SENZA CENSURA N.24

novembre 2007

 

La “rivoluzione silenziosa” del capitale europeo
Materiali su salario, orario di lavoro e welfare in Europa negli ultimi dieci anni

 

1. Iniziamo da un breve pro-memoria sulle “riforme” messe in atto in questi    dieci anni nei singoli paesi più importanti dell’UE: Germania, Francia, Italia e   Spagna.

 

Germania - Cominciamo dalla Germania per il ruolo di pilota ed esempio che essa ha svolto in questi anni sul terreno delle “riforme”. Si parla sulla stampa padronale di un “miracolo tedesco negli ultimi anni”, dopo la crisi del 2001/2003 e quale effetto della “più pesante ristrutturazione degli ultimi 20 anni” nell’industria manifatturiera soprattutto, ma anche nei servizi, che si è prolungata dal 2001 ad oggi.

Il risultato per il capitale è stato effettivamente impressionante: nel 2004 la crescita dei profitti delle 30 maggiori imprese è del +69% in media, nel 2005 del + 35%. In generale per l’insieme delle imprese, nel 2005 i profitti sono cresciuti del + 6,2% e nel 2006 del + 6,9%.

Vediamo quali sono i fattori che maggiormente hanno caratterizzato questa lunga fase di ristrutturazione, questa “rivoluzione silenziosa” come anche è stata definita. Tra il 2000 e il 2007 la Germania è riuscita a ridurre il costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP) nel manifatturiero del 12,2%; su questo risultato hanno inciso da un lato i salari che a parità di lavoro sono rimasti congelati (nel 2005 -0,7%, nel 2006 +1,3%), dall’altro, e soprattutto, una crescita delle ore lavorate, della flessibilità e una riduzione dei “benefici” (ferie, ecc). Le ristrutturazioni si sono realizzate soprattutto nel settore dei macchinari, costruzioni, TeLeComunicazioni, servizi finanziari; in minor misura nel tessile e nell’amministrazione pubblica.

 Il settore guida è stato sicuramente il metalmeccanico. Sin da dopo la crisi del ‘92/’93 è iniziato un processo di erosione delle componenti retributive non regolate dal contratto collettivo, in un contesto in cui si sono affermate normative in deroga a quest ultimo. E’ venuto meno  quindi l’automatismo tra retribuzioni effettive e contrattuali. Oltre ad una deriva salariale negativa si è avuta una deriva dell’orario di lavoro. Fino ai primi anni ’90, gli orari di lavoro venivano ridotti attraverso i contratti collettivi; dopo la crisi del ‘92/’93 gli orari effettivi crescono. Nel metalmeccanico vi sono deroghe alla settimana di 35 ore: per gli operai di + 2,6 ore, per gli impiegati di + 4,6 ore, nella Germania Occidentale.

In generale ciò è stato il risultato della crisi dei contratti collettivi, con una difficoltà di attuazione a livello aziendale e una perdita di controllo su retribuzioni e orario di lavoro. La strategia della confindustria metalmeccanica spinge infatti per il passaggio dal contratto collettivo di area a contratti aziendali: è un processo che dura da venti anni, ma si è accentuato dal 2001. Il vincolo contrattuale è passato nell’industria metalmeccanica ed elettronica in Germania Occidentale dal 79,9% nel ’98 al 74% nel 2002: per il 26% quindi non c’è contratto collettivo (in Germania Orientale si è passati dal 51% al 43%).

Nell’industria in generale, le aziende della Germania Ovest coinvolte dal contratto collettivo sono passate da 8100 nel ’91 a 4500 nel 2004 (in Germania Est da 1200 a 250). Nel 2006 meno di due milioni di lavoratori nell’industria dipendono dalle trattative di categoria.

La svolta decisiva si ha col contratto collettivo firmato dall’IGM (sindacato metalmeccanico) nel 2004. Prima di questo accordo era possibile deviare a livello locale dagli accordi di categoria solo in caso di grave crisi dell’azienda. Con l’accordo del 2004 ciò è possibile anche “per migliorare la produttività, le condizioni di investimento e innovazione, ecc”. Si introduce quindi una larghissima possibilità di aumento del lavoro a livello locale. L’intesa prevede oltre all’aumento delle ore lavorate (con o senza incremento salariale), la riduzione di bonus e pagamenti integrativi (assenze retribuite, tredicesima, ecc.), e il differimento di benefit specifici.

Con questo accordo si scatena l’appetito delle imprese per accordi aziendali in deroga al contratto collettivo e cresce il ricatto sui lavoratori. Ad aprire la strada e a fare scuola è, nel giugno 2004, l’accordo tra Siemens e IGM sulla settimana lavorativa che passa da 35 ore a 40, senza retribuzione straordinaria. In cambio viene garantito il posto di lavoro, per…due anni! A livello salariale viene eliminata la tredicesima mensilità e l’indennità vacanza (500 euro), sostituiti da un bonus annuale legato ai profitti. A conferma dell’importanza di questo accordo, lo stesso capo della BCE (Banca Centrale Europea), Trichet, si esprime su di esso entusiasticamente:” ben venga la settimana lavorativa di 40 ore se contribuisce a una maggiore produttività, a una più elevata flessibilità, a più competitività ed efficienza”.

Il “modello Siemens” si diffonde subito, con un ritorno dell’orario lavorativo a metà anni ’80 (data dell’accordo sulle 35 ore). La Royal Bank of Scotland in un rapporto del 2007 dice che :”secondo il sindacato IGM sono stati firmati, tra il gennaio 2004 e il dicembre 2005, 540 accordi nel settore metalmeccanico in vista di un aumento della settimana lavorativa”, solitamente senza incremento salariale, quindi riducendo di fatto il salario orario!

Nel novembre 2006 l’accordo Wolksvagen mette nel cassetto la “settimana di quattro giorni”, in vigore dal ’93. Gli orari base passano da 28,8 ore a 33 ore per gli operai e 34 ore per gli impiegati, senza aumenti di salario: con riduzioni quindi della paga oraria.

Cadono anche le maggiorazioni per lavoro prestato a fine settimana e per straordinari. I salari, che prima erano superiori del 20% al contratto nazionale, sono ora in linea con la media del settore metalmeccanico.

Alle spalle di questa revisione di orari e salari c’è il ricatto del posto di lavoro: nel solo 2002/04 sono andati persi ben 700.000 posti di lavoro per le ristrutturazioni; è ancora a inizio 2006 Daimler Crysler, Deutche Bank, Deutche Telecom annunciavano tagli consistenti di personale; solo Wolksvagen 20.000 lavoratori, il 6% della forza lavoro.

In particolare, fin dall’accordo pilota della Siemens, viene fatto pesare il ricatto della delocalizzazione: in quel caso veniva minacciata una riduzione di 2000 posti di lavoro da trasferire in Ungheria (del resto nel 2002/03 i costi di produzione alla Siemens stessa erano stati ridotti per due terzi proprio con tagli di posti di lavoro delocalizzati!).

 

E qui veniamo ad un’altra importante caratteristica del processo di ristrutturazione di questi ultimi anni in Germania, cioè la delocalizzazione. Anche se, come ammette un dirigente Wolksvagen, “se la Germania non può raggiungere i livelli di flessibilità e salari della Repubblica Ceca o del Portogallo, un recupero di produttività in Germania si applica su un numero molto maggiore di unità prodotte, e quindi ci fa risparmiare più soldi”, nonostante ciò, il ricatto della delocalizzazione si è in effetti sostanziato tra il 2000 e il 2005, con un taglio della forza lavoro del 15% e della capacità produttiva nei settori metalmeccanico ed elettronico tedesco del 10% e viene stimato che la competitività dei prodotti tedeschi è migliorata, con la delocalizzazione del 9,5% dal ’98 al 2005. Attraverso quale meccanismo? E’ presto detto: il costo del lavoro in repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia… è 1/3 della media UE (a 15 paesi); un produttore tedesco di parti meccaniche può risparmiare il 30% trasferendo fabbriche in Polonia. Così si è avuta una apertura di impianti in Europa Est soprattutto per produrre componenti importati poi in Germania per l’assemblaggio e poi ancora esportati come prodotti tedeschi e a profitto delle aziende tedesche! La delocalizzazione ha interessato soprattutto la componentistica perché qui la manodopera incide del 25% sui costi, contro il 15% dei produttori finali di assemblaggio. Così ben metà delle aziende di componentistica hanno investito all’estero, soprattutto in Europa Est. Ma la stessa Wolksvagen produce ben il 13% delle auto in Europa Est.

Alcuni dati rendono bene l’idea dello stretto legame determinatosi tra l’economia tedesca e quella dei paesi dell’Europa dell’Est, soprattutto quelli entrati nella UE nel 2004.

Un terzo degli investimenti dall’estero (IDE) in Repubblica Ceca viene dalla Germania, il 40% dell’export ceco va in Germania; il 37% dell’ import viene dalla Germania.

Il 30% degli investimenti (IDE) in Ungheria viene dalla Germania; il 35% del suo export va in Germania; il 30% del suo import viene dalla Germania.

Il 24% degli investimenti dall’estero in Slovacchia è tedesco; il 29% dell’export va in Germania; il 25%  dell’import viene dalla Germania. Solo la Wolksvagen rappresenta il 15% dell’export slovacco.

In totale gli IDE tedeschi nei paesi dell’Europa est entrati nell’UE nel 2004, ammontavano in quel anno a 28,5 miliardi di euro.

 

Una componente importante nella gestione della “rivoluzione silenziosa” tedesca è stato il piano governativo varato a fine 2003 denominato “Agenda 2010”, che è stato definito “il più ambizioso programma di riforme del welfare del dopoguerra”. Questo piano prevedeva:

-una riduzione delle tasse per 9 miliardi nel 2004;

- un taglio degli assegni di disoccupazione (il primo dal 1945!);

-nuove misure per il licenziamento nelle piccole imprese (un ammorbidimento delle     normative sulla tutela del licenziamento);

- regole più stringenti per imporre ai disoccupati di cercarsi una nuova occupazione.

Questi provvedimenti, detti anche “riforme Hartz”, sono tesi nella loro parte essenziale, a rendere “sempre più difficile, rispetto a prima, la condizione del disoccupato in Germania, aumentando di conseguenza la sensibilità del dipendente alla salvaguardia del proprio posto di lavoro e a fare sacrifici per mantenersi in vita” (Sole 24 ore del 9/2004).

Il modulo più importante delle riforme Hartz è il quarto, scattato nel gennaio 2005, quello “che rappresenta il primo tentativo di modificare, dal dopoguerra, il ricco welfare tedesco”: in sostanza “si ridurrà il generoso sussidio di disoccupazione oggi legato all’ultimo stipendio percepito e d’ora in avanti raffrontato al reddito familiare complessivo” (Sole 24 Ore- 2004). In altri termini Hartz IV trasforma  “la maggior parte dei disoccupati da percettori di un assegno “garantito” a postulanti di un assegno assistenziale, che viene negato se c’è qualche altro reddito in famiglia, se non ci si sottopone a umilianti controlli dell’ufficio del lavoro, se non si accettano lavoretti punitivi pagati un euro l’ora (per chi non lavora da oltre un anno)” (Il Manifesto 12/2006).

L’integrazione di questo provvedimento nella più generale strategia del capitale tedesco riguardo al lavoro, è ulteriormente chiarito dal Sole 24 ore (giornale confindustriale italiano), quando evidenzia il fatto che finora (2004), tra gli espulsi dal posto di lavoro  (per le ristrutturazioni, le delocalizzazione, ecc.), solo il 40% è disponibile ad una nuova occupazione “aumentando la propria produttività”, cioè a condizioni di sfruttamento peggiori (si fa notare che in Usa è il 70%). Ciò a causa di “un mercato del lavoro poco flessibile e che impedisce l’aggiustamento salariale verso il basso dove i differenziali di produttività lo richiederebbero”; in conclusione “la Germania non è in grado oggi di cogliere gli effetti positivi della delocalizzazione (sic!) e solo con l’entrata in vigore della riforma del lavoro nel gennaio 2005 si potrà cominciare ad avere qualche segnale promettente” (Sole 24 ore 9/2004).

 

FRANCIA Anche qui negli ultimi 10 anni le “riforme” sono state realizzate nel contesto di un profondo processo di ristrutturazione produttiva, che ha visto la dismissione di molte aziende pubbliche e in generale un processo di deindustrializzazione che negli ultimi 25 anni  ha generato una riduzione degli addetti all’industria da 5,6 a 2,3 milioni (dal 25 al 15% dei lavoratori  complessivi); solo nel 2003 sono andati persi 100.000 posti di lavoro  nelle fabbriche per delocalizzazioni in Europa Est, soprattutto nel tessile e abbigliamento. Si può datare dal ’97, col governo Jospin, l’accelerazione nelle riforme sul lavoro e “paradossalmente” proprio a partire dalla legge per le 35 ore. Infatti, con le leggi dette Aubry del 1998 e del 2000 relative alla riduzione del tempo di lavoro (RTT), si impongono nuove norme per una maggior flessibilità del lavoro, in particolare, in cambio della riduzione di orario (che peraltro si è realizzata solo nelle grandi imprese!), si concedono flessibilità degli orari e ricorso a orari atipici, moderazione salariale, crescita del tempo di utilizzo degli impianti e della produttività, oltre ad una riduzione degli oneri sociali per le imprese. Non a caso la produttività oraria in Francia, unica in Europa, è più elevata che in USA!

Quanto all’orario di lavoro viene generalizzata la cosiddetta “annualizzazione del tempo di lavoro”. Infatti “in molte imprese i dipendenti possono fare fino a 44 ore (o 46) per diverse settimane e…16 ore o anche meno per molte altre settimane, senza che abbiano potere decisionale circa i periodi di maggior lavoro ( e di minor lavoro). L’essenziale è che alla fine dell’anno abbiano totalizzato 1607 ore. In questo modo il lavoro straordinario non dà luogo a una paga straordinaria; cosa che ha generato la caduta del potere d’acquisto, in maniera sensibile tra gli operai e i tecnici dell’industria o tra i lavoratori del commercio” (Le Monde Diplomatique 4/2007).

Nel 2003 segue la legge Fillon sempre sull’orario di lavoro, secondo la quale, una volta raggiunte le 1607 ore annuali si può imporre a ogni dipendente 220 ore annue di straordinari: ”una maniera appena velata di ritornare alla settimana di 39 ore. Certo bisogna pagare una quota aggiuntiva, teoricamente fissata al 25%, per le aziende con più di 20 dipendenti, eccezione fatta per quegli accordi aziendali che permettono di scendere al 10%” (Le Monde Diplomatique).

Nel 2004 fa scuola anche un accordo alla Bosh, che imita quello alla Siemens in Germania, in cui si impone un’ora in più di lavoro settimanale senza compenso.

Nel 2003 si ha anche un progetto di revisione del reddito minimo di inserimento (RMI), che da dispositivo “passivo” si fa “meccanismo di incentivazione dell’occupazione”.

Lo scopo delle successive riforme del lavoro è stato l’attacco al contratto a tempo indeterminato (CDI) e la deregulation del mercato del lavoro. Così nel 2005 sono varate due leggi sul mercato del lavoro; nell’agosto 2005 viene introdotto il contratto di nuova assunzione (CNE): per le imprese con meno di 20 dipendenti è possibile il licenziamento senza giusta causa  nei primi due anni. A fine 2005 tocca alla famosa legge sui CPE “per l’eguaglianza delle opportunità”, che implica il licenziamento senza giusta causa nei primi due anni di lavoro per i giovani fino a 26 anni in imprese con più di 20 dipendenti: non passerà!

Ancora nel 2007 sono previsti importanti piani di ristrutturazione nell’auto, TLC e aeronautica  e si ritengono necessari “urgenti interventi su mercato del lavoro e welfare per rimediare il ritardo nelle riforme”rispetto al “modello” tedesco (compito che verrà affidato al piano Sarkozy!). Ciò nonostante già oggi il 50% dei nuovi assunti sia a contratto flessibile e il CLUP ( costo del lavoro per unità di prodotto), nel manifatturiero sia sceso dal 2000 al 2007 del 4,5%. E, secondo Le Monde Diplomatique, tra il 1991 e al 2005 i dividendi versati  agli azionisti dell’insieme delle imprese non finanziarie si sono moltiplicati di 2,25, mentre il salario medio netto è aumentato del 6,6% nello stesso periodo.

 

ITALIA Dal 2000 anche in Italia si è verificata una lunga fase di ristrutturazione nelle imprese, di cui solo nel 2005 se ne vedono “gli effetti” in termini di ripresa produttiva e crescita del PIL”, nonché nel rialzo dei profitti! Dal ’97 al 2003 si verifica una lunga fase di moderazione salariale, e ancora nel 2005 i salari reali erano sotto il livello del 2002.

Riguardo all’orario di lavoro (in applicazione di una direttiva UE di cui si tratterà successivamente), nel 2003 è stata varata la legge 66, con aperture su flessibilità e prestazioni: si eliminano i limiti di orario normale e lavoro straordinario, sia giornaliero che settimanale.

A fine 2005 la confindustria proponeva però in un suo manifesto programmatico una ancor maggiore flessibilizzazione degli orari e una “flessibilità delle retribuzioni” che colleghi una quota maggiore del salario “all’ efficienza e produttività della prestazione” oltre che “ alla redditività dell’impresa”.

Le riforme del mercato del lavoro si sono concentrate in due passaggi fondamentali: la legge Treu del ’97 e la legge 30 del 2005.

I risultati di queste riforme sono evidenziate dai seguenti dati ISTAT del 2007:

- nel 2006 rispetto al 2005 l’occupazione a tempo pieno è cresciuta dell’1,4%, quella a tempo parziale del 5,4%. La crescita dell’occupazione (+0,9%), è dovuta alla sempre maggiore diffusione delle forme di flessibilità, compreso il part-time (26,5% delle donne dipendenti ha contratto part-time!).

“Il cospicuo incremento dell’occupazione temporanea (+9,%) si è riflesso in un aumento di nove decimi di punto percentuale dell’incidenza del lavoro a termine (13,6% dell’occupazione dipendente), che si è avvicinata a quella dell’ UE (16%)”. La quota di assunzione a tempo determinato ha superato il 50%.

 

SPAGNA- Dopo le riforme di Aznar che hanno portato alta disoccupazione e al 30% di lavori precari, nel maggio 2006 c’è un accordo tra governo e parti sociali per una riforma lavorativa, che si pone in continuazione della riforma del ’97  che rendeva il licenziamento più economico per alcune fasce di forza lavoro. La nuova riforma implica “misure di stabilizzazione dei rapporti temporanei accompagnate ad una riduzione dei costi legati al licenziamento” sul modello di quanto attuato in Danimarca (di cui si parlerà in seguito).

 

2) Una visione d’insieme sulle trasformazioni verificatesi nei paesi europei in questi anni su salario, orario, mercato del lavoro e welfare, ce la dà la BCE in alcuni recenti suoi Bollettini.

 

a)  Cominciamo dai salari. Entrando nel merito degli andamenti recenti delle retribuzioni la BCE (Bollettino 1/2007), sostiene che “gli ultimi 10 anni sono stati caratterizzati da una dinamica nel complesso moderata delle retribuzioni e del costo del lavoro. Il tasso di crescita annuo dei redditi nominali per dipendente nell’area dell’euro si è collocata in media al 2,2% tra il ‘95 e il 2005, rispetto a oltre il 5% annuo del decennio precedente. La crescita media delle retribuzioni orarie è stata lievemente superiore, pari a circa il 2,6%, per effetto del calo tendenziale delle ore lavorate per addetto.

Inoltre, nonostante il marcato rallentamento della crescita della produttività del lavoro, tra il ’95 e il 2005, la crescita annua del costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP) nell’area dell’euro, è stata in media pari a circa l’1,4%, meno della metà del tasso di crescita osservato nel decennio precedente”.

Quali fattori strutturali hanno portato a questi risultati?

Le retribuzioni contrattuali possono essere considerate la componente di base del costo del lavoro. La crescita delle retribuzioni contrattuali costituisce la maggior componente della crescita del costo del lavoro per occupato, pertanto, gli esiti moderati della contrattazione salariale si confermano come la principale determinante della minor crescita salariale complessiva durante l’ultimo decennio.”

Agli esiti moderatori delle contrattazioni, potrebbero aver contribuito anche altri fattori, come i livelli tuttora elevati di disoccupazione dovuta a rigidità strutturali, i cambiamenti nelle strutture e tecnologie produttive, nonché le crescenti pressioni al ribasso sul costo del lavoro riconducibili  a una rafforzata concorrenza mondiale (ivi compresa la concorrenza dei nuovi stati membri dell’ EU)”.

Viene inoltre segnalato che anche “la pressione indotta dalla globalizzazione sui salari e dall’aumento  dell’ immigrazione  nell’area dell’ euro”, hanno contribuito alla dinamica moderata delle retribuzioni.

Ma determinanti nella dinamica dei salari sono state anche le politiche statali.

Nel rilevare la crescita del tasso di occupazione in Europa del 6,6% nell’ultimo decennio, crescita che ha interessato soprattutto donne e lavoratori in età avanzata, la BCE fa notare “che i tassi di occupazione sono aumentati in misura più significativa tra i lavoratori meno qualificati. Ciò può riflettere, tra l’altro, politiche salariali che sostengono la creazione di posti di lavoro con salari più bassi”.

A tale proposito si afferma che nell’ambito della legislazione in materia di tutele del posto di lavoro “i paesi dell’area dell’euro hanno compiuto progressi soprattutto nel rendere più flessibile il ricorso a contratti di lavoro a tempo determinato. Di conseguenza  la quota di giovani che lavorano con contratti di questo tipo nell’area, ad esempio, è aumentata nel 2006 al 50,3% dal 41 del ’96. Nel contempo il grado di tutele del posto di lavoro per i contratti a tempo indeterminato è diminuito solo lievemente dal 1990” (ma è diminuito!).   

E più avanti: “l’accrescimento della flessibilità dei contratti di lavoro a tempo determinato dovrebbe aver favorito la possibilità di occupazione soprattutto per i lavoratori in età avanzata, le donne e i giovani”.

 La crescita dell’occupazione di donne e lavoratori in età avanzata è stata favorita anche dalle “riforme dei sistemi tributari e previdenziali mirate ad incrementare gli incentivi al lavoro “per queste due fasce di forza lavoro.

 Ma la BCE non guarda solo al passato! E sottolinea che nel futuro “si impongono sforzi per incrementare ulteriormente gli incentivi al lavoro per i lavoratori a bassa retribuzione e i disoccupati, nonché per rendere la regolamentazione del mercato del lavoro più flessibile laddove ostacola le opportunità del lavoro soprattutto per giovani, donne e lavoratori in età avanzata”.

In conclusione, le riforme previdenziale e del mercato del lavoro sono tese ad arruolare forza lavoro più debole e ricattabile, che garantisca una maggior moderazione salariale: “nell’ultimo decennio i mercati del lavoro dell’area dell’euro hanno registrato un generale miglioramento dei risultati, accompagnato da una dinamica delle retribuzioni moderata e da alcuni progressi nelle riforme strutturali”.

Nello stesso articolo la BCE segnala, quale indicatore che coglie i cambiamenti strutturali verificatisi nel mercato del lavoro europeo, il fatto che le stime del “tasso di disoccupazione che non esercita pressioni sull’inflazione” sono “ scese moderatamente nell’ultimo decennio”. “Il tasso di disoccupazione che non esercita pressioni sull’inflazione salariale (NAIRU), (cioè che non genera un rialzo dei salari, considerato a sua volta dalla BCE alla base dell’inflazione in generale, o almeno uno dei fattori determinanti), per l’area dell’euro sarebbe sceso dal 9,3% del ’95 all’8% del 2006. L’andamento del NAIRU nell’ultimo decennio è “attribuito in larga misura ai vantaggi di una maggiore flessibilità salariale, nonché alle riforme dei mercati dei beni e del lavoro attivate in diversi paesi dell’area dell’euro”- “Tuttavia, aggiunge la BCE, il NAIRU rimane ancora su un livello elevato, suggerendo la necessità di ulteriori riforme per incrementare la flessibilità del mercato del lavoro”.

In altri termini, il mercato del lavoro è stato ristrutturato in funzione di una maggior pressione sulla forza lavoro, la cui maggior precarietà attutisce le richieste salariali o comunque implica un’ “andamento moderato delle retribuzioni” ed è ancor più efficiente, dal punto di vista del capitale, del tradizionale esercito industriale di riserva, della classica disoccupazione, che comunque resta ancora necessaria in  Europa ad un livello assai elevato (+8%), pena un rialzo della pressione salariale, con evidente conseguenze sui profitti (più che sull’inflazione, come piace dire alla BCE!).

 

b) Riguardo agli orari di lavoro, la BCE se ne occupa tra l’altro nel Bollettino del 9/2006, in cui si sostiene che “negli anni recenti il mercato del lavoro nell’area dell’euro è stato interessato da diversi cambiamenti strutturali. Taluni sono riconducibili a un maggior ricorso al lavoro a tempo parziale, ma si è realizzata anche maggior flessibilità nella gestione degli orari di lavoro degli impieghi a tempo pieno.

In generale la BCE rileva che nell’area dell’euro le ore lavorate totali sono aumentate nettamente durante la seconda metà degli anni ’90, per poi diminuire nel periodo di rallentamento dell’attività economica nel 2002/03. Con la graduale ripresa dell’economia, il totale delle ore lavorate ha avuto una evoluzione analoga a quella del PIL, aumentando nuovamente nel 2004 e 2005, dello 0,6 e 0,7%”.

La crescita vigorosa delle ore totali alla fine degli anni ’90 è stata principalmente sospinta da un aumento dell’occupazione a tempo pieno”, mentre “l’aumento recente delle ore lavorate totali sembra essere stato interamente sostenuto dalla crescita delle ore medie lavorate da occupati a tempo pieno e da un aumento dei posti di lavoro a tempo parziale, a fronte di un contributo negativo dell’occupazione a tempo pieno”.

Quindi a fronte di una diminuzione dell’occupazione a tempo pieno è proprio l’allungamento dell’orario dei lavoratori a tempo indeterminato uno degli elementi fondamentali della crescita delle ore totali lavorate.

L’altro elemento è la crescita dei posti di lavoro a tempo parziale: “l’evoluzione dei quadri normativi, potrebbe aver influenzato le forme della recente crescita dell’occupazione, portando ad una maggiore creazione di posti di lavoro a tempo parziale. La quota dell’occupazione a tempo parziale nell’area dell’euro ha registrato un netto aumento tra il 2003 e il 2005, dal 16,9% al 19%, riflettendo probabilmente l’impatto delle riforme del mercato del lavoro nell’area” (tra cui la riforma Hartz che ha introdotto i cosiddetti ”lavori da un euro” in Germania)”. Tra il ’95 e il 2006 gli occupati a tempo parziale rispetto al totale degli occupati sono passati dal 13,8% al 19,3%.

 

La crescita delle ore totali di lavoro in Europa negli ultimi anni è un risultato ricercato con determinazione dal capitale europeo. Lo dimostra il dibattito su questo tema protrattosi nel corso di questi anni tra le istituzioni, gli economisti e sui giornali padronali. Vediamo alcuni elementi di questo dibattito che mettono in luce l’importanza strategica del problema per il capitale europeo.

Ad aprire la danza è proprio la BCE in un suo Bollettino del 2002 (anche se un primo studio sul tema risale già al 2000). Qui il cervello del capitale europeo avvia una riflessione sui ritardi dell’economia europea su quella americana, che era appena uscita da una lunga fase di crescita, di cui si cercano le ragioni.

Nella seconda metà degli anni ’90, la produttività media del lavoro ha conosciuto un rallentamento nell’area dell’euro a fronte di una accelerazione negli USA, in seguito alla quale la crescita della produttività negli USA ha superato quella nell’area dell’euro”; però “negli ultimi venti anni l’area dell’euro ha registrato un calo tendenziale del numero di ore per addetto che non trova riscontro negli USA. Di conseguenza è possibile che il tanto dibattuto differenziale di crescita della produttività nella seconda metà degli anni ’90, sia stato meno pronunciato di quanto generalmente stimato”. La differenza sta cioè nel numero maggiore di ore lavorate in USA rispetto all’Europa. Dunque se in un primo momento si era valutato che la crescita USA della seconda metà degli anni ’90, maggiore rispetto a quella europea, fosse dovuta al fatto che un’ ora lavorata negli USA rendeva di più, perché supportata da più investimenti, si rileva ora che gli USA in realtà producono di più in relazione alla popolazione (PIL pro capite ), “perché si lavora più ore la settimana, più giorni l’anno, più anni nell’arco della vita” (Sole 24 Ore). E si citano i valori OCSE riferiti al 2001 che sono di 1523 ore annue lavorate in Francia, 1606 in Italia, 1446 in Germania e ben 1821 in USA.

Tra il 2002 e il 2003 il tema viene ripreso sia dal FMI che dall’OCSE.

Secondo il FMI “la priorità andrebbe attribuita ad invertire il calo di lungo periodo dell’utilizzazione del fattore lavoro in Europa. Infatti se il prodotto per ore lavorate è più o meno quello degli americani, gli europei però lavorano meno di quanto si faccia oltre Atlantico. Per due ragioni: anzitutto la quota della popolazione attiva (e anche della popolazione totale), che lavora è nettamente inferiore a quella degli USA, cioè il tasso di occupazione europea è più basso; inoltre in media i lavoratori europei lavorano meno ore di quelli americani”.

Secondo l’OCSE:” il considerevole vantaggio degli USA in PIL pro capite, particolarmente se confrontato con quello dei maggiori paesi europei, è largamente dovuto alle differenze tra il totale delle ore lavorate pro capite piuttosto che a una maggiore produttività per ore lavorate”.

Il dibattito proseguirà ancora nel 2004, proprio in occasione dei contratti aziendali firmati in Germania (Siemens, ecc.), di cui si è parlato, sulle pagine dei giornali padronali europei, Financial Times, Sole 24 ore, ecc.

Vediamo gli elementi più significativi emersi dagli articoli pubblicati attorno a questi due aspetti, della produttività e delle ore lavorate in Europa e USA.

Anzitutto si constata che se il PIL pro capite europeo è oggi tre quarti di quello USA, ciò non è dovuto al differenziale di produttività tra le due aree: la produttività oraria dei lavoratori europei, cioè la produzione per ora lavorata, è oggi al 91% dei livelli USA, contro il 65% del 1970. Dunque la produttività del lavoro è cresciuta molto più in fretta in Europa che in USA. La produttività per ora lavorata della Francia oggi, supera addirittura quella americana di cinque punti percentuale.

La produttività oraria è un confronto tra l’efficienza dei settori economici; il gap tra PIL pro capite USA e quello europeo non è causato dunque da una differenza nell’efficienza produttiva: “ non è dovuto al capitale investito (che giustifica non più dell’8% del differenziale di reddito tra USA ed Europa), ma al lavoro”…cioè alle ore lavorative! Ciò non toglie che la crescita della produttività del lavoro in Europa nella seconda metà degli anni ’90 abbia subito un rallentamento effettivo; nel 1980 la produttività oraria europea era l’88% di quella USA; a metà anni ’90 lo svantaggio era quasi recuperato; poi è scivolata di nuovo al livello del 1980. In effetti negli anni ’80 l’Europa punta le sue carte sull’automatizzazione dei processi produttivi e su una crescita della disoccupazione: si produce di più con meno lavoratori; l’alta produttività è dovuta all’uso di una gran quantità di impianti e macchinari.

 Il rapporto capitale/lavoro (capitale fisso per lavoratore), cresce così più velocemente che in USA: dal ’74 al ’96 + 1,1% l’anno in USA e + 2,8% in Europa. Dopo il ’95 però ha pesato sulla crescita della produttività europea “l’impatto relativamente debole delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ITC) nell’area euro”. Secondo il FMI (2004), il calo della crescita della produttività del lavoro in Europa dal +2,2% in media nel ‘90/’95 al +1,4% nel ‘95/2001, calo che si è concentrato soprattutto nei settori di produzione tradizionali che non sono né produttori né utilizzatori intensivi di ITC, sarebbe dovuto al rallentamento in Europa del rapporto capitale/lavoro: “un periodo prolungato di moderazione salariale ha indotto le imprese a invertire le politiche precedenti di sostituzione di forza lavoro con capitale e tornare a modelli di produzione con impiego più intensivo di lavoro”.

 Soprattutto non si è riusciti a migliorare la produttività: durante “la grande rivoluzione tecnologica di fine anni ‘90”, a causa degli scarsi investimenti in ITC; in USA il balzo di produttività nella seconda metà degli anni ’90 (+2,6% nel ‘94/2000), si è infatti verificato soprattutto nei settori che producono e in quelli che utilizzano maggiormente l’ ITC.

 Solo nel 2006 la produttività europea crescerà di nuovo più di quella USA (+1,5% rispetto al +1,4% USA).

In ogni caso, a prescindere dal rallentamento nella sua crescita a cavallo tra gli anni ’90 e il nuovo millennio, resta “che dal punto di vista della produttività, di quanto cioè il singolo addetto produce a parità di ore lavorate, l’Europa ha ormai recuperato bene i ritardi degli anni ‘60-‘70”; è alle ore lavorate che si rivolge dunque l’attenzione dei nostri esperti per spiegare il “gap” europeo riguardo al PIL pro capite, in rapporto agli USA.

Partiamo da un esempio. Negli USA il PIL per ore lavorate (la produttività oraria), è cresciuta nel 1970/2000 del 32%. Le ore per persona sono anche salite del 26%; così il PIL per persona (pro capite!) è cresciuto del 64%. In Francia, nello stesso periodo, il PIL per ore è cresciuto dell’83%. Ma le ore per persona sono diminuite del 23%; così il PIL pro capite è cresciuto solo del 60%. I dati francesi sono di poco inferiori alla media europea.

E’ a partire dagli anni ’70 che le ore lavorate pro capite cominciano a divergere tra le due sponde dell’atlantico; dal ’70 le ore lavorate pro capite sono aumentate del 20% in USA e diminuite del 23,5% in Francia, del 17,1% in Germania, del 10,1% in Italia. Gli anni ’80 hanno visto la maggior divaricazione. Ma da metà anni ’90 la differenza ha più o meno smesso di crescere. Dal 2003/04 sembra incominciata una nuova convergenza, a partire dagli accordi in Germania che abbiamo visto. Non sono gli USA a lavorare di meno quindi, ma l’Europa a lavorare di più. Secondo la BCE (2006), la tendenza alla riduzione dell’orario di lavoro in Europa “sembra essersi arrestata solo più di recente”.

Sull’interpretazione di questi dati non c’è unanimità, sulle conseguenze da trarre invece i pareri dei nostri esperti convergono nella sostanza.

Perché dunque questa divaricazione nelle ore lavorate pro capite tra Europa e USA? Oltre al fatto che in USA si va in pensione più tardi e che il numero medio di ferie dei lavoratori USA è molto più basso, per alcuni, la diminuzione del numero di ore lavorate per persona in Europa è derivata in generale soprattutto dall’abbassamento del numero di ore lavorate per lavoratore piuttosto che dall’aumento della disoccupazione o dal calo del tasso di partecipazione. In particolare sarebbe dovuta per lo più al calo del numero di ore lavorate dai lavoratori a tempo pieno, non alla crescita dei lavoratori a tempo parziale. Per altri invece, il divario tra Europa e USA sulle ore lavorate “si può scomporre in due componenti:

a- l’Europa ha un più basso tasso di occupazione. La quota di popolazione attiva che lavora è minore rispetto agli USA. Questo fattore spiega circa i due terzi del divario;

 b- il lavoratore medio europeo lavora un numero inferiore di ore: questa componente, che spiega un terzo del divario, riflette in parte la diffusione del lavoro part-time in Europa (nel caso della Germania il part -time spiega quasi metà della differenza)”. Quindi “i dati suggeriscono che la ragione principale per cui gli europei lavorano meno degli americani è che molte più persone in Europa non lavorano affatto. Certo il lavoratore medio europeo ha una settimana lavorativa più breve e meno settimane lavorative in un anno dei lavoratori americani. Ma questo non è il fattore più importante”. (La Voce. info)

Ci pensa comunque il FMI a tagliare corto: “la bassa utilizzazione del fattore lavoro è il risultato di decenni di politiche che hanno incoraggiato il tempo libero retribuito e che l’Europa non si può più permettere”; si suggeriscono quindi riforme del mercato del lavoro che generino “un maggior numero di occupati e che lavorino più a lungo” (2004). E in generale i pareri concordano non solo su questa terapia suggerita dal FMI, ma anche su chi se ne deve assumere la responsabilità, e sugli strumenti che deve utilizzare per attuarla: cioè lo Stato e le “politiche statali”.

Infatti, in ultima analisi, il “divario” sarebbe “il risultato di politiche pubbliche (sistemi pensionistici più generosi, protezione degli occupati che tende ad escludere dal mercato del lavoro giovani, donne e anziani, tassazione più alta del lavoro)”. E ancora, la differenza (tra USA ed UE), va cercata nella “diversa politica di disoccupazione e welfare in genere, che soprattutto con le riforme del 1996 è diventata negli USA molto più restrittiva e assicura solo 26 settimane di sussidio di disoccupazione” (Sole 24 ore 6/2003). Infine “il basso tasso di partecipazione al lavoro degli anziani è il risultato dei generosi sistemi pensionistici europei. E il basso tasso di occupazione tra i giovani e le donne riflette una regolamentazione del mercato del lavoro che protegge gli occupati e accresce il loro potere contrattuale, ma che esclude gli altri dal lavoro”. (La Voce. info) Lapidario è il capo della BCE Trichet, secondo il quale “in Europa tasse, sicurezza sociale, pensioni sono fattori che stanno ponendo disincentivi al lavoro”.

 

c) Le riforme del Welfare sono dunque strettamente connesse con quelle del mercato del lavoro e con la gestione di salari e orari.

Secondo la BCE (2006), “nell’ultimo decennio i paesi dell’area dell’euro, in media, hanno compiuto passi avanti nell’aumentare gli incentivi al lavoro, soprattutto mediante la riduzione dei disincentivi a rimanere più a lungo nel mercato del lavoro e degli incentivi finanziari  al prepensionamento”.

E ancora: “negli ultimi 10 anni sono stati compiuti progressi considerevoli per ridurre gli incentivi al prepensionamento per i lavoratori in età avanzata… Nel contempo tra il 2001 e il 2005 l’età media di uscita della forza di lavoro dell’area dell’euro è aumentata di oltre 9 mesi, collocandosi a 60,7 anni”.

Così oggi si può dire che “sembra stiano gradualmente producendo effetti le riforme dei sistemi tributari e previdenziali mirate a incrementare gli incentivi al lavoro per donne e lavoratori in età avanzata”.

Si suggerisce comunque “la prosecuzione delle riforme tributarie e previdenziali ivi comprese…correzioni dei sussidi al reddito corrisposti ai disoccupati, laddove questi riducono gli incentivi alla ricerca di un posto di lavoro”. Questo è infatti l’altro contenuto fondamentale delle riforme del welfare europeo in questi anni: “diversi paesi dell’area dell’euro si sono concentrati anche sull’inasprimento dei criteri di disponibilità al lavoro e sulla riduzione della durata dei sussidi di disoccupazione”.

 

3) Il capitale europeo non si è limitato a dare senso e significato alla sua prassi sostanzialmente unitaria attraverso le analisi dei suoi esperti e nei Bollettini della BCE; negli ultimi dieci anni si è consolidato anche l’intervento delle istituzioni comunitarie (UE) atto a realizzare un progetto sempre più definito anche sul piano legislativo.

 

Il pilastro della politica comunitaria in materia di “occupazione” è il trattato di Amsterdam del 10/’97, entrato in vigore il 1/5/99. E’ con questo trattato infatti che agli obiettivi comunitari si è aggiunto esplicitamente quello di “promuovere l’occupazione”. Con esso si esplicita l’intenzione di elaborare “una strategia coordinata” su questo terreno: se prima mancavano sufficienti basi giuridiche comuni in campo sociale, esse si sono concretizzate in questo trattato. Esso tra l’altro impegna gli Stati membri a “sviluppare una strategia coordinata a favore della promozione di una forza lavoro competente, qualificata e adattabile, nonché di mercati del lavoro in grado di rispondere ai mutamenti economici”.

L’articolo 137 prevede che il Consiglio Europeo possa intervenire a rafforzare la propria azione adottando direttive approvate a maggioranza qualificata (cioè senza la necessaria unanimità di tutti i paesi membri, ciò che sta ad indicare la volontà di accelerare i processi di riforma nel senso voluto!), su una serie di temi tra cui le “condizioni di lavoro”, “l’integrazione delle persone escluse dal mercato del lavoro”, “l’adottamento di incentivi per lottare contro l’emarginazione sociale”…una terminologia di cui conosciamo il reale significato! In generale poi quando si dice “più occupazione”, si intende “più flessibilità”; infatti “l’introduzione di forme occupazionali flessibili sembra delinearsi come l’unico modo per fare crescere il tasso di occupazione. Ecco perché tutti i paesi europei (UE) hanno adeguato (o lo stanno facendo), le normative per favorire l’introduzione di nuove forme contrattuali, così precisa il Sole 24 Ore a commento degli obiettivi del Trattato in materia di “occupazione”.

Un ulteriore passo nella definizione di un progetto strategico comunitario attorno alla questione “lavoro”, è stato fatto a Lisbona nel 2000, dove vengono promosse una serie di riforme per rimediare al “calo della produttività e al ritardo nelle ITC” in Europa, da realizzare entro il 2010.

In esecuzione di questi nuovi accordi la UE ha varato alcune “direttive”, tra cui una sul lavoro determinato  e una sul part time, che hanno iniziato a “imporre una minima regolamentazione del mercato del lavoro in tutta Europa”. Le direttive UE sono “documenti legali contenenti i principi a cui gli Stati membri devono conformarsi, quale strumento per la traduzione degli standard internazionali in regole legalmente vincolanti; al tempo stesso i paesi godono di una ampia libertà circa i mezzi da essi prescelti per attuare tali principi, prevedendosi altresì un appropriato periodo transitorio”. In altri termini le direttive sono le leggi varate dagli organi del potere legislativo dell’UE (Consiglio dei ministri europeo e, in parte, parlamento europeo), su proposta della commissione europea, che devono poi essere recepite dai parlamenti dei paesi membri che le traducono in vere e proprie leggi nazionali adattandole al contesto locale. Il compito di proporre nuove leggi/direttive comunitarie è affidato alla Commissione Europea, la quale prima dell’avvio del procedimento legislativo esprime la sua opinione sul tema oggetto della direttiva tramite i cosiddetti “libri verdi”, con lo scopo di aprire un confronto con le parti interessate, cioè governi e “parti sociali”, che nel nostro caso sono le imprese e i sindacati “ufficiali”.

Particolarmente significativo è il recente (2007) libro verde della Commissione europea titolato: ” Modernizzare il diritto del lavoro per rispondere alle sfide del XXI secolo”.

Il suo percorso sarà questo: “una consultazione pubblica sarà aperta sulle questioni  sollevate dal libro verde per un periodo di quattro mesi”…”Nel giugno 2007 sarà presentata una comunicazione della Commissione sulla “flessicurezza”. Tale testo avrà lo scopo di definire entro la fine del 2007 gli argomenti  a favore della “flessicurezza”, nonché una serie di principi comuni volti ad aiutare gli stati membri ad aumentare gli sforzi nel processo di riforma”.

Vediamo alcuni significativi passi di questo libro verde, particolarmente rivelatori delle future intenzioni a livello comunitario sul terreno del lavoro.

L’obiettivo del presente libro verde è di lanciare un dibattito pubblico nell’UE al fine di riflettere sul modo di evolvere il diritto del lavoro in  modo tale da sostenere gli obiettivi della strategia di Lisbona.

Tra l’altro esso intende “far partecipare i governi degli Stati membri, le parti sociali e le altre parti interessate a un dibattito aperto per esaminare in quale modo il diritto del lavoro può contribuire a promuovere la flessibilità combinata con la sicurezza del posto di lavoro, indipendentemente dalla forma del contratto, contribuendo in tal modo ad aumentare l’occupazione e a ridurre la disoccupazione”.

L’obiettivo di modernizzare il diritto del lavoro è parte di uno sforzo teso a “mobilitare tutte le adeguate risorse nazionali e comunitarie al fine di promuovere una forza  di lavoro preparata, formata e flessibile e mercati del lavoro in grado di rispondere alle sfide generate dal duplice impatto della mondializzazione e dell’invecchiamento demografico in Europa”.

 “ I mercati del lavoro europei debbono raccogliere la sfida consistente nel conciliare una maggiore flessibilità con la necessità di massimizzare la sicurezza per tutti”.

Si tratta della nota “flessicurezza”, che risponde all’esigenza di “misure volte ad adeguare i contratti di lavoro standard in modo tale da facilitare una maggiore flessibilità sia per i lavoratori che per le imprese” e di aiutare “le imprese a rispondere in modo flessibile alle necessità di una economia incentrata sull’innovazione, nonché alle trasformazioni del panorama competitivo generate dalla ristrutturazione”.

Dell’approccio di “flessicurezza” sono parte anche “le politiche attive del mercato del lavoro, che aiutano (sic!), i disoccupati o gli inattivi a reintegrarsi in questo mercato; regole più flessibili nel settore della sicurezza sociale, ecc.”

Il presente libro verde esamina il ruolo che potrebbe svolgere il diritto del lavoro nel promuovere la “flessicurezza”nell’ottica di un mercato del lavoro più equo, più reattivo e più inclusivo, in grado di contribuire a rendere più competitiva l’Europa”.

Dopo l’elencazione di questa filosofia generale, il documento affronta “la situazione odierna del diritto del lavoro in Europa”, facendo una fotografia della realtà impostasi in questi anni.

La rapidità dei progressi tecnologici, l’intensificazione della concorrenza collegata alla globalizzazione…sottolineano la necessità di aumentare la flessibilità. L’emergere della gestione just in ‘time’, le tendenze delle imprese a rivedere la loro politica di investimento a più breve termine, la diffusione delle ITC, oltre alle evoluzioni della domanda sempre più frequenti, hanno spinto le imprese a organizzarsi in modo più flessibile. Tutto ciò riguarda l’evoluzione dell’organizzazione e dell’orario di lavoro, i salari e il numero dei dipendenti nelle varie fasi del ciclo produttivo. Questi cambiamenti hanno creato una domanda di maggiore diversificazione contrattuale, sia o no esplicitamente coperta dalla legislazione comunitaria e nazionale.

Il modello tradizionale del rapporto di lavoro può non essere adeguato a tutti i lavoratori assunti sulla base di contratti a durata indeterminata standard e chiamati a raccogliere la sfida dell’adeguamento alle trasformazioni e a raccogliere le opportunità della globalizzazione. Clausole e condizioni di lavoro eccessivamente protettive possono scoraggiare i datori di lavoro dall’assumere durante i periodi di ripresa economica. Modelli alternativi di rapporti contrattuali possono rafforzare la capacità delle imprese a sviluppare la creatività del loro personale nel suo insieme e a sviluppare i vantaggi concorrenziali. Le riforme della legislazione relativa alla tutela dell’occupazione avviate all’inizio degli anni ’90 vertono soprattutto sull’ammorbidimento delle norme vigenti per favorire la diversità contrattuale. La finalità di queste riforme era di sviluppare una flessibilità ‘marginale’, vale a dire di instaurare forme di occupazione più flessibili con una minore tutela contro il licenziamento, al fine di facilitare l’accesso di nuovi venuti e di soggetti alla ricerca di un lavoro…in posizione di svantaggio nel mercato del lavoro, consentendo a coloro che lo desiderano  di avere una maggiore scelta in materia di opportunità di lavoro. I mercati del lavoro sono divenuti, di conseguenza, sempre più segmentati”.

Nel paragrafo 3), prima di arrivare al dunque delle proposte per il futuro, vengono presentati dei dati sui mercati del lavoro “segmentati”, frutto delle riforme  attuate finora: “i contratti a tempo determinato, i contratti a tempo parziale, i contratti di lavoro intermittenti, i contratti ‘zero ore’, i contratti proposti ai lavoratori reclutati da agenzie di lavoro temporaneo, i contratti proposti ai lavoratori indipendenti, ecc., costituiscono oggi parte integrante delle caratteristiche dei mercati del lavoro europei. La quota dell’occupazione totale rappresentata dai lavoratori reclutati in base a contratti diversi dal modello contrattuale standard e da coloro che hanno uno status di lavoratori indipendenti è aumentato dal 2001 da più del 36% nel 2001 a circa il 40% della forza lavoro dell’UE -25 nel 2005.(??) L’occupazione a tempo parziale, espressa come percentuale dell’occupazione totale, è aumentata dal 13% al 18% dell’occupazione totale negli ultimi 15 anni. Essa ha dato un contributo maggiore (circa il 60%), alla creazione di posti di lavoro dopo il 2000 rispetto all’occupazione standard a tempo pieno. L’occupazione a tempo determinato è aumentata in percentuale all’occupazione totale dal 12% nel 1998 a più del 14% nel 2005 nell’UE -25… Anche il lavoro autonomo è un mezzo per far fronte alle esigenze di ristrutturazione, di riduzione dei costi diretti e indiretti della manodopera e di gestione delle risorse in modo più flessibile in circostanze economiche impreviste. I lavoratori autonomi erano più di 31 milioni nell’UE-25 nel 2005, vale a dire il 15% del totale della forza lavoro”. La Commissione sembrerebbe dunque appagata dal livello di flessibilità raggiunto “in entrata”, al punto da poter permettersi anche qualche appunto critico. In realtà questo ultimo è funzionale a quanto intende proporre per il futuro, in cui si prevedono “riforme del mercato del lavoro che eliminino quel dualismo che divide… i contratti a tempo determinato da quelli a tempo indeterminato, giacché questi ultimi non contemplano o quasi il licenziamento individuale”, come lucidamente si esprime il Sole 24 Ore; l’obiettivo è centrato sulla “flessibilità in uscita”, prendendo di mira gli stessi contratti “standard”, cioè quelli a tempo indeterminato. Il “dualismo” viene superato facendo diventare tutti i contratti di lavoro precari. Nei passi che seguono, il libro verde comincia ad entrare nel merito della parte propositiva, indicandone le linee generali.

“La recente relazione sull’occupazione in Europa 2006 fa riferimento a dati secondo i quali l’esistenza di una legislazione troppo rigidamente protettiva dell’occupazione tende a ridurre il dinamismo del mercato del lavoro, aggravando le prospettive di lavoro delle donne, dei giovani e dei lavoratori anziani (ancora loro!). Tale relazione sottolinea che una deregolamentazione marginale che mantiene praticamente intatte le rigide regole applicabili ai contratti standard tende a favorire la segmentazione dei mercati del lavoro e influisce negativamente sulla produttività.

Sottolinea inoltre che i lavoratori si sentono meglio protetti (sic!), da un sistema di aiuti in caso di disoccupazione che non dalla legislazione che tutela l’impiego. Regimi di disoccupazione ben concepiti, uniti a pratiche attive del mercato del lavoro (cioè che incentivano ad accettare qualsiasi lavoro!), sembrano costituire una migliore assicurazione contro i rischi connessi al mercato del lavoro”. La proposta si incentra cioè su una riduzione delle tutele che difendono dal licenziamento anche per i lavoratori a tempo indeterminato, in cambio di sussidi di disoccupazione legati alla disponibilità ad accettare qualsiasi lavoro, cioè lavori con salari, orari, ecc. penalizzanti rispetto al lavoro che si faceva prima del licenziamento.

E’ ciò che si precisa di seguito, col solito linguaggio mistificante: “le norme giuridiche che sottendono il rapporto di lavoro tradizionale non danno forse un sufficiente margine di manovra ai lavoratori reclutati sulla base dei contratti a durata indeterminata standard, per esplorare le opportunità di una maggiore flessibilità sul lavoro e non li incoraggiano ad agire in questo senso”.

Sintomatiche sono le due domande poste ai governi e alle parti sociali, in conclusione di questo paragrafo: “la regolamentazione esistente, sotto forma di leggi e/o contratti collettivi, frena o stimola le imprese e i lavoratori nei loro sforzi per cogliere le opportunità di aumentare la produttività e di adeguarsi alle nuove tecnologie e ai cambiamenti collegati alla concorrenza internazionale?”

“..come facilitare il reclutamento mediante contratti a tempo indeterminato e determinato, sia per via legislativa sia attraverso accordi collettivi, in modo da aumentare la flessibilità di tali contratti garantendo al tempo stesso (sic!), un livello sufficiente di sicurezza all’occupazione e di prestazione sociale?

La natura della proposta contenuta nel libro verde viene ancor più chiarita nel successivo paragrafo, titolato “temi per il dibattito”. Al punto a) “le transizioni professionali” si dice: ”l’adozione di un approccio di lavoro ’lungo tutto il ciclo di vita ‘  può richiedere di spostare l’accento dalla preoccupazione di proteggere particolari posti di lavoro alla creazione di un quadro di sostegno in grado di garantire la sicurezza dell’occupazione, comprese una assistenza sociale e misure attive di sostegno ai lavoratori durante i periodi di transizione. E’ ciò che ha fatto la Danimarca combinando una legislazione di protezione ‘leggera’ dell’occupazione, una intensificazione di misure attive del mercato del lavoro, un notevole investimento nella formazione e sussidi di disoccupazione generosi nel rispetto di condizioni rigide”.

Anche qui seguono le domande:

Sarebbe utile prendere in considerazione una combinazione di una normativa di tutela dell’occupazione più flessibile e di una ben congegnata assistenza per i disoccupati, sotto forma di compensazioni per la perdita di reddito (politiche passive del mercato del lavoro), ma anche di politiche attive del mercato del lavoro?

 

Non a caso quindi alcuni esponenti del sindacato dei metalmeccanici italiano FIOM si sono pronunciati contro lo spirito di questo libro verde, rilevando che il reale scopo della direttiva che si vuole proporre è la maggior flessibilità in uscita, cioè nelle modalità di licenziamento, per i lavoratori assunti a tempo indeterminato, dopo che la flessibilità in entrata si è ormai ampiamente consolidata.

La conferma di questa lettura viene proprio dal fronte confindustriale. Secondo un esperto legato alla confindustria italiana, l’obiettivo del libro verde è “una revisione complessiva della legislazione sul rapporto e sul mercato del lavoro in modo da pervenire a un sistema di regole semplici e adattabili sostanziali più che formali, di organizzazione del lavoro e gestione delle risorse umane”; vi si propone “un nuovo diritto per una nuova organizzazione produttiva”, ispirandosi alle idee espresse nella legge 30 italiana del 2003. Ciò “a partire dal nodo centrale della funzione del diritto del lavoro, che non è solo tecnica unilaterale di tutela di un contraente debole (cioè del lavoratore!)…ma anche, e con pari dignità, un diritto della concorrenza, e cioè strumento di competizione tra imprese. … Per definizione dogmatica e sviluppo storico il diritto del lavoro è certamente un diritto sociale e distributivo (questa è “la tradizionale vocazione protettiva di questo ramo dell’ordinamento giuridico”). Ma è anche un diritto della produzione. Vale a dire uno strumento di gestione aziendale e di regolamentazione delle modalità di incontro tra capitale e lavoro destinato ad assumere un ruolo dominante nei processi organizzativi e produttivi sempre meno standardizzati”.

Si sottolinea quindi come “le buone pratiche sono quelle offerte da Olanda, Austria e Spagna” in cui si è puntato “sulla conversione dei contratti temporanei e intermittenti in contratti a tempo indeterminato attraverso la riduzione del costo del licenziamento. Al pari del rinomato modello danese, che certo si caratterizza per i tanti contratti a tempo indeterminato e gli elevati tassi di occupazione. Ma anche per una piena libertà di licenziamento, adeguatamente equilibrato da efficaci servizi per il lavoro e generosi sussidi di disoccupazione, che durano ben tre anni, a fronte tuttavia di precisi impegni assunti dal beneficiario secondo un rigoroso schema contrattuale”. Questo è il “modello di workfare” che si propone di generalizzare su scala europea.

 

L’intervento della UE è stato attivo anche sulla tematica dell’orario di lavoro.

La tendenza a legiferare per un allungamento e per una maggiore flessibilizzazione degli orari di lavoro (sotto la foglia di fico della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro!), è stata indotta infatti dalla direttiva europea ‘93/104. Tra l’altro con essa si stabilisce che le 48 ore settimanali non vanno concepite come un massimo, ma come “durata media” in un dato periodo di riferimento (4, 6, 12 mesi).

 Si avvalla così l’orario multiperiodale e si abolisce di fatto l’orario normale di lavoro, ritenuto ormai obsoleto. Per di più si concedono deroghe per una sua possibile disapplicazione. Non viene inoltre chiarito se viene compresa o meno nell’orario di lavoro la reperibilità del lavoratore. La disciplina comunitaria fissa il minimo denominatore comune alle normative dei vari paesi UE, col rischio di una corsa al ribasso degli standard di protezione dei paesi più garantiti. Finora Italia (legge 88) e Spagna ad esempio, hanno approfittato della direttiva per flessibilizzare la disciplina interna. Eclatante è il disegno di legge austriaco del 5/2007 applicativo della direttiva europea, che prevede la possibilità di lavorare fino a 60 ore settimanali e fino a 12 ore al giorno, con una pausa di due settimane ogni otto (pausa in cui si deve applicare l’orario normale).

Nel maggio 2004 è stata proposta dalla Commissione una modifica (discussa dal Consiglio dell’UE nel 11/2006), in senso ulteriormente peggiorativo di questa direttiva. In essa si prevedeva:

-il mantenimento dell’opt-out, consentendo agli imprenditori di accordarsi con i singoli lavoratori per derogare qualsiasi limite o vincolo sull’orario di lavoro;

-di estendere la media delle 48 ore settimanali su base annuale e non più su quattro mesi;

-la definizione del “tempo di attesa” o a “disposizione” come non tempo di lavoro, anche se i lavoratori “devono trovarsi a disposizione sul posto di lavoro”.

 

4)  L’altro pilastro istituzionale protagonista nel promuovere la “rivoluzione silenziosa” del capitale europeo è stato ed è l’Unione monetaria europea (UME) con al centro la BCE e la sua gestione dell’Euro.

 

Le prospettive e la direzione di marcia del sistema produttivo ed economico, in generale europeo, sono state tracciate dal processo ormai compiuto di integrazione monetaria e dal cosiddetto Patto di Stabilità, che definiscono la natura della politica monetaria e fiscale europea. Lo scopo di questi due elementi costitutivi dell’UME è la riduzione dello spazio di gestione indipendente delle politiche fiscali e monetarie nazionali, al fine di accelerare la ristrutturazione e la convergenza delle economie europee attorno a livelli di efficienza più alta, rendendole così  capaci di affrontare la crescente concorrenza con gli altri poli per la conquista dei mercati mondiali.

La funzione fondamentale dell’UME dunque è quella di agire da leva per una accelerazione e intensificazione dei processi di ristrutturazione del sistema produttivo europeo. “Assumere una posizione nei confronti della realtà del continuo cambiamento e della concorrenza mondiale, costituisce lo scopo più profondo dell’ UME…La politica della stabilità (imposta dall’UME), è una imposizione della realtà, vale a dire della globalità della concorrenza e del costante cambiamento, che ci costringono entrambi all’adattamento, cioè alle riforme strutturali”, così sintetizzava il senso dell’UME al momento del suo avvento un dirigente della CDU tedesco a fine anni ’90. E sempre in quegli anni così si esprimeva un dirigente del FMI in riferimento al meccanismo che l’UME avrebbe messo in  moto: con l’UME “innovazioni su cui oggi vi sono delle resistenze, ad esempio la flessibilità del costo del lavoro e la mobilità, diventeranno problemi che andranno inevitabilmente affrontati nel nuovo regime. Avere una moneta unica implica che i vari paesi membri non potranno più recuperare competitività attraverso svalutazioni; sarà inevitabile un movimento dei prezzi relativi”.

Con una moneta unica dunque è impossibile per i singoli paesi favorire le proprie imprese con svalutazioni competitive. Questa realtà implica una pressione continua sulle imprese e le “costringe alla ricerca di nuovi guadagni di efficienza, in termini di produttività, sviluppo tecnologico e riallocazione geografica delle fasi produttive”, dunque ad una permanente ristrutturazione. Come afferma un dirigente della confindustria italiana, con l’euro è “scomparsa la possibilità di ‘fare competitività’ semplicemente svalutando la lira; la competitività a questo punto va cercata in fabbrica, in azienda”. E ancora, oggi (2007), “è grazie alla moneta stabile che l’industria italiana  si è aggiustata. La moneta stabile, facendo venire meno l’inflazione impostata tramite le svalutazioni, ha operato da selezionatore, facendo crescere le imprese e le produzioni valide e lasciando che progressivamente scomparissero quelle che stavano sul mercato solo grazie all’inflazione…lo stesso è avvenuto in Germania… La realtà è che l’euro ha consentito una razionalizzazione dell’industria italiana ed europea”.

La pressione della moneta unica si esercita sui singoli Stati determinandone le politiche economiche; in particolare, è una fondamentale leva per le riforme strutturali, cioè la flessibilizzazione del mercato del lavoro e la revisione del welfare. Il meccanismo attraverso cui si esercita questa pressione, oggi ad esempio, lo si può cogliere in queste righe del Sole 24 Ore: “prima dell’euro il diverso stato di avanzamento delle riforme tra la Germania e gli altri paesi europei non avrebbe rappresentato un problema: le valute degli Stati più in ritardo con le riforme si sarebbero svalutate rispetto alla moneta tedesca. Ora non è più possibile. L’UME obbliga i paesi in ritardo sulle riforme ad accelerare le riforme o a sopportare una stagnazione economica permanente. La migliore performance economica della Germania ha portato l’euro e i tassi di interesse europeo a livelli che se non creano problemi ai tedeschi, mettono in difficoltà i ritardatari nelle riforme”. La BCE non a caso imposta oggi la sua politica monetaria il più possibile sulla base del paese che non solo ha maggiore peso nell’UME, ma è anche in una fase più avanzata nelle riforme strutturali. Fa ciò con l’intento dichiarato di imporre la generalizzazione delle riforme a livello europeo. In effetti non è solo l’esistenza oggettiva della moneta unica ad imporre una rigida disciplina economica a Stati e imprese aderenti all’UME, ma la stessa politica attiva della BCE è diretta a questo scopo. La BCE ha infatti una precisa strategia monetaria il cui principio guida è la stabilità monetaria; essa si fonda sulla prevenzione dei deficit eccessivi e delle concessioni salariali “eccessive”, e a sostegno del cambio alto “per stimolare gli imprenditori”. La moneta forte “pungola” infatti i produttori dell’area a risparmiare sui costi, ad aumentare la produttività e migliorare l’organizzazione del lavoro, stimola ad innovare e a ricercare competitività attraverso fattori diversi dal prezzo”. Ma soprattutto, con l’obiettivo del massimo di inflazione del 2%, l’euro rappresenta un elemento della strategia del capitale europeo, unito contro il salario e la spesa pubblica; sono questi due infatti i principali fattori presi di mira dalla politica di controllo del tasso di inflazione. L’euro è stato definito “moneta della deflazione salariale”, e l’aumento dei tassi d’interesse da parte della BCE “una clave ideologica con la quale minacciare i lavoratori, invitandoli a stare buoni,a moderare le loro richieste salariali” (J.Halevi). La BCE in effetti non perde occasione per ricordare il senso profondamente di classe della sua strategia di stabilità monetaria; un chiaro e recente esempio è l’intervento di Trichet del 12/2006 in cui sostiene che la BCE ritiene che i rischi inflattivi dell’andamento dei salari “siano in aumento”: “non ci sono ancora materialmente rischi a questo livello nell’eurozona, ma non abbiamo dubbi a questo riguardo, perché ci sono tentazioni in giro che non sarebbero adeguate per noi (cioè per la BCE)!”. Il riferimento è al dibattito sul rinnovo dei contratti di lavoro in scadenza nel 2007 in Germania, dopo anni di moderazione salariale i metalmeccanici hanno chiesto +6,5% di salari, a fronte di un – 0,7% dei salari reali nel 2005 e del + 1,3% nel 2006, ma di profitti rispettivamente del + 6,9% e del 6,2%, oltre ad una crescita della produttività per lavoratore nel 2006 di ben il 6,6% nell’industria!

Più in generale, sempre Trichet, chiarisce, il 3/2007, quello che rappresenta la bussola che orienta la politica monetaria della BCE, sostenendo che l’ingrediente indispensabile per aumentare il livello di crescita in Europa (“guidato” dalla politica monetaria della BCE), “restano le riforme strutturali di Lisbona”. Nel comunicato ufficiale della BCE presentato nella stessa occasione si precisano le motivazioni di fondo di quanto detto da Trichet: la crescita “giusta” del PIL nell’ eurozona in questa fase “storica” è per la BCE dell’1,9%; al di sopra si rischia l’inflazione. Si sostiene quindi “la necessità di contrastare i rischi di un aumento della utilizzazione delle risorse”, dal momento che oggi gli impianti lavorano all’ 84,4% contro una media dell’ 81,4% registrata nella fase di espansione degli anni ’90. Occorre quindi per la BCE, tenere sotto controllo soprattutto imprese e occupazione, “perché se gli impianti non riuscissero a soddisfare le domande i prezzi potrebbero salire e se la disoccupazione dovesse calare i salari inizierebbero ad aumentare ‘troppo’ ”. Torna qui, il già incontrato NAIRU (cioè il livello di disoccupazione ritenuto compatibile con la stabilità monetaria): si sostiene infatti che se in Europa la BCE riducesse la disoccupazione rispetto agli altissimi livelli attuali, con politiche monetarie espansive, l’inflazione sarebbe molto più alta di oggi: “il NAIRU europeo e più elevato di quello USA perché il mercato del lavoro è meno flessibile”; in altri termini, in Europa ci sarebbe bisogno di una massiccia disoccupazione e quindi di una politica monetaria e in generale di una politica economica restrittiva, che indirettamente la generi.  Questo è in realtà un vero e proprio ricatto della BCE teso a imporre a governi e parti sociali una diversa e più efficiente dal punto di vista del capitale, soluzione: le riforme strutturali, che innestino una forma diversa di “esercito industriale di riserva” , tipo quello americano, che contiene una molteplicità di livelli di precarietà lavorativa, una forma che permette una pressione maggiore sulla forza lavoro per una crescita dello sfruttamento.

Parte integrante dell’UME è anche il cosiddetto “Patto di Stabilità”, a cui devono sottostare tutti i paesi aderenti: con esso si pone un limite preciso (3%), ai deficit pubblici e il tendenziale pareggio di bilancio; con esso alla rigidità monetaria si aggiunge quindi la rigidità del bilancio. La politica fiscale dei membri dell’UME è condannata a un continuo rigore; il Patto di Stabilità impedisce cioè una politica fiscale e di bilancio attiva, espansiva, sottomettendola al rigore monetario: esso costituisce “una ulteriore pressione per una crescita fondata non sulla spesa pubblica ma sulle riforme strutturali” (Sole 24 Ore).

 Un esempio concreto si è avuto proprio con i due paesi più forti dell’UME e verso i quali peraltro maggiore è stata la tolleranza delle istituzioni europee: nonostante ciò il superamento del deficit del 3% nel 2004 ha imposto loro, se non le sanzioni previste, un maggior rigore fiscale e quindi la scarsa possibilità di intervenire con strumenti di tipo Keynesiano in una fase difficile dell’economia (sono previste eccezioni solo in fase di profonda recessione!) e quindi l’ accelerazione delle riforme strutturali e della ristrutturazione produttiva (come si è visto precedentemente!). In generale col Patto di Stabilità viene messa in atto una sorveglianza multilaterale continua sulle politiche dei paesi membri, per armonizzare le dodici diverse politiche nazionali e coordinarle con la politica monetaria della BCE (che è autonoma); ciò avviene attraverso l’ECOFIM (Consiglio dei Ministri Economici e Finanziari), organismo che indirizza le politiche economiche dei singoli Stati. Esso definisce ogni anno gli indirizzi di massima delle politiche economiche (inflazione, finanza pubblica, ecc), e sorveglia le situazioni di bilancio degli Stati membri, adottando raccomandazioni e imponendo sanzioni (secondo il Patto di Stabilità).

 

5) Infine, un ulteriore strumento di cui si è servito in questi anni il capitale europeo per attuare il suo disegno di trasformazione economica e produttiva, è stato l’allargamento dell’UE ai nuovi 10 paesi (soprattutto dell’Est Europa), del 1/5/2004. Questi paesi “presentano significativi vantaggi in termini di costo del lavoro, fiscali e con una manodopera ben qualificata” (Sole 24 Ore), esercitando così un forte grado di pressione sulle politiche industriali europee, soprattutto riguardo a orari, salari e welfare: “l’ingresso nella UE di questi paesi rappresenta uno stimolo a nuove riforme”.

La stessa BCE, in un suo Bollettino, ammette nel 2007 che “alla dinamica salariale moderata, agli esiti moderatori della contrattazione  ha contribuito anche la concorrenza dei nuovi Stati membri dell’UE”.

Per le imprese europee, con l’adesione dei nuovi dieci paesi, “si aprono maggiori possibilità di trasferimento delle produzioni e servizi dove salari e imposte sono più bassi e il mercato del lavoro più flessibile”. Cresce così il ricatto della delocalizzazione verso i lavoratori della “vecchia” Europa.

Per dare un’ idea dell’integrazione raggiunta tra Europa Ovest ed Est citiamo qualche dato. Già nel ’97 le imprese con capitale estero rappresentano nei nuovi paesi entranti una quota consistente di vendite, esportazioni e occupazione: il 10% degli occupati, il 20% delle vendite, il 26% delle esportazioni. In particolare in Slovacchia, Repubblica Ceca, Polonia e Ungheria, il 43% dell’occupazione, il 67% delle vendite e il 76% delle esportazioni era in mano a imprese con capitale estero (soprattutto euroccidentale!). In sette anni la quota del commercio tra i dieci nuovi paesi e il resto dell’UE è raddoppiata: nel 2002 il peso del commercio con i 10 paesi era per la UE del 10,8% nell’import e del 12,6% nell’export; da metà anni ’90 le imprese europee hanno investito in questi paesi più di 100 miliardi di euro, di cui il 90% nei quattro paesi più grandi.

 

6) Le trasformazioni in atto in Europa negli ultimi dieci anni, che abbiamo preso in esame, hanno profonde radici strutturali, tali da unire gli interessi di tutte le frazioni del capitale europeo. Esse vanno collocate infatti in una fase storica in cui il capitale, nei paesi del centro, è affetto da difficoltà di valorizzazione causata da una cronica sovrapproduzione.

Seppur il saggio di profitto oggi possa raggiungere vette simili a quelle degli anni d’oro dal dopoguerra a fine anni ’60, esso è sottoposto ad una forte pressione causata principalmente da una crescita enorme degli investimenti in macchinari e tecnologie, in rapporto alla forza lavoro impiegata, base della valorizzazione del capitale. Come afferma un’economista “a fronte dell’incremento delle dimensioni minime di investimento, chi non può permettersi tali investimenti è escluso e anche chi non riesce a distribuire i volumi generati dall’innovazione rapidamente e in tutto il mondo”; è questa lotta per la sopravvivenza alla base dell’acutizzazione della competizione tra i capitali a livello mondiale.

La risposta del capitale europeo a questa realtà fin dagli anni ’80 si è distinta parzialmente da quella del capitale USA, suo maggior concorrente sul piano globale. La presenza di una forte tradizione di organizzazione di classe sul terreno sindacale in rapporto alla realtà americana, è stata una delle cause determinanti della diversa strategia adottata; questa infatti si è incentrata in Europa sull’adozione spinta di processi produttivi imperniati sull’ automazione intensiva e su una conseguente grossa crescita della disoccupazione, con l’obiettivo di elevare la produttività del lavoro e insieme di piegare e disarticolare la resistenza organizzata operaia attraverso la pressione di un massiccio esercito industriale di riserva.

E così che, come si è visto, il rapporto tra capitale fisso e lavoro cresce dal ’74 al ’96 in USA dell’1,1% l’anno e in Europa del 2,8%; ciò che ha avuto come conseguenza una flessione costante della produttività del capitale nei maggiori paesi europei fino a metà anni ’90. La produttività del capitale rileva il rapporto tra capitale fisso e produzione ed è quindi un indice del peso del valore del macchinario, dei costi della meccanizzazione; la sua flessione si riflette negativamente sul saggio di profitto. La strada seguita dal capitale europeo dunque ha aggravato le contraddizioni all’origine della crisi del saggio di profitto. D’altra parte nella seconda metà degli anni ’90 si cominciano a vedere gli effetti di questa strategia sul fronte della moderazione salariale e in generale di una crescita dello sfruttamento della forza lavoro, in seguito all’obiettivo raggiunto di un indebolimento della resistenza operaia sul terreno sindacale.

“Paradossalmente” sarà proprio questa maggior possibilità di sfruttare il “fattore lavoro” che, secondo l’analisi del FMI, porterà, sempre nella seconda metà degli anni ’90, ad una insufficiente attività innovativa delle imprese europee, soprattutto nel campo delle nuove tecnologie dell’informazione e comunicazione (ITC), con una conseguente battuta d’arresto nella crescita della produttività oraria, in pieno boom negli stessi anni in USA proprio a causa dei forti investimenti in tecnologie avanzate.

E’ in questo contesto che con la ripresa, dopo la crisi del 2001/03, si avvia il dibattito sulla produttività e sugli orari di lavoro di cui abbiamo parlato. A questo punto, infatti, il capitale europeo si ritrova in svantaggio rispetto a quello americano sui due terreni determinanti nella competizione a livello globale e più in generale per la salvaguardia del saggio di profitto: la produttività del lavoro (la “produttività oraria”), e gli orari di lavoro. Questi, non a caso, sono anche i due pilastri fissati nel 2000 nel pomposo linguaggio della “Strategia di Lisbona” è così che, nel nuovo millennio, la percentuale di risorse destinate  alle nuove tecnologie (ITC), ha raggiunto i livelli USA, con un rivoluzionamento nelle modalità di produzione destinato ad innalzare la crescita della produttività del lavoro (che effettivamente oggi supera quella USA, anche se di poco!); e d’ altro lato si sono messe in atto quel insieme di misure, a livello istituzionale e aziendale, il cui obiettivo era il prolungamento  degli orari e la maggiore intensità del lavoro. Facendo leva sulla frazione più debole della forza lavoro disponibile, le donne, i giovani, gli anziani, e sul ricatto della crescente precarietà imposta con le nuove forme contrattuali, si riesce ad imporre sia la stagnazione dei salari che un allungamento dell’orario di lavoro, adattando contemporaneamente salari e orari alle nuove modalità di produzione legate al just in time e all’ automazione flessibile, e in generale alla ristrutturazione permanente.

In conclusione, il capitale europeo, a garanzia del saggio di profitto, punta su un rivoluzionamento permanente dei processi produttivi incentrato sulle nuove tecnologie informatiche e sulla nuova organizzazione del lavoro, facendone pagare i costi elevati ai lavoratori, prolungandone gli orari di lavoro e bloccandone i salari.

 

Collettivo per la Rete dei Lavoratori
Milano, ottobre 2007



http://www.senzacensura.org/