SENZA CENSURA N.25

marzo 2008

 

Tempi di guerra e contro-informazione

Sul caso di Abu Omar, la scomparsa di quattrocchi e la comparsa della DSSA, Telecom spy story…

 

Partiamo da tre fatti di cronaca. Un imam “scomparso” in pieno giorno a Milano, un mercenario italiano ucciso in Iraq, il “suicidio” di dirigente della technology security di una importante compagnia di telefonia mobile italiana…
Abu Omar: 17 febbraio 2003; Angelo Quattrocchi: 13 aprile 2004; Adriano Bove: 2006.
Tre fatti di cronaca recente che ci dicono sostanzialmente due cose: lo stato, in tempi di guerra, ottimizza l’esperienza maturata nella gestione del conflitto di classe tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio anni ottanta e cristallizzata nei suoi apparati, assumendo in toto la sfida bellica contro il proprio nemico di classe; il livello di lettura della rete di potere in termini di contro-inchiesta è espressione degli attuali rapporti di forza tra le classi, cioè ahinoi, piuttosto sfavorevole per il momento.
Segnalare questo limite vuole dire innanzitutto cercare di superarlo, insieme a tutte quelle esperienze che credono nella possibilità di sviluppare la contro-informazione come progetto politico.
È chiaro che altrimenti continueremo a fare delle supposizioni basandosi sulla lettura critica dei giornali, partendo dall’assunto che tutto ciò che ci viene propinato è indiscutibilmente falso e che ciò che è importante è sempre quello che non ci dicono.
Una esigenza che ben delinearono più di 30 anni fa, in un contesto diverso, altri compagni che diedero vita ad una delle esperienze più interessanti del panorama della pubblicistica di movimento, la rivista “Controinformazione”.
Ci sembra interessante riportare la “presentazione” apparsa sul numero in attesa di autorizzazione dell’ottobre del ‘73, e poi riprendere dai fatti di cronaca accennati: «Tra i tanti strumenti che il movimento va allestendo per la propria crescita e la propria organizzazione della nuova situazione di classe, questa rivista costituisce un tentativo di saldare due modi di intendere la controinformazione. Da una parte la controinformazione come “servizio” di movimento, specialistico, svolto per autodelega da gruppi di compagni secondo le richieste politiche (obiettive ma non specifiche) provenienti dall’area della sinistra rivoluzionaria. La trasmissione dei dati raccolti avviene in modo per lo più selettivo e con capacità di coinvolgimento della classe operaia soltanto parziale. Dall’altra parte, la controinformazione come prodotto delle lotte operaie, il punto di vista operaio sulla struttura, le operazioni e i progetti che lo stato borghese avvia per un processo di reazione e conservazione del sistema (ad esempio la “strage di stato” come prodotto e conseguenza delle lotte operaie del ‘69). In questo sforzo di saldare i due piani di lavoro politico la controinformazione deve accrescere il suo quoziente di comunicazione, d’iniziative svolte responsabilmente in comune. In altre parole, radicata nel concreto dello scontro di classe e tendenzialmente gestito dal basso in modo che fabbriche e quartieri siano in grado di condurre la propria informazione: ragionamenti tra compagni e non fornitura di notizie elaborate per sudditi, ascoltatori o consumatori che siano. La partecipazione di base circoscrive invece un’area d’intervento, il quartiere o la scuola, la fabbrica, la casa. Si tratta di una committenza di base che indaga, discute, impara, poi indica il materiale e i testi di cui ha bisogno, provoca la collaborazione tecnica adeguata, realizza questa informazione, distribuisce il prodotto. Variare soltanto i contenuti non sposta il peso decisivo della struttura, l’operazione urgente consiste nel portare a livello di fabbrica, di quartiere, di scuola i mezzi di comunicazione in modo che vengano condotti direttamente da chi vive nelle situazioni (contro la pretesa dei gruppi esterni culturali di mediare e manipolare mezzi e contenuti)».

Torniamo ai fatti di cronaca…
Dalla scomparsa dell’esponente della comunità islamica si scopre che si tratta di un sequestro, che l’imam è vivo ed in carcere in Egitto ed è stato rapito da agenti della Cia, coadiuvati da agenti italiani, trasferito in un aereoporto militare USA sul suolo Italiano, per poi da lì essere deportato per essere tranquillamente torturato e detenuto altrove. Ad altri suoi colleghi “più fortunati” lo stato italiano riserva dall’estate 2001 perquisizioni, arresti, lunghe detenzioni, espulsioni…
Dalla morte del soldato di ventura si scopre una polizia “parallela”, sarebbe forse più corretto definirla “ausiliaria”, che l’allora ministro degli Interni si affretta a definire essere una “banda di pataccari”.
Alla sua testa c’è uno stimato massone, Gavino Saya, che si dichiara essere agente sotto copertura della NATO, senza che nessuno lo smentisca pubblicamente.
Del suicidio del dirigente Tim si continua ad avere sempre più la certezza che erano in tanti a volergli togliere la vita, dirigenti aziendali, uomini dei servizi e pochi coloro, avendo consentito di individuare alla magistratura utenze “coperte” degli uffici Sismi, quelli che gliela volevano salvare…
Emerge anche una assoluta banalità, chi controlla le comunicazioni per via telefonica, usa questa possibilità per allargare e consolidare la sua fetta di potere e intercetta chi vuole.

Bene si scopre che il duetto di altolocati spioni Pollari-Pompa (ex-funzionario Telecom) fa il solito lavoretto sporco di sempre, depistare le indagini su un episodio in cui i servizi segreti sono probabilmente dentro fino al midollo (do you remember Piazza Fontana?): l’affare Abu Omar, utilizzando i servizi interessati di giornalisti con l’elmetto, tra cui Renato Farina, stimato, si fa per dire, vice-direttore di “Libero”, mentre coloro che cercano di andare al fondo delle cose, o almeno un poco più a fondo rispetto all’oliata macchina da guerra dei media, vengono fatti oggetto di una particolare attenzione da parte dell’Intelligence.
Ma le “estradizioni extragiudiziali” sono una tecnica planetaria USA per combattere il “terrorismo internazionale” e troppi sono i casi che cominciano ad affiorare: la faccenda deve essere gestita in un qualche modo e chi l’ha fatto ha pensato bene di farlo utilizzando come capo espiatorio una parte dei colpevoli sacrificandoli per mantenerne intatte le pratiche, il tutto all’interno di una faida tra poteri che è sintomatica della profonda ristrutturazione del sistema di dominio.
In questo affare è implicato anche un ex-uomo dello speciale nucleo anti-terrorismo dell’Arma, quello del defunto generale Della Chiesa (sempre più in odore di santificazione e oggetto di pessime fiction), un tal Pignero.
Il nostro era, tra l’altro, riuscito ad utilizzare un soldatino della provocazione internazionale, Silvano Girotto, al secolo fra mitra, che dopo avere svolto la sua funzione di spia in America Latina, viene accreditato come frate combattente attraverso un operazione giornalistica gestita da un noto settimanale di destra e usato per incastrare alcuni compagni delle BR.
Ex funzionari di rilievo delle compagnie telefoniche, agenti che manipolano i media, giornalisti che si fanno manipolare, uomini d’ordine che si sono fatti le ossa con la madre di tutte le emergenze, quella “terroristica”, che continuano con i soliti modi spiccioli la loro nobile battaglia per la difesa del sistema…
Dalla Chiesa e i suoi uomini hanno lastricato la loro carriera con la risoluzione manu militari di situazioni di difficile gestione, la liquidazione a freddo nel sonno dei compagni, l’uso spregiudicato della ben ricompensata collaborazione di giustizia: che tutto questo osannare il generale, al di là delle operazioni di educazione civica mediatica per il popolino, non segnalino la sostanziale continuità d’intervento nelle pratiche di questo stato?
 

Cosa ci fanno quattro italiani in Iraq?
Dall’analisi di un cellulare di un collega di Quattrocchi (un ex-parà di simpatie apertamente fasciste, bagnino-buttafuori originario di un piccolo comune del Levante Genovese, quando non va in missione all’estero), si delinea una rete di contatti riguardanti non solo il reclutamento di guardie del corpo da impiegare nelle zone a rischio del pianeta, ma emerge una organizzazione di recente costituzione che si occupa di attività investigative particolari all’interno e fuori dal nostro paese. È una struttura dal nome altisonante: Dipartimento di Studi Strategici Antiterrorismo (DSSA).
Monitoraggio di immigrati di fede mussulmana per individuare “estremisti” islamici, caccia a esuli italiani riparati in Francia come Cesare Battisti, fino ad occuparsi della protezione del santo Padre, quello santo-subito che ci ha da poco lasciati…
Questi “pataccari” avevano le chiavi per entrare liberamente nel centro elaborazioni dati del Viminale, pass e placche per entrare in questura e in altre sedi ed utilizzare macchine di servizio, il materiale del DSSA circolava liberamente nei vari corpi di servizio (specialmente tra i GOM della polizia penitenziaria) dove avveniva il reclutamento: «mi vuol dire come facevamo a dubitare di queste persone che vedevamo accolte con tutti i riguardi dai nostri capi?» è l’imbarazzante domanda posta da un giovane inquisito.
Una struttura così occulta? Mica tanto, visto che era stata presentata alle più alte cariche dello stato e aveva ottenuto sostegni presso l’Unione Europea, dove era stato presentato per l’approvazione e relativo finanziamento per 32 milioni di euro!
Il suo obiettivo era tra l’altro quello di formare un nucleo interforze, capace di riunire in una struttura paramilitare privata, la nebulosa delle varie milizie dell’estrema destra.
Almeno di non privilegiare la pista bianco-nera (il body guard ligure era un ultras della Juventus mentre Stefano Tacconi, ex portiere della squadra torinese e della nazionale di calcio era coordinatore lombardo della neonata formazione politica del capo della DSSA), la banda dei gobbi era l’ennesima versione di un film già visto e che continuiamo ogni giorno a vedere: squadre e squadrette di agenti e/o militari ex o in servizio, dalle non spiccate simpatie di sinistra, che agiscono sempre meno clandestinamente in perfetta contiguità con gli apparati dello stato.
Per tornare alla domanda iniziale, è proprio in quei giorni che si scopre che una stima approssimativa attesterebbe i mercenari italiani attorno al centinaio, per lo più al servizio di gruppi stranieri (tre dei quattro italiani rapiti erano dipendenti della Dts security), ma in questo caso i loro nomi non compaiono in nessun elenco ufficiale. O per lo meno alla Farnesina non risulterebbero nomi di cittadini italiani al seguito di società impegnate in operazioni di difesa privata. In queste circostanze però sono i canali ufficiosi quelli che funzionano e «nulla esclude - spiegarono sempre dalla Farnesina - che vi possano essere italiani al servizio di società straniere».
Sull’educazione sentimentale di questi mercenari della guerra globale e sul loro ruolo nei teatri di guerra, di cui ci siamo a più riprese occupati, segnaliamo le informazioni contenute nell’indagine condotta da Emilio Quadrelli in CPT. Rivolte e Evasioni. Agenzia x, Milano, 2007

Poco prima di morire, Adamo Bove aveva registrato di nascosto una conversazione esplosiva. Un suo colloquio riservatissimo con un dirigente del gruppo Pirelli-Telecom. Non uno qualsiasi: il suo superiore diretto. In teoria quell’audio era sotto sequestro fin dal 21 luglio 2006, il giorno in cui il dirigente Tim precipitò da un viadotto, a Napoli, in un apparente suicidio con troppi misteri. In pratica è stato scoperto e ascoltato per la prima volta, stranamente, solo poche settimane fa. Ora quella conversazione è stata trascritta per la Procura di Napoli, che indaga per ‘istigazione al suicidio’. Per i familiari di Bove, “è la prova definitiva che la morte di Adamo è stata provocata da una campagna di calunnie orchestrata dai vertici aziendali”.
La registrazione risale al maggio 2006. Bove ha ancora due mesi di vita. La tempesta giudiziaria che sta per abbattersi su Pirelli-Telecom è già nell’aria. Un anno prima, il 3 maggio 2005, i pm di Milano hanno perquisito Giuliano Tavaroli, il dominus della divisione sicurezza. Sulla carta Tavaroli si è dimesso. In realtà si è solo autosospeso e continua a comandare, mantenendo lo stipendio di manager Pirelli in Romania e perfino di ‘consulente strategico antiterrorismo’.
In quel maggio 2006, dopo la fusione tra Tim e Telecom, il nuovo capo della security, almeno formalmente, è Gustavo Bracco. È con lui che Bove deve parlare. Da giorni il superiore gli chiede se è vero che la Procura di Milano ha trasmesso a Tim una richiesta top secret. Bracco vuole sapere a chi appartengono i quattro cellulari che la Digos ha chiesto a Bove di controllare. L’ex poliziotto si rifiuta di rivelarlo. Bracco insiste. Quei quattro telefonini sono la pietra miliare dello scandalo Sismi-Telecom. Tre appartengono ai primi 007 italiani che ora si ritrovano imputati del sequestro di Abu Omar, l’imam rapito a Milano nel 2003 da un commando della Cia. Il più potente è Marco Mancini, il capodivisione del Sismi che verrà arrestato il 5 luglio 2006, incastrato proprio da quelle intercettazioni. Il quarto cellulare è intestato alla Pirelli. È il telefonino di Tiziano Casali, da anni capo della scorta di Marco Tronchetti Provera. Bove è l’unico, in tutto il gruppo, a conoscere questo segreto.
Dal 25 novembre 2005, con la ‘disposizione numero 11’, Tronchetti in persona gli ha tolto l’incarico di rispondere alle richieste della magistratura, creando un apposito Servizio per l’autorità giudiziaria (Sag). E dal 10 febbraio 2006 l’amministratore Carlo Buora ha affidato tutta la security a Bracco, lasciandogli solo i controlli anti-frode. Contro le frequenti truffe telefoniche, Telecom usa da anni un sistema chiamato Radar, preesistente all’arrivo di Bove. Quel vecchio software consente, tra l’altro, di identificare gli utenti dei telefonini. Ed è proprio usando Radar che Bove riesce a rispondere in 24 ore alle richieste firmate dai pm Spataro e Pomarici.
Mentre Bove lo registra, Bracco chiede quale magistrato abbia chiesto quei tabulati telefonici. Il dipendente risponde con una mezza verità: parla di “pm che indagano sul terrorismo islamico”, senza citare mai il Sismi. Il capo vuole sapere almeno il nome del dipendente Pirelli. Ma Bove rispetta il segreto giudiziario. “Non posso dirlo”. Bracco preme. Bove sa di rischiare il licenziamento. Deve dimostrare di non aver aggirato i superiori, ma non vuole tradire la polizia. Per cui offre a Bracco un altro bicchiere mezzo vuoto: “Dico solo che non è un top manager. Non mi chieda di più, altrimenti finiamo entrambi nei guai”.



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