SENZA CENSURA N.24

novembre 2007

 

Un islamismo aperto alla sua sinistra

L’emergenza di un nuovo terzo-mondismo arabo?

 

di Nicolas Dot Pouillard*

Perché questo testo?
Islamismi, movimenti di sinistra radicale e nazionalismi arabi sono sembrati per lungo tempo opporsi in seno al mondo arabo. Tuttavia, la centralità della questione nazionale e delle problematiche di liberazione hanno storicamente tracciato dei punti di collegamento nascosti tra i tre. Questi “concordismi” sono oggi più che mai all’opera. In Libano, in Egitto come in Palestina, si sono strette delle alleanze fluttuanti tra i movimenti islamico-nazionalisti, marxisti e nazionalisti a partire dall’inizio degli Anni 90. Il campo politico medio-orientale sembra così essere in piena ricomposizione politica.
[intro a cura di: www.mouvements.info]

 

Islamismi, movimenti di sinistra radicale e nazionalismi arabi sono sembrati per lungo tempo opporsi. Delle alleanze si sono tuttavia intrecciate tra questi, ristrutturando profondamente il campo politico in Palestina, in Libano e in Egitto.
I dibattiti in campo politico e religioso sono spesso distorti da percezioni ideologiche e culturali soggettive. La comprensione del fenomeno islamista in Francia resta, così, largamente dominata da una serie di paradigmi molto astratti, che non lasciano posto ad un’analisi concreta e pure fattuale del campo politico medio-orientale. Una dicotomia arbitraria viene tracciata tra “laici” e “religiosi”, “islam moderato” e “islam estremista”, “progressista” e “reazionario”.
Vengono così create delle tipologie che corrispondono in vero ad una realtà immaginata del politico: il politico così come si vorrebbe che fosse, non come è. Il campo politico medio-orientale appare come fondamentalmente distorto dalle semplificazioni storiche, che traccerebbero una linea di separazione irrimediabile tra islamismi identici gli uni agli altri, da Al-Qaida all’Hezbollah libanese, e laici naturalmente attenti ai diritti dell’uomo e della donna. Queste categorizzazioni appaiono in effetti oggi parzialmente false: in Palestina è proprio il Fatah “laico” l’autore di una delle leggi più reazionarie sui diritti della donna, che limita a sei mesi le condanne all’imprigionamento per gli autori di crimini d’onore. E’ che spesso si fa confusione tra laico e progressista. Allo stesso modo si immagineranno i laici come necessariamente perseguitati dagli integralisti musulmani. Vera in alcuni casi, questa affermazione si rivela falsa in altri. Bisogna allora comprendere in che modo per esempio il Partito comunista libanese stringa delle alleanze con Hezbollah, o come il Fronte popolare di liberazione della Palestina (FPLP) marxista lavori spesso con Hamas o con la Jihad islamica, e lasciarsi interrogare politicamente e metodologicamente da queste nuove realtà.
Vi è sempre una tendenza ricorrente alla semplificazione del dibattito, secondo linee ideologiche tenaci, che considerano gli attori politici islamici come delle categorie fisse, incapaci di trasformarsi politicamente e ideologicamente. Il movimento islamico ha oggi praticamente ottant’anni di vita in Medio Oriente. Immaginarlo come un’entità compatta, omogenea e senza differenziazioni, è come supporre che la sinistra copra uno spettro tanto largo da comprendere dai vecchi della banda di Baader a Tony Blair, o che la destra sia un tutto omogeneo che raggruppi indifferentemente la democrazia cristiana tedesca e i neo-fascisti italiani. C’è una storia delle destre, e una delle sinistre. E ci deve pur essere una storia degli islamismi, poiché questo referente politico si è considerevolmente pluralizzato. L’esempio delle ricomposizioni politiche nel Medio Oriente arabo, e la produzione di un islamismo politico di tipo nazionalista aperto oggi verso le sinistre e i movimenti nazionalisti arabi non può non porre delle questioni teoriche e politiche.

 

Un nuovo modello di alleanza politica in Palestina e altrove
Le prime elezioni municipali in Cisgiordania dal 1976, tenutesi il 23 dicembre 2004, hanno costituito all’epoca oggetto su cui interrogarsi: Hamas avrà la meglio su Fatah? Quale sarà l’assetto del rapporto di forza politico tra gli islamisti, il movimento nazionalista e la sinistra, all’uscita dallo scrutinio? La risposta non è stata a senso unico: le elezioni municipali non sono state oggetto di una strutturazione chiara del campo politico. Al contrario certe coordinate sono state scombinate, e alcune tendenze sono parse confermarsi.
Piuttosto che ad una indefettibile opposizione tra campi chiaramente delimitati – Fatah, Hamas, FPLP, FDLP, PPP[1] -, localmente si sono strette nuove alleanze, fluttuanti e congiunturali. A Bnei Zayyaid, così come a Betlemme, è l’alleanza tra il FPLP e Hamas che ha permesso di contestare a Fatah la predominanza politica in seno al Consiglio municipale.
A Ramallah, un anno più tardi, è stata una donna membro del FPLP ad essere eletta alla testa del municipio, con i tre voti di Hamas che si sono aggiunti ai sei voti del FPLP mettendo in minoranza i sei consiglieri municipali di Fatah.
Queste alleanze inedite si sono disegnate ugualmente nell’ambito delle operazioni militari: i raggruppamenti armati del FPLP – le Brigate Abou Ali Mustapha – hanno regolarmente operato dal 2001 nella Striscia di Gaza a fianco delle Brigate Ezzedine al Quassem – il raggruppamento armato di Hamas – e delle Brigate al-Quds – quello della Jihad islamica. Infine degli elementi dissidenti di Fatah, strutturati attorno alla nebulosa dei Comitati popolari di resistenza (CPR) si sono poco a poco avvicinati alla direzione gazauita di Hamas. Quest’ultima, dopo la vittoria alle elezioni legislative del gennaio 2006, ha nominato uno dei principali attivisti dei CPR, Jamal Samhadana[2], vecchio militante di Fatah, alla testa dei nuovi servizi di sicurezza palestinesi formati dal governo Hamas.
Si è trattato in quel momento di fare da contrappeso, soprattutto nella striscia di Gaza, alle forze di sicurezza rette da Mohammad Dahlan, dirigente di Fatah. Samhadana simbolizza la corrente di Fatah che si è gradualmente allontanata dalla direzione del partito, e che conferma la sua esplosione progressiva, accelerata dalla morte di Yasser Arafat l’11 novembre 2004, la cui aurea simbolica permetteva di assicurare ancora un minimo di unità interna.
E’ così che Saed Siyyam, il nuovo Ministro dell’interno palestinese, membro di Hamas, ha scelto un vecchio membro di Fatah, ovvero un elemento politico proveniente dal nazionalismo palestinese, e non dal movimento islamico stesso, per dirigere i servizi di sicurezza senza altro scopo che…far concorrenza sul campo alla preminenza armata della Sicurezza preventiva, legata a Fatah.
I conflitti Fatah-Hamas degli ultimi due anni corrispondono a una divergenza politico-strategica, a una differenza riguardo alla posizione da adottare rispetto a Israele e alla comunità internazionale, non a una querelle ideologica secolaristi-credenti. E quando i due partiti egemonici Fatah-Hamas favoriscono con la loro lotta fratricida un processo di guerra civile latente, sono il FPLP e il Movimento della Jihad islamica (MJIP), ovvero un’organizzazione di sinistra ed una islamica, a giocare insieme il ruolo di intermediari. Se il FPLP resta così molto critico oggi verso Hamas, è essenzialmente perché gli rimprovera di rinchiudersi in un testa a testa armato Hamas-Fatah, che frena l’unità nazionale palestinese e che rischia di far sprofondare i territori palestinesi nel caos securitario.
E ancora una volta, questa posizione, l’FPLP la condivide con la Jihad islamica, con la quale ha potuto manifestare nelle strade di Gaza in occasione degli avvenimenti del giugno 2007.
La cartografia politica palestinese non è un’eccezione: il campo politico arabo sembra essere in piena ricomposizione, e le delimitazioni tradizionali, particolarmente quelle che avevano visto opporsi un campo religioso a uno secolare, ossia laico, si sono poco a poco sfumate sulla scala della regione.
L’islam politico subisce una fase ormai accelerata di nazionalizzazione e di regionalizzazione, mentre i settori sortiti dalla sinistra e dal nazionalismo arabo, baathista o nasseriano, in perdita di modello politico e di partner strategico, in preda a una crisi strutturale e di militanza, tentano poco a poco di ridefinire i loro modelli ideologici e pratici e si ritrovano costretti a rendere più articolata la loro rete di alleanze, privilegiando ormai il partner islamista. Dal 2000 una fase di ricomposizione politica si è aperta nel mondo arabo, secondo ritmi e temporalità eterogenee a seconda dei paesi e degli spazi, a tracciare linee di congiunzione con il passato, sollevare nuove problematiche e rotture inedite.
Questa ricomposizione politica ruota attorno alla questione nazionale araba e alla questione democratica: in un contesto politico segnato dall’Intifada palestinese del settembre 2000, dall’offensiva americana sull’Irak nel 2003, così come dalla recente “guerra dei trentatre giorni” tra Hezbollah e Israele, la questione nazionale si ripropone nel mondo arabo, e determina i modelli d’azione e di contestazione, le forme di ricomposizione politica e le differenti forme di alleanza tattica tra le correnti opposte al piano americano del “Grande Medio Oriente”.
Vi si aggiunge la questione democratica: nella misura in cui i sistemi politici arabi soffrono per la grande maggioranza di un modello fondato sull’autoritarismo e il nepotismo politico, e in cui la maggior parte di essi, dall’Egitto alla Giordania passando per l’Arabia Saudita e le principali petrol-monarchie del Golfo, si ritrovano legati organicamente ai differenti interessi americani ed europei nella regione, la contestazione della politica israeliana e americana passa spesso dalla denuncia dei sistemi politici interni.
In Egitto nel corso degli anni dal 2000 al 2006 sono stati i medesimi quadri politici e le medesime strutture di mobilitazione a passare di volta in volta dalla mobilitazione in favore dei palestinesi e degli iracheni a quella in favore della democratizzazione del regime.
Questione nazionale araba e questione democratica tracciano dunque una serie di ravvicinamenti trasversali tra lo spazio pan-arabo focalizzato storicamente sulla problematica palestinese e lo spazio nazionale interno: dal 2000 una interazione costruttiva tra la dimensione pan-araba del politico e la sua espressione nazionale interna, una trasversalità accresciuta tra questione nazionale araba e questione democratica, favoriscono una serie di mutazioni politiche che sfociano in una serie di alleanze tattiche e/o strategiche tra la sinistra radicale, i settori usciti dal nazionalismo arabo nasseriano o baathista, e infine le formazioni islamico-nazionaliste.
Questa interazione tra i differenti spazi – nazionali, regionali, globali – così come questa trasversalità tra correnti politiche un tempo opposte, permette che si delinei poco a poco una riformulazione del nazionalismo arabo, una ricomposizione politica lenta e progressiva del campo politico che comincia appena a ribaltare la distribuzione politica, e che rompe singolarmente con le cornici d’azione derivate dalla storia del XX secolo.

 

Dal “concordismo politico” alla dinamica unitaria
Le sinistre filo-marxiste, i nazionalismi arabi riferentisi alle diverse dottrine, e infine i settori centrali dell’islam politico sembrano oggi collaborare strettamente. Non è sempre stato così: i differenti tipi di nazionalismo arabo si sono distinti durante diversi decenni per le loro politiche repressive rispetto alle correnti discendenti dai Fratelli Musulmani, questo sia nell’Egitto di Nasser che nella Siria di Hafez el-Allad; l’islamismo politico, nella sua fase ascendente degli anni 1980, a seguito della rivoluzione iraniana del 1979, si è da parte sua caratterizzato per un sistema di repressione diretta dei gruppi di sinistra, nel momento in cui questi intralciavano il suo sviluppo e affondavano le radici in certi settori chiave del mondo universitario, politico, sindacale o associativo: in Libano, Hezbollah se l’è presa fisicamente, nel corso di tutti gli anni 1980, con i militanti sciiti del Partito comunista libanese, quando si trattava di contendere loro l’egemonia della resistenza nazionale nel sud del Libano. Due dei suoi più brillanti intellettuali, Mahdi Amil e Hussein Mroue, furono assassinati da militanti vicini all’orbita islamica [3].
In Palestina, i gruppi che si muovevano nella nebulosa dei Fratelli Musulmani, che stavano per far nascere il Movimento della resistenza islamica (Hamas) nel 1986, se la presero allo stesso modo con i militanti del FPLP e del PPP. Il dottor Rabah Mahna, che è oggi il negoziatore dell’Ufficio politico dell’FPLP nelle discussioni inter-palestinesi, e che si trova così regolarmente a dover trovare punti di intesa sia con Hamas che con la Jihad islamica, è stato per esempio vittima di un tentativo di assassinio da parte dei militanti di Hamas nel 1986.
Ma la visione che egli ha del movimento islamico è determinata dalla realtà politica attuale, e non da quella del passato. Parlando di Hamas, ne sottolinea i punti di avanzamento e di stagnazione, che si combinano più o meno differentemente a seconda della congiuntura politica: “C’è stata una certa evoluzione in Hamas. Dal 1988, si è in effetti trasformato da organizzazione del tipo Fratelli Musulmani in movimento di liberazione nazionale islamico. Noi abbiamo poi spinto Hamas ad integrare l’OLP, ad essere un movimento di liberazione nazionale in seno all’OLP. Ma il suo non-riconoscimento dell’OLP ultimamente era per noi molto sospetto (…). Non faremo dunque pressione su Hamas, e lo riconosciamo in quanto corrente della resistenza, e in secondo luogo in quanto governo eletto. Ma oltre a ciò, noi non vogliamo che Hamas resti rinchiuso entro una visione ristretta, ideologica, del tipo Fratelli Musulmani: è perciò che le forze politiche mondiali e arabe che sostengono la causa palestinese, ma che non sono d’accordo con tutto o con parte del programma di Hamas, devono aiutarci a farli uscire dalla visione ristretta, a continuare la loro evoluzione. Altrimenti, isolandoli, rischiano di arretrare, di ritornare ad essere un movimento di tipo integralista, come prima del 1988 [4]”.
Se in passato ci sono certo stati scontri, le differenti modalità di opposizione tra nazionalisti, islamisti e sinistra radicale possono essere storicamente relativizzati da una serie di passaggi dinamici, dai prestiti discorsivi ed ideologici, dalla circolazione militante tra questi tre settori politici-chiave del mondo arabo. Già il sociologo Maxime Rodinson ricordava che tra il nazionalismo arabo, l’islam ed il marxismo, esisteva un “concordismo” che favoriva la circolazione delle idee e delle pratiche: “l’incompatibilità dottrinale incontestabile delle ideologie cede a diversi comportamenti di conciliazione quando le considerazioni di strategia internazionale fanno propendere per un’attitudine amicale tra i due movimenti (comunisti e musulmani). C’è un debito di idee verso l’ideologia comunista da parte dei Musulmani quando queste idee corrispondono a ciò che si rifà alla loro ideologia implicita, anche al di fuori di tale attitudine amicale. Spingendosi oltre, c’è normalmente re-interpretazione delle nozioni, delle idee, dei simboli musulmani come equivalenti di idee o di temi comunisti correnti. L’operazione è spesso portata avanti dai comunisti che vogliono spingere all’alleanza. Quando lo sforzo di re-interpretazione è particolarmente forzato, si perviene a ciò che è stato definito concordismo. Il termine potrebbe essere forse generalizzato per designare un insieme sistematico di re-interpretazioni [5].”
Ciò che Olivier Carré chiamava da parte sua i “settori mediani” tra religione e nazionalismo[6] si riscontra in tutto il corso del secolo e nell’emergenza e nello sviluppo di queste tre correnti. La generazione dei fondatori del movimento nazionale palestinese e di Fatah - Yasser Arafat, Khalil al Wazir, Salah Khalaf – è passata molto rasente ai Fratelli Musulmani nel corso degli anni 1950 e 1960. Il nasserismo stesso non è esente, nei primi anni dopo la rivoluzione del 1952, da un rapporto complesso con l’islam politico.
A questi percorsi personali, si somma una riutilizzazione ed una re-interpretazione sistematica dei differenti tipi di discorso religioso o politico da parte di un insieme di movimenti, una circolazione permanente di aggregati semantici o concettuali.
Ad esempio, il Partito comunista iracheno (PCI) non ha esitato a far riferimento ai fondamenti dottrinari dello sciismo, poco dopo la rivoluzione del 1958 e la presa del potere da parte di Abdel Karim Kassem. La prospettiva rivoluzionaria fu associata, nel discorso del PCI, ai fondamenti millenaristi e messianici dello sciismo, mentre i dirigenti del partito giocavano arditamente sulla prossimità dei termini shii’a (“sciita”) e shouyou’i (“comunista” in arabo). Quanto al termine “socialista” (ishtarâkii), esso fu abbondantemente utilizzato e trasformato da certi quadri e ideologi dei Fratelli Musulmani come Sayyid Quotb o Muhammad al-Ghazali nella prospettiva di un “socialismo islamico”.
Così si assiste da quasi mezzo secolo ad una circolazione dinamica e ad una mutazione continua del vocabolario politico. Questo dice quanto l’ideologia stessa è sottomessa a processi complessi di passaggio, di prestiti, e di re-interpretazioni, costantemente in movimento una volta immessa nella pratica del politico.
La temporalità del nazionalismo dei paesi del terzo mondo è in effetti una temporalità politica differenziata, dove il passato, le tradizioni culturali e le eredità ideologiche fanno bella mostra dei principi costituenti nella coscienza nazionale: il nazionalismo anti-coloniale è uno spazio ibrido, in interazione con gli elementi della modernità politica, ma al tempo stesso in rapporto critico con essi attraverso il recupero, il riciclaggio ed il reinvestimento di elementi tratti dal passato.
I “concordismi” tra nazionalismo ed islam sono coincisi con una attualizzazione politica ed ideologica dell’islam, che era allora meno una sopravvivenza del passato che un elemento culturale ereditato, vivente e pratico, in interazione e meticciato permanente con il presente politico, anche e compreso quando quest’ultimo era di spirito secolarista e laico. Il nazionalismo anti-coloniale, fondato storicamente su di una serie di concordismi, non è l’inverso della modernità, ma il suo recupero e la sua modificazione nel contesto particolare di uno spazio che si sente dominato tanto politicamente che culturalmente.
Il decennio degli anni 1980 è essenzialmente segnato dal passaggio crescente e spettacolare di militanti marxisti, sovente maoisti, o nazionalisti arabi, verso l’islamismo politico. Ciò è particolarmente visibile in Libano, dove, nel momento in cui l’OLP è gradualmente portata a lasciare il Paese dei Cedri, e dove l’asse “palestino-progressista [7]” scompare sotto i colpi delle divisioni interne e delle pressioni siriane, i giovani quadri entrano in Hezbollah, nato tra il 1982 e il 1985. E’ ciò che è accaduto alla maggioranza dei combattenti della Brigata studentesca, la Katiba Tullabiya, corpo militare legato al movimento palestinese Fatah, che si impegna poco a poco nella resistenza militare islamica del “Partito di Dio”, o in altre strutture a carattere islamico, sotto gli effetti della Rivoluzione iraniana.
L’esperienza della tendenza di sinistra di Fatah nata all’inizio degli anni 1970 è particolarmente interessante: ben prima della rivoluzione iraniana, giovani militari libanesi e palestinesi tentano di articolare islam, nazionalismo e marxismo arabo, il che prova che la questione dei rapporti tra i tre era già posta. Saoud al Mawla, oggi professore di filosofia all’Università libanese di Beirut, vecchio membro della tendenza di sinistra di Fatah, è passato a Hezbollah negli anni 1980. L’ha poi lasciato. Egli spiega: “Negli anni 1970 si è iniziato ad interessarsi alle lotte dei popoli musulmani. Era una mistura di nazionalismo arabo e islam, o meglio di comunismo arabo-islamico, di marxismo arabo-islamico. Si è cercato di fare come i comunisti musulmani sovietici degli anni 1920: Sultan Ghaliev. E si è iniziato a studiare l’islam. Abbiamo cominciato quando si iniziò ad applicare i principi maoisti: bisogna conoscere le idee del popolo, interessarsi al popolo, a ciò che pensa… Bisogna conoscere le tradizioni del popolo. E si è iniziato ad interessarsi alle tradizioni popolari, a tutto ciò che costituisce la vita della gente. E l’islam, in quanto fondamento di questa società, è stato ritenuto in grado di mobilitarla. E’ stato in senso militante, pragmatico, prendere ed utilizzare dei fattori che possono mobilitare la gente nella lotta. Ed è così che ci si è avvicinati all’islam: a partire dal maoismo, da un punto di vista teorico, e a partire dall’esperienza quotidiana (…). Ed è perciò che quando è avvenuta la rivoluzione iraniana, si era già là. E nemmeno ciò è stato fatto su basi ideologiche o religiose. Cioè si è visto nell’islam una forza di civilizzazione, e di politica, una corrente civilizzatrice, che può raggruppare cristiani, marxisti e musulmani, come una riflessione, una risposta, un cammino di lotta, contro l’imperialismo, per dare un cammino di lotta, per rinnovare i nostri approcci, le nostre idee, le nostre pratiche politiche [8]”.
Se gli anni 1970 possono ancora prestarsi ad una riflessione teorica e politica presso alcuni militanti sull’articolazione tra marxismo, islam e nazionalismo, il decennio 1980, segnato dagli effetti regionali ideologici e politici della rivoluzione iraniana, e dall’egemonia politica dell’islamismo politico, non lascia più spazio a tali elaborazioni.
A tale proposito, gli anni 1990 segnano una rottura, e il sistema tacito che aveva visto allearsi concordismo e opposizione violenta si è poco a poco trasformato in una dinamica unitaria, ove il concordismo è tanto più favorito da un processo di alleanze tattiche tra differenti correnti. In effetti, con la guerra del Golfo, i tentativi di soluzione del conflitto israelo-palestinese attraverso la conferenza di Madrid e gli Accordi provvisori di Oslo nel 1993, con la fine della bipolarizzazione Est-Ovest e la riunificazione dello Yemen, un mondo collassa. La fraseologia rivoluzionaria e nazionalista è senza fiato, che sia islamica o marxista; questo non è estraneo nemmeno all’abbandono progressivo del discorso messianico e terzomondista da parte del regime di Teheran, su impulso del nuovo Presidente Rafsandjani.
Le coordinate politiche sono cambiate. Si dovrà determinare in che cosa c’è stato un triplo fallimento: dell’islam politico, del nazionalismo arabo, della sinistra. Ma a parte questo, è proprio sulle macerie delle grandi utopie e delle mitologie multiple del secolo al termine che il campo politico arabo si avvia a ricostruirsi poco a poco. Le dinamiche in atto non sono più unilaterali: se negli anni ‘80 l’islamismo raccoglieva i profitti delle delusioni politiche e sociali del mondo arabo, si assiste dal 1991 ad una più grande interazione ed a una più ampia trasversalità delle dinamiche politiche: sinistra, nazionalismo ed islamismo sono ormai in un processo complesso di rielaborazione ideologica e programmatica, di incroci di problematiche dinanzi ad un sentimento di scacco e di impasse del mondo arabo.
Ciò può essere constatato, in primo luogo, in Palestina: poco dopo gli accordi di Oslo, nell’ottobre 1993, si costituisce una “Alleanza delle forze palestinesi”, composta da elementi che hanno rotto con Fatah, ma soprattutto dal FPLP marxista e da Hamas[9]. Ambiti progressivi di discussione si creano tra nazionalisti, marxisti ed islamismi: la Fondazione Al-Quds, a leadership islamista, e soprattutto la Conferenza nazionalista e islamica, lanciata nel 1994 su iniziativa del Centro studi per l’unità araba (CEUA) di Khair ad-Din Hassib, basato a Beirut, che si riunisce ogni quattro anni, incaricata di trovare punti di accorto tattici e/o strategici e di ridefinire i legami, anche dal punto di vista ideologico, tra la sinistra, il nazionalismo e l’islamismo. Il CEUA ha così tenuto a Beirut nel marzo 2006 una Conferenza generale araba di sostegno alla resistenza, dove le direzioni principali delle organizzazioni nazionaliste, filo-marxiste e islamiste (in particolare Hamas e Hezbollah) erano fortemente rappresentate.

 

Questione nazionale e questione democratica
Dal 2000 i ritmi delle ricomposizioni politiche tra nazionalismo, sinistra radicale e islamo-nazionalismo si sono accelerati: sulla spinta della Seconda Intifada e dell’intervento americano in Irak, le convergenze tattiche tra loro si sono accentuate. Esse ruotano particolarmente intorno alla questione nazionale e alla questione delle “occupazioni”, dalla Palestina all’Irak passando per il Libano, e della denuncia congiunta delle politiche americane e israeliane.
E’ dapprima sul terreno che si realizzano le alleanze, nell’ambito pratico, non in quello teorico: durante la “guerra dei trentatre giorni” tra il Libano e Israele, nel luglio e agosto 2006, il Partito comunista libanese (PCL) ha riattivato alcuni suoi gruppi armati nel sud del Libano e nella piana di Baallbeck, e ha combattuto militarmente al fianco di Hezbollah. In certi villaggi, come a Jamaliyeh, dove tre dei suoi militanti sono morti durante l’attacco di un commando israeliano respinto, è stato il PCL a poter prendere l’iniziativa militare e politica, anche se Hezbollah mantiene de facto la leadership politica, militare e simbolica di questa guerra. Si è costituito un Fronte della resistenza che raggruppa principalmente Hezbollah e la sinistra nazionalista, dal PCL al movimento del popolo di Najah Wakim[10], passando per la Terza forza del vecchio Primo ministro Sélim Hoss. Fondato sul principio del diritto alla resistenza e in difesa delle rivendicazioni di principio di Hezbollah, cioè la liberazione dei prigionieri libanesi in Israele e il ritiro israeliano dai territori libanesi di Chebaa e di Kfar Chouba, questo Fronte aveva come denominatore comune la questione nazionale e il posizionamento in rapporto a Israele: non era, per esempio, un fronte pro-siriano – avendo da parte sua il Partito Comunista una lunga tradizione di lotta contro la tutela e la presenza siriana in Libano.
Ma l’accordo tattico sulla questione nazionale non permette di parlare a priori di “ricomposizione politica”. Tutta la questione sta allora nel sapere se l’accordo tattico può trasformarsi in accordo più o meno strategico, e comprendere una visione a lungo termine della società, dello Stato, delle politiche economiche. Ora, è qui che la trasformazione del campo politico arabo sembra essere più profonda: dal 2000 al 2006, la serie di accordi politici tra sinistra, nazionalisti e islamismi si è poco a poco allargata ad un insieme di tematiche, e questa è senz’altro una novità rispetto ai quadri di alleanza degli anni 1980 e 1990.
La questione nazionale permette infatti di passare oltre e di effettuare una serie di passaggi concettuali, pratici e politici da un ambito all’altro: in Egitto la denuncia delle politiche americane ed israeliane nascondeva in effetti una critica latente ma esplicita del regime del Presidente Moubarak. Rapidamente, i quadri della mobilitazione sulla questione palestinese e irakena hanno dato vita alla questione democratica: dalle campagne di denuncia della legge di emergenza del 1982 alle elezioni sindacali del novembre 2006 - che hanno visto i Fratelli Musulmani, i radicali di sinistra del gruppo Kefaya e i nasseriani del movimento al-Karamah allearsi per contestare il predominio delle liste del partito al potere, il Partito Nazionale Democratico -, passando per le campagne di sostegno al movimento di protesta dei giudici egiziani che avevano denunciato la frode elettorale nel maggio 2006, il campo d’azione e di alleanza si è mosso rapidamente dalla questione nazionale alla questione dell’allargamento dei diritti democratici.
In Libano, il Movimento del popolo, l’Organizzazione popolare nasseriana, sunnita - e il cui dirigente, Oussama Saad è deputato di Saïda- e il Congresso popolare arabo di Kama Chatila - una formazione nasseriana - sono al centro del movimento di protesta avviato nel dicembre 2006 da Hezbollah e dalla Corrente Patriottica Libera del Generale Aoun, un movimento che trova voce nel quotidiano di sinistra al-Akhbar: qui ancora la mobilitazione dell’opposizione non tocca soltanto la questione nazionale e le “armi della resistenza”.
I tratti comuni tra le organizzazioni dell’opposizione al governo di Fouad Siniora toccano tanto la questione della riforma della legge elettorale e del sistema confessionale, quanto quella della definizione di una politica economica di tipo regolatore, keynesiano, senza per questo rimettere in causa i meccanismi del mercato, tutte opzioni che non sono quelle della maggioranza parlamentare attuale, molto marcata in senso ultraliberista [11].
Un buon esempio può essere quello del nuovo giornale al-Akhbar, quotidiano di sinistra molto vicino a Hezbollah, il cui primo numero è comparso nell’agosto 2006, e che cerca di creare, di fatto, delle passerelle teoriche e politiche tra la sinistra, il nazionalismo e l’islam. Il PCL, che ha stabilito nel corso degli anni una sorta di partenariato con Hezbollah, sostiene l’opposizione sulla questione della caduta del governo Siniora, considerato come pro-americano.
Ciò nonostante, non nasconde che la sua alleanza con Hezbollah e alcuni partiti dell’opposizione è un sostegno critico: per il PCL il programma proposto da Hezbollah non è ancora sufficientemente radicale, tanto sul piano politico che economico, da rimettere in causa il sistema libanese, fondato sul confessionalismo politico. Pronto a fare fronte comune, non nasconde le sue critiche a Hezbollah, ma in un modo diverso che negli anni 1980: ormai si tratta di definire una politica di sinistra indipendente, pronta a stabilire una complementarietà ed uno scambio costruttivo con il movimento islamico sciita.
La questione nazionale si sviluppa dunque oggi in estensione: mentre negli anni 90 le alleanze tra sinistra nazionalisti ed islamismi erano semplicemente fondate sul riconoscimento di un nemico comune, nel caso specifico Israele, la collaborazione di lungo periodo tra queste correnti sfocia in un ampliamento del campo d’azione politica, che va dalla questione nazionale alla questione democratica, e dalla questione democratica a quella dello Stato, delle istituzioni e delle forme sociali da adottare. Il “concordismo” e le mediazioni tra organizzazioni e correnti si sono poco a poco trasformati in una dinamica di azione unitaria, che, per quanto poco teorizzata e pensata concettualmente, acquista un’ampiezza certa nella pratica politica quotidiana.
Questa ricomposizione politica non è indipendente dalle nuove dinamiche politiche mondiali al lavoro, con un movimento alter-mondialista presente nel paesaggio politico, ma anche e soprattutto con l’apparizione di un polo nazionalista e di sinistra in America latina, simbolizzato da Hugo Chavez e Evo Morales. Un movimento islamo-nazionalista come Hezbollah pensa la sua rete di alleanze su di un modello terzo-mondista: Hassan Nasrallah fa continuamente riferimento al presidente venezuelano, mentre la sua organizzazione ha invitato, insieme al Partito comunista libanese, quasi 400 delegati provenienti dalla sinistra mondiale e dal movimento alter-mondialista a Beirut, dal 16 al 20 novembre 2006, nel quadro di una Conferenza di solidarietà con la resistenza, e il cui comunicato conclusivo fissava tre punti strategici: la questione nazionale e la lotta contro tutte le occupazioni, la difesa dei diritti democratici e la protezione dei diritti sociali[12].
Sono queste dinamiche di ricomposizione politica in atto ad essere oggi sottostimate. La questione libanese non è generalmente percepita che nel prisma siriano e iraniano, sottostimando le dinamiche interne proprie della società politica libanese. La corrente islamica subisce essa stessa delle curvature profonde: Hezbollah adotta un discorso terzo-mondista, fondato sull’opposizione sud-nord e Mustakba (arroganti)[13] / musta’adafin (oppressi). Alcuni quadri dei Fratelli Musulmani sono combattuti tra le loro alleanze con la sinistra e la loro difesa di principio delle economie di mercato. Come scrive Olivier Roy, “il gioco delle alleanze (degli islamisti) va in due direzioni possibili: da una parte, una coalizione sui valori morali (…), e, dall’altra, un’alleanza su valori politici essenzialmente di sinistra (anti-americanismo, alter-mondialismo, diritti delle minoranze), dove la linea di demarcazione è chiaramente la questione della donna [14].”
E ancora: anche la questione della donna è oggi oggetto di dibattito: in Libano come in Palestina, le associazioni femministe nate dalla sinistra non esitano più a condurre delle campagne comuni con le associazione delle donne islamiste, precisamente sulla questione del diritto al lavoro e della denuncia delle violenze sulle donne.
Per Islah Jad, militante femminista palestinese e ricercatrice sul movimento delle donne in Palestina, non si tratta di opporre le donne laiche a quelle islamiche, ma di sviluppare un discorso femminista secolare e radicale proprio discutendo e lavorando comunemente con i quadri femminili del movimento islamico: “Gli islamisti hanno ammesso che le donne erano perseguitate e vittime dell’oppressione sociale, addebitando questo non alla religione ma alle tradizioni, che devono essere portate ad evolvere. Secondo loro, l’Islam richiede che le donne si organizzino per liberare i loro paesi, che siano istruite, organizzate e politicizzate, attive per lo sviluppo della loro società. Il paradosso è che c’è il 27% di donne nell’organizzazione del partito islamico e il 15% in seno al “politburo”, più che nell’OLP (…). Come già detto, il fatto che le donne islamiste non cerchino di costruire i loro discorsi appoggiandosi sui testi religiosi dà delle possibilità alle donne laiche di influenzare la visione e i discorsi degli islamisti, di evitare blocchi. Noi non possiamo reclamare i nostri diritti isolandoli dal contesto politico. E’ una tappa molto importante per stabilire una relazione di confidenza tra le tendenze laiche e quelle islamiste. Il fatto che gli islamisti accettino di riconoscere che le donne sono oppresse apre delle prospettive sulle misure da prendere per far evolvere la società. Ci saranno sempre dei conflitti ideologici e politici, è augurabile. Non si sarà totalmente d’accordo, ma, a mio parere, le donne laiche possono avere un peso nel dibattito ideologico con gli islamisti [15].”
Quest’interazione pratica tra sinistra araba, nazionalismo e islamismo, è un fatto nuovo, ormai accertato ugualmente nell’ambito sindacale, associativo, elettorale e militare, ma è ancora soltanto agli inizi. I punti d’accordo sulla questione nazionale, la democrazia o la difesa dei diritti sociali non costituiscono ancora un corpus abbastanza chiaro e stabile per sapere fino a dove può arrivare quest’alleanza. E’ che c’è giustamente uno scarto tra il pratico e il teorico: i concordismi si sono approfonditi, ma non c’è ancora stata, nell’ambito intellettuale e teorico, definizione chiara ed elaborazione di un linguaggio comune. Le alleanze si trovano ancora per lo più nel dominio dell’empirico e del pratico, e mancano così delle coordinate teoriche e un vero processo di omogeneizzazione. Ancora una volta, il Libano fa più o meno eccezione.
Da ultimo, esiste ancora una disgiunzione tra gli spazi nazionali: l’alleanza più forte tra la sinistra, i nazionalisti e gli islamisti si trova oggi in Libano, nel tentativo di definire ciò che la sinistra e Hezbollah chiamano una “società di resistenza” ed uno “Stato di resistenza”.
In Palestina, le alleanze tra il FPLP e Hamas, per esempio, sono lungi dall’essere tanto approfondite, con le due organizzazioni che si guardano con reciproca diffidenza. In questo caso, il partenariato FPLP/Jihad islamica è da parte sua stabilito pienamente. In Egitto una certa diffidenza persiste tra i Fratelli Musulmani e la corrente di sinistra.
Ora, questa questione della ricomposizione politica e delle nuove alleanze all’opera nel mondo arabo è lungi dall’essere secondaria: essa ridisegna infatti il volto del nazionalismo pan-arabo, e potrebbe alla fine costituire una importante sfida strategica per i regimi in vigore, così come per gli Stati Uniti e le potenze europee. L’apertura del movimento islamo-nazionalista alla sua sinistra può in effetti aprire al nuovo nazionalismo pan-arabo in mutazione una importante apertura strategica e internazionale: può sfociare nella ri-emergenza di un polo terzo-mondista e nazionalista su scala internazionale, come suggerito simbolicamente dalla serie di manifesti rossi attaccati per le strade di Beirut dal settembre 2006, che vedono accostati i tre ritratti di Nasser, di Nasrallah e di Chavez.
Non si tratta quindi di postulare l’emergere di un islamismo di sinistra, non esiste. Ma si tratta di comprendere che lo sviluppo di un islamismo aperto alla sua sinistra e alle sue dimensioni nazionali cambia un po’ la distribuzione politica, e innesca dei processi lunghi di ricomposizione politica, strategica e ideologica. Gli ultimi vent’anni hanno visto pluralizzarsi il referente politico islamista, con un islamismo fondamentalista deterritorializzato sul modello della rete di Al-Quaida, la sottomissione di un neo-fondamentalismo islamico ai modelli del mercato, la comparsa di un islamismo turco governativo più simile al modello consensuale della democrazia cristiana degli anni 1950 che a quello dell’islam come modello di Stato. Ancora agli inizi ma in via di sviluppo esponenziale, l’emergenza di un polo islamista aperto tanto alla sua sinistra, che alle dimensioni nazionali ed arabe, costituisce un fenomeno politico in grado, anch’esso, di ricomporre in modo durevole la scena politica medio-orientale.
 

Note

 

[1] Fatah, Movimento nazionale di liberazione della Palestina, è l’organizzazione storica del nazionalismo palestinese. L’FPLP (Fronte popolare di liberazione della Palestina), e l’FDLP (Fronte democratico di liberazione della Palestina), sono le due principali organizzazioni dell’estrema sinistra. Hamas, Movimento di resistenza islamica, è la prima organizzazione islamista, in termini di forze militanti. Infine il PPP (Partito Popolare Palestinese) è il vecchio Partito Comunista.
[2] Jamal Samhadana è poi stato ucciso in una operazione sotto copertura israeliana, nel giugno 2006.
[3] Certe fonti libanesi accusano direttamente Hezbollah. Ciò nonostante alcuni dirigenti del Partito comunista sollevano oggi il dubbio, non scartando la tesi degli assassinii perpetrati da gruppo integralisti sunniti.
[4] Rabah Mhana, membro dell’Ufficio politico del FPLP, intervista con l’autore, Parigi, 2 maggio 2006
[5] Maxime RODINSON, “Rapport entre islam et communisme”, Marxisme et monde musulman, Seuil, 1972, pp.167-168
[6] Su questo tema, cfr. Olivier CARRE, L’Utopie islamique dans l’orient arabe, Presses de la Fondation nazionale des sciences politiques, 1994.
[7] L’asse comunemente denominato “palestino-progressista” è costituito dalle organizzazioni della sinistra libanese (Partito socialista progressista, Organizzazione di azione comunista del Libano) e dalle forze palestinesi in Libano (Fatah, FPLP, FDLP). Negli anni 1970, è stato questo ad opporsi principalmente, nel quadro della guerra civile, alle milizie cristiane, le Falangi libanesi.
[8] Saoud al Mawla, intervista con l’autore, Quoreitem, Beirut, 27 marzo 2007.
[9] L’insieme di queste organizzazioni si incontra sul principio del rifiuto incondizionato degli Accordi Provvisori di Oslo, firmati nel 1993 dal leader dell’OLP, Yasser Arafat.
[10] Il Movimento del popolo è un’organizzazione nazionalista araba di sinistra. Il suo leader, Najah Wakim, vecchio deputato nasseriano di Beirut, è una figura politica di livello nazionale, conosciuto specialmente per le sue campagne di lotta contro la corruzione.
[11] Il punto di vista dell’opposizione a proposito della riforma del sistema libanese sul modello di uno Stato “forte e giusto” può in particolare essere compreso attraverso due documenti chiave: il primo, il Documento di mutui intenti tra Hezbollah e la Corrente patriottica libera, del 6 febbraio 2006, e il secondo, documento comune prodotto dal Partito comunista libanese e la Corrente patriottica libera: Come risolvere la crisi politica in Libano? I punti di accordo tra il Partito comunista libanese (PCL) e la Corrente patriottica libera (CPL), 7 dicembre 2006.
[12] La seduta di apertura della Conferenza, il 16 novembre 2006, al Palazzo dell’Unesco di Beirut, è stata simbolo di questa convergenza progressiva tra la sinistra mondiale ed alter-mondialista e la corrente islamo-nazionalista: entro i relatori dell’apertura si trovavano Mohammad Salim, membro del Parlamento indiano e del Partito comunista indiano, Gilberto Lopez, del Partito della rivoluzione democratica messicana, Victor Nzuzi, agricoltore e leader sindacale congolese, Georges Ishaak, dirigente fi Kifaya e militante della sinistra Egiziana, Khaled Hadade, Segretario generale aggiunto del Partito comunista libanese, e infine Naim al-Quassem, Segretario generale aggiunto e numero due di Hezbollah libanese.
[13] L’opposizione Arroganti/Oppressi si rifà direttamente alla Rivoluzione iraniana del 1979, così come ad un principio dottrinario dello sciismo. Nel vocabolario politico del primo periodo della Rivoluzione del 1979, la coppia Arroganti/Oppressi significava l’opposizione tra poveri e ricchi, ma anche tra il sud “colonizzato” e il nord “imperialista”. Questa categorizzazione era adottata tanto dai Mollahs vicini a Khomeyni quanto dai gruppi di sinistra e nazionalisti.
[14] Olivier Roy, “Le passage à l’ouest de l’islamisme: rupture et continuité ”, Islamismes d’occident. Etat des lieux et perspectives, sotto la direzione di
Samir Amghar, Lignes de repares, 2006
[15] Islah Jad, intervista con Monique Etienne, rivista Pour la Palestine, marzo 2005

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*Nicolas Dot Pouillard
Dottorando in studi politici all’EHESS (Paris) e all’Università libanese (Beirut)

[Tratto da: www.mouvements.info]



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