situazioni che “loro” definiscono “inconvenienti” un puro, vile e subdolo accanimento nei nostri confronti che mi fa pensare a un esito già scritto di questo processo dove evidentemente non si vuole appurare il nostro coinvolgimento nell’attentato che NON abbiamo commesso, ma si vogliono invece processare i nostri ideali dei quali andiamo sempre fieri e orgogliosi e ne rivendichiamo ancora di più la validità alla luce del sole, come abbiamo sempre fatto, perché convinti - ora ne abbiamo la conferma: erroneamente! - che questo fosse possibile in quella che si definisce una… Democrazia… (!?!?)
Detto questo annuncio che se non verranno garantite le normali e regolari opportunità per poterci difendere inizierò nei prossimi giorni - non avendo ormai altre alternative - lo sciopero della fame, anche perché preferisco farlo per mia scelta personale e non perché questo mi venga indirettamente imposto dalle condizioni del vitto carcerario.
Se poi questa situazione perdurerà, revocherò il mandato difensivo ai miei legali e non parteciperò più ad altre udienze, perché a quel punto avrò la certezza dell’esito già scritto di questo processo, non avendo quindi - almeno il sottoscritto - alcuna ragione per continuare a seguirlo, con grande gioia di chi ci ha voluto contro ogni logica accusare.

Ivano Fadda

p.s. Antonella e Paolo hanno potuto leggere questo scritto solo in un secondo momento. Mi hanno comunque detto che condividono il contenuto e anche loro sottoscrivono.


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INTERVENTO DEL COMITATO PERMANENTE CONTRO LA REPRESSIONE DI NUORO


“…e sigo sempre gai e mai, mi rendo e cando bat bisonzu mi difendo….”
“Sos bentos de levante / In sa marina frisca / Sun carrigande s’oro / Sos bentos de levante… / Nugoro no est prus Nugoro / Sas carreras sun tristas / Ca mancan sos zigantes”…
[I venuti dal mare / nella fredda marina / stanno caricando l’oro (gli arrestati) / i venuti dal mare… / Nuoro non è più Nuoro / le strade sono tristi / perché hanno portato via i giganti…]

Questi versi, scritti da un anonimo, descrivono un’altra Sardegna – 1899. L’allora presidente del consiglio, generalissimo Pelloux, risolse la questione sociale del banditismo seguendo la strada della sanguinosa repressione militare. Un migliaio di arresti indiscriminati. Qualche morto. Molto terrore. Senza tanti “ismi”. Riformismo, garantismo, legalismo. La storia ne è piena. Di bavagli e gogne. Punizioni esemplari e adunate forcaiole – 2007. Cambiano i tempi e le comparse. Ma lo scenario è sempre quello. Qualche centinaio di indagati per associazione sovversiva. Una ventina gli arresti. Una cappa di opprimente oscurantismo. Tutto in odor di associazione o fiancheggiamento. Nel frattempo, si ritorna alle caverne. Prigionieri di un blaterare continuo il cui fine è di impedire di sentire l’assordante silenzio della ragione. Uniche voci fuori dal coro, le vituperate intercettazioni hanno accelerato la necessaria riaffermazione di un ordine e controllo che una serie di attentati e rivendicazioni avevano (hanno?) lesionato. Poiché solo a qualche dialogo malinteso è imputabile l’ondata punitiva (così come si è realizzata) che ha fatto della Sardegna il laboratorio di sperimentazione repressiva contro tutte le anime della contestazione. Anarchici, comunisti, indipendentisti. La carcerazione preventiva è stata lo sbocco naturale di un’operazione che per sua stessa ammissione (vedi Pisanu) sarebbe dovuta essere esemplare. Come dire, colpirne qualcuno, per educarli tutti. Va da sé che l’effetto narcotizzante, pur facendosi sentire non è bastato.
Gli scritti dei compagni prigionieri sono l’esempio più eloquente di come la sete di giustizia non si possa piegare. E allora, ecco che anche chi è fuori rialza la testa. Se mai l’avesse abbassata.
Il problema è che viviamo in uno Stato dove libertà di pensiero, parola, espressione, non sono altro che il fiato corto di una democrazia spezzata. Quella fetta di società alla quale sentiamo di appartenere, per cultura, sensibilità, visione d’insieme, non può manifestare le proprie convinzioni (la solidarietà) senza incappare negli strali della giurisprudenza e del pensiero dominante (vedi la manifestazione de L’Aquila). Che poi è altro dall’effettivo peso o consenso. Ma, tanto basta.
Quando si ha una informazione uniformata e acritica, che, degli eventi, non vede al di là del fatto in sé, si può essere accusati di tutto, e attivare la tifoseria di questo o quel rotocalco, giornale, parte politica. Ma, se lo si è di associazione sovversiva, ecco le centurie quadrare il cerchio. Nel migliore dei casi, facendo seguire allo scalpore iniziale un comodo silenzio. Nella norma, sbattendo sistematicamente il mostro in prima pagina. Ciò per affermare come non sia semplice riattivare un circuito solidaristico in una terra - la Sardegna - cinta d’assedio dalla repressione. Non tanto per l’indifferenza generale, quanto per la difficoltà di articolare un efficace meccanismo di controinformazione che segni il trapasso dalla tacita solidarietà all’azione. Magari legando a doppio filo la questione repressiva a quella del più diffuso malessere sociale. E dare così respiro e prospettiva ad un isolamento, ancor prima che fisico, politico.
Le iniziali strategie difensive. L’atteggiamento comprensibile, ma dissociatorio di buona parte dei familiari. L’accomodante tatticismo di non rispondere – attaccando – a un impianto accusatorio che va ben oltre le singole persecuzioni individuali, sono stati i passaggi che hanno segnato lo smarrimento della prima ora. C’è stato un momento in cui il Movimento è stato impugnato dall’informazione. In balia di giornalisti e avvocati, sciacalli, politici e inquisitori, si è assistito a uno spettacolare rovesciamento delle parti, in cui la visione dei ruoli aveva estromesso i protagonisti degli eventi dalla possibilità d’essere ascoltati. Dal difendersi e dire la loro, insomma.
Con il potere e le sue ramificazioni sorde alle richieste di avvicinamento dei prigionieri d’oltremare, alle denunce delle vessazioni subite e di un assurdo regime di detenzione di alta sorveglianza (è bene non dimenticare, applicato a chi vede scorrere dietro le sbarre la propria presunzione d’innocenza).
È questo l’aspetto che ha prodotto il rifiuto delle regole di un gioco voluto da altri.
La nascita dei comitati di solidarietà, delle associazioni detenuti e dei loro familiari, il ritrovato approccio e coordinamento delle organizzazioni colpite, sono state la risposta politica ad un attacco tutto politico, poiché, in gioco era ed è lo stesso fondamento etico della rivolta. Il nesso, cioè, che guida le trame poliziesche sul piano nazionale.
La funzione di queste realtà è ancora germinale, rispetto alle forze messe in campo dalla repressione. Ma indicativa dell’esigenza di riannodare i fili di un inutile dispersione militante. Squarciando i confini di una scissione che trova nella sua collocazione i significati di un processo comunicativo di produzione della coscienza.
Per questo motivo, colpevoli, innocenti, complici, sono aggettivi che assumono un significato diverso, dentro le dinamiche che premiano il monopolio della forza come puro esercizio di potere.
Le misure di sicurezza – spropositate rispetto alla sostanza dell’accusa – prescindono dagli stessi. Lo Stato-Capitale, non processa solamente Ivano, Antonella, Paolo. Lo Stato-Capitale, processa tutti i fermenti che muovono le arterie, i tendini, i muscoli, i pensieri che potrebbero tramutare l’intenzione in azione.
Il perché è abbastanza chiaro. Qualche centinaio di sovversivi, nella penisola, possono essere un problema. In Sardegna, potrebbero innescare la scintilla della rivoluzione….
A noialtri la scelta. Se imparare o meno la lezione.
Perché ciò che finora è accaduto dimostra innanzitutto questo: ciò di cui lo Stato ha paura è proprio la capacità dei singoli di mostrarsi critici rispetto al suo agire, la capacità di svelare gli inganni che giornalmente i suoi apparati sostengono in favore di una quiete di classe. Quiete di classe che non riguarda ovviamente una tregua armata del conflitto che oppone il “proletariato” inteso come massa di coloro che lavorano per vivere, e borghesia, intesa come élite che vive sfruttando il proletariato. La quiete di classe è oggi semplicemente l’arrendevolezza del proletariato e delle organizzazioni che, dicono, parlano per lui, di fronte agli attacchi quotidiani portati avanti verso i diritti di tutti: lavoro, casa, giustizia sociale. Nello Stato-Capitale sono gli “azionisti” che decidono. Gli altri devono solo obbedire o al limite protestare pacificamente. Cioè a dire, sfogarsi, poi obbedire. Per questo si colpiscono innanzitutto e più duramente proprio quei soggetti non inquadrati in organismi/ organizzazioni, cercando sempre e comunque di inquadrarli in una categoria che li definisca in qualche modo. Quella più usata è il terrorista: vero esempio di rimozione e proiezione di ciò che si è; lo Stato-Capitale è il terrorista... Ovvero colui che quotidianamente terrorizza tutti: innanzitutto con l’incertezza del futuro dettata dalla precarietà, poi con la paura della malattia con la privatizzazione della sanità, infine con lo spettro della fame attraverso il ricatto della disoccupazione. È per nascondere tutto questo che si demonizza l’altro, lo straniero, il diverso. È per questo che il terrore è addebitato ad altri, proprio a coloro che non rimangono ciechi ma guardano la realtà per quella che è: conflitto di classe, dove se non ci si difende si soccombe.
E allora ciò che dobbiamo riconoscere ai nostri compagni Antonella, Paolo e Ivano è proprio questo: che nonostante la deportazione, nonostante le torture psicologiche, le intimidazioni e i ricatti non si sono piegati né arresi, pagando tuttora questa loro coscienza di classe. Perché aldilà delle questioni “nazionali” ciò che importa è la classe, unica che può rovesciare le sorti dell’umanità, in Sardegna, in Italia, nel mondo. L’unica che può salvarla dal futuro e dal presente di odio, guerra e distruzione cui il capitalismo e i capitalisti oggettivamente (scientificamente) l’hanno condannata per puro interesse, bramosia, avidità. Quindi aldilà della situazione contingente, che necessariamente varia “da valle a valle”, bisogna sempre tenere presenti due assunti dei maestri immortali che ci hanno preceduto: “A ognuno secondo i suoi bisogni, da ognuno secondo le sue possibilità”, che dovrebbe aiutarci ad evitare le guerre interne al proletariato e alle sue organizzazioni, e “Proletari di tutto il mondo unitevi!” sul cui significato è inutile qualunque specificazione.
Se poi a qualcosa può servire, noi comitato permanente contro la repressione di Nuoro, dal cuore di questa nostra terra sempre occupata ma mai vinta, diciamo questo:

“…e sigo sempre gai e mai mi rendo
e cando bat bisonzu mi difendo….”

(trad. continuo sempre così e mai mi arrendo e quando c’è bisogno mi difendo)



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