SENZA CENSURA N.27

novembre 2008

 

Conflitto in Georgia

Il prodotto della competizione globale

 

Non ci sono dubbi che l’attacco georgiano all’Ossezia del sud il 7 agosto è stato progettato con attenzione. Le consultazioni ad alto livello sono state tenute con i funzionari di NATO e Stati Uniti nei mesi che hanno preceduto gli attacchi.
Gli attacchi sono stati effettuati una settimana dopo il completamento di vasti giochi di guerra degli Stati Uniti e della Georgia (il 15-31 luglio 2008). Inoltre sono stati preceduti dalle riunioni al vertice ad alto livello tenutesi sotto gli auspici del GUAM (un accordo militare fra la Georgia, l’Ucraina, l’Azerbaijan e Moldova, sancito nel 1997. Dal 2006 il GUAM ha cambiato nome in “Organizzazione per la democrazia e lo sviluppo economico - GUAM”).
Le esercitazioni terminate il 31 Luglio, appena una settimana prima dall’attacco georgiano in Ossezia del sud, riguardavano proprio operazioni di reazione rapida e hanno visto coinvolte oltre le truppe americane e georgiane, anche quelle di Ucraina e Azerbaijan.
Quanto abbiamo visto nel mese da agosto in Georgia è ben lungi dall’essere un semplice conflitto locale, ma si inserisce nello “storico” progressivo tentativo da parte Usa di porre sotto la sua sfera di dominio quelle repubbliche ex sovietiche di particolare interesse strategico.
Interesse strategico molteplice: da una parte il controllo sulle rotte che trasportano risorse energetiche da est a ovest e nello stesso tempo la possibilità di accumulare nuovi punti nella scala di dominio internazionale.
E, non ultimo, una chiara dichiarazione di “guerra” alle mire di espansione degli interessi russi.
Già nel 2006 con la crisi Russo-Ucraina sul prezzo del gas venduto dalla Russia all’Ucraina emergeva quanto il piano energetico rappresentasse per la Russia l’arma attraverso la quale portare avanti il suo rilancio sul piano globale.
E’ quindi più che naturale che l’accelerarsi delle dichiarazioni e delle azioni da parte Usa verso l’integrazione dei paesi che sono coinvolti o che in qualche modo minacciano di minare i progetti russi di dominio, non possa che portare ad una reazione delle proporzioni attuali.
La Georgia, anche se non rappresenta un soggetto importante sul piano della produzione energetica, assumerebbe un ruolo fondamentale nel caso fossero portati a compimento la costruzione dell’oleodotto Baku-Tiblisi-Ceyhan (BTC) e il South Caspian Pipeline (SPC) per il gas. Sarebbe infatti attraversato da una quantità di gas sufficiente a “sfamare” l’intera Europa. E tutto escludendo totalmente la Russia.
Potremmo definirlo un progetto “made in Nato” viste le fortissime pressioni esercitate dagli Usa.
L’Scp e Btc sono condutture gemelle: stesso tracciato, fornitori quasi identici, stessa valenza geopolitica. La Scp è posseduto da una joint venture tra l’inglese BP (25,5%), la norvegese Statoil Hidro (25,5%), la statale azera Socar (10%), la privata (ma non troppo, e per di più partecipata al 20% dall’americana Conoco-Phillips) russa LUKoil (10%), l’iraniana NICO (10%), l’internazionalissima Total (10%), e la turca TPAO (9%). Già dall’azionariato saltano all’occhio due cose di questo gasdotto: manca Gazprom (Russa) e ci sono tutti gli altri. Scp è una specie di ‘meltin’pot’ degli interessi delle multinazionali dell’energia avversarie di Gazprom. L’azionariato del Btc è ancora più complesso: Bp (30,1%), AzBtc (compagnia azera messa in piedi proprio per costruire il Btc, 25%), Statoil (8,71%), l’americana Chevron (8,9%), TPAO (6,53%), Eni (5%), la giapponese Itochu (3,4%), l’altra giapponese Impex (2,5%), l’americana Conoco-Phillips (2,5%) e infine Amerada Hess (2,36%), sempre americana. (Analisi Difesa sett 2008)
La strategia americana si scontra con la volontà russa di instradare tutto il gas e il petrolio della zona nei gasdotti gazpromiani, in larga parte già esistenti e funzionanti, per poi dirigerli in Europa o, in un futuro non lontanissimo, in Cina, con cui peraltro ha firmato recentemente un accordo per la costruzione di un nuovo gasdotto.
Il progetto energetico russo vede come piloni fondamentali i gasdotti già esistenti (soprattutto il Gasdotto della fratellanza via Ucraina, il Yamal-Europe Pipeline via Bielorussia e Polonia, il Blue Stream via Mar Nero e Turchia), i gasdotti in costruzione (North e South Stream) e lo strapotere di Gazprom nelle reti nazionali est-europee del gas. Su quest’ultimo punto, giusto per fare degli esempi, basta citare alcune compagnie nazionali di distribuzione che possiedono proprie reti: in Moldova c’è Gaz Snab Tranzit (Gazprom al 50%), in Lituania Stella Vitae (Gazprom al 30%), in Lettonia Latvias Gaze (Gazprom al 25%); nell’odiatissima Polonia, infine, il capolavoro con il 50% delle condotte direttamente in mano a Gazprom e il 46% in possedute da EuropolGaz, che a sua volta è controllata da Gazprom.
Pur con chiari interessi concorrenti gli Usa hanno sempre tenuto conto di quella che hanno definito “la sindrome da accerchiamento” russa, conducendo una politica fatta da una parte di espansione del suo quadro di influenza, dall’altra sviluppando accordi di cooperazione in quadro Nato con la Russia stessa.
Ma qualcosa sembra essere cambiato se prendiamo in esame il Piano Strategico della politica estera Usa per gli anni 2007-2012, al cui interno possiamo ritrovare la linea che verrà perseguita in futuro nei confronti delle repubbliche ex sovietiche e di conseguenza nei confronti della Russia stessa. Si ritorna ad affermare che la principale priorità è fronteggiare il “comportamento negativo” della Russia in diverse aree, dalla vendita di armi a regimi inaffidabili alle pressioni applicate da Mosca su numerosi stati ex-sovietici, il cui futuro è visto legato alle cosiddette “rivoluzioni colorate” e quindi alla predisposizione di più stretti rapporti con l’occidente.
Nel Piano Strategico americano si prende in esame il Guam che, come abbiamo detto in precedenza, dal 2006 ha cambiato nome in “Organizzazione per la democrazia e lo sviluppo economico - GUAM”.
Il Rapporto è estremamente chiaro in merito, definendo come obiettivo principale della politica estera degli Stati Uniti per i prossimi anni “aiutare i Paesi del Guam ad avvicinarsi alle istituzione europee e euro-atlantiche, fornendo supporto, incoraggiamento e consulenza tecnica per promuovere le riforme e lo sviluppo economico e democratico”.
E’ evidente che il GUAM ha poco da fare con “la democrazia e lo sviluppo economico”. Altro non è che un annessione di fatto alla NATO.
È stato usato dagli Stati Uniti e dall’alleanza atlantica per estendere la loro zona di influenza nella zona ex sovietica ed ha come scopo militare di “proteggere i corridoi del trasporto di energia”, a nome dei giganti del petrolio anglo-americani. I paesi del GUAM sono inoltre i destinatari dell’aiuto militare e dell’addestramento di US-NATO.
La militarizzazione di questi corridoi è una prerogativa centrale della pianificazione di US-NATO. L’ingresso di Ucraina e Georgia nella NATO fa parte della strategia di controllo dei corridoi di trasporto dal bacino del Mar Caspio all’Europa occidentale.
Già in precedenza, con lo scoppio della guerra contro il “terrorismo” nel 2001, la presenza militare americana nella regione si fa massiccia. Vengono stipulati accordi militari e costruite basi in Uzbekistan e Kirghizistan. Dopo la richiesta (su pressione di Russia e Cina) da parte dell’Uzbekistan di lasciare il suo territorio, ad oggi gli Stati Uniti mantengono le loro basi in Tagikistan e Kirghizistan, basi usate principalmente per le operazioni in Afghanistan. Basi che peraltro risultano utilizzati nelle torture di prigionieri. Tra le destinazioni dei voli della procedura della tristemente nota «Extraordinary rendition», vengono indicate le basi di T Lv’iv in Ucraina, di Tbilisi in Georgia e di Markuleshti in Moldova.
La lunga mano americana ha trovato la sua efficace arma di espansione nel processo di allargamento Nato verso i paesi ex sovietici. Nel meeting Nato di Vilnius dell’aprile 2005 fu sancita l’accelerazione del processo di integrazione dell’Ucraina, attribuendo a questo paese un’importanza strategica fondamentale, “la guida” per la sicurezza nel Caucaso e nel sud est asiatico. “L’Ucraina ha bisogno di noi, noi abbiamo bisogno dell’Ucraina” (Sheffer, segretario generale della Nato).
Secondo molti analisti l’Ucraina, al pari della Turchia, pur non disponendo dello stesso peso politico, rappresenta un nodo importante per la supremazia mondiale, sia per le dimensioni, sia per la sua collocazione geografica, sia per la capacità militare importata dalla sua storia sovietica, oltre che per le sue vicissitudini politiche, ovvero la salita al potere di forze filo occidentali.
Gli Usa rappresentano da sempre lo sponsor maggiore per la sua partecipazione al programma PFP-Nato. L’Ucraina è tra quei paesi che hanno dato pieno sostegno alla campagna antiterrorismo Usa, partecipando alla guerra in Iraq con i suoi nuclei per la guerra chimica a protezione del Kuwait, per poi dispiegare le proprie truppe ai confini tra Iraq ed Iran.
La Georgia, come l’Azerbaijan, ha più volte richiesto la propria adesione alla Nato.
E’ il secondo paese dell’area per quanto riguarda il sostegno finanziario Usa fin dal 2002 ed ha la caratteristica di essere tra i paesi che maggiormente confinano con basi militari russe. Infine, fa parte di quei paesi che hanno dato la piena disponibilità per l’utilizzo del proprio territorio e delle proprie basi per la guerra in Afghanistan.
Il comitato militare della Nato ha affrontato nella riunione di Sofia nel mese di settembre la questione dell’adesione della Georgia alla Nato. Il comitato si è occupato anche della situazione in Georgia e delle implicazioni militari connesse agli eventi recenti. La visita del Consiglio Nord Atlantico a Tiblisi indica chiaramente che al momento prevale l’aspetto politico e che solo in un secondo momento potranno essere definite le competenze in campo militare. Le forze armate georgiane sono sponsorizzate dagli Usa e un contingente di circa duemila uomini si trova in Iraq con la coalizione. Questa situazione potrebbe rappresentare - sul piano puramente tecnico-militare della interoperabilità - un vantaggio sulla strada dell’accesso all’Alleanza da parte della Georgia, ma i problemi politici sono di ben altra portata.
L’atto formale che ha motivato la visita del Consiglio Nord Atlantico a Tiblisi è stata la firma del documento quadro con cui si istituisce la Commissione Nato-Georgia. In un paragrafo di questo documento si chiede ai ministri degli Esteri che si riuniranno a dicembre una prima valutazione sui progressi conseguiti verso il possibile Membership action plan, premessa formale all’adesione della Georgia alla Nato.
Il segretario generale Scheffer in un suo intervento all’università di Tiblisi ha detto che “la Nato continuerà a stare dalla parte della Georgia, ma neppure chiuderemo le nostre porte alla Russia”. Non sarà facile superare nel giro di poche settimane gli ostacoli che le vicende recenti hanno messo sulla strada della Georgia verso la Nato. A complicare le cose – e forse gli eventi non sono stati del tutto casuali – è intervenuta anche la crisi di governo in Ucraina, Paese che nutre le stesse aspirazioni della Georgia. Decidere per uno solo dei due pretendenti non sarebbe equo, per entrambi quasi impossibile, per nessuno dei due una ferita da alleviare con altre promesse.
Parallelamente all’integrazione politico militare si è proceduto a finanziare e a supportare quelli che saranno i futuri governi nati dalle cosiddette rivoluzioni arancioni di carattere prettamente filo occidentale.
La Georgia prima e a seguire l’Ucraina hanno visto riversarsi enormi somme di denaro americano e non solo per finanziare la propaganda interna ed internazionale a supporto della “democratizzazione” dei sistemi politici di questi paesi, in funzione di una loro predisposizione alle alleanze occidentali
Come abbiamo già affermato in precedenza, la Russia non ha mai nascosto l’opposizione al piano di accerchiamento a cui è soggetta, rafforzando l’idea di voler ancora svolgere un ruolo di attore principale sullo scacchiere internazionale.
Fin dalla dissoluzione dell’Urss, la Russia ha cercato di tenere bene stretta la sua aerea di influenza politico militare, oltre a procedere ad alleanze con quei paesi “concorrenti” agli Usa sul piano internazionale.
Nel maggio del 1992, viene firmato il Trattato di Sicurezza Collettiva (Tsc), altrimenti detto Trattato di Tashkent, a cui aderirono Russia, Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Georgia, Kazakhstan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan. Poi Georgia, Azerbaigian e, almeno in parte, Ucraina e Moldavia hanno cercato di dirigersi verso le strutture politico-militari occidentali. Azerbaigian, Georgia e Uzbekistan hanno abbandonato il Trattato di Tashkent nel 1999.
Ma è solo con la creazione dell’Organizzazione per il Trattato di Sicurezza Collettiva (OTSC), nell’ottobre del 2002, che la Russia ha dato il via alla ristrutturazione del sistema di sicurezza relativo al suo “estero vicino”. I membri del Otsc sono l’Armenia, la Bielorussia, il Kazakhstan, il Kirghizistan, la Russia e il Tagikistan.
I corridoi euroasiatici facenti concorrenza a quelli sponsorizzati da Usa/Nato sono protetti anche dai paesi facenti parte l’organizzazione di cooperazione Shanghai (SCO). Lo SCO è un’alleanza militare fra la Russia e la Cina e parecchie precedenti repubbliche sovietiche asiatiche centrali compreso Kazakhstan, il Kirghizstan, Tajikistan ed Uzbekistan. L’Iran partecipa come osservatore.
Nonostante queste alleanze, è da notare che l’orientamento cinese riguardo alla crisi in Georgia non è stato quanto da parte russa ci si aspettasse. Nell’occasione del summit annuale della Shanghai Cooperation Organization (Sco), che si è svolto il 28 agosto scorso a Dushanbe (Tagikistan), Dmitry Medvedev si è speso molto per incassare il sostegno degli altri Stati membri all’intervento militare del suo Paese in Ossezia del Sud e Abkhazia, e al successivo riconoscimento diplomatico di queste due province separatiste georgiane. Ai suoi interlocutori, però, il presidente russo è riuscito solo a strappare un timido appoggio ai sei punti del discusso piano di pace mediato dall’Unione europea e un vago riconoscimento del ruolo attivo della Russia nel promuovere pace e cooperazione nella regione del Caucaso.
“Per comprendere meglio la cautela cinese è necessario guardare anche all’economia. La crisi russo-georgiana aggiunge un ulteriore elemento di instabilità al già incerto quadro politico-economico globale. La Cina è un Paese economicamente orientato alle esportazioni. Necessita dunque di mercati aperti e di un clima pacifico per garantirsi altri anni di sviluppo a due cifre. Una guerra su scala planetaria – fredda o calda che sia – tra Russia e Occidente costituisce una minaccia alla cornice geopolitica in cui prospera il suo ‘soft-power’: come Mosca, anche Pechino lavora alacremente per chiudere l’epopea dell’unipolarismo americano, ma certo non a detrimento del suo interesse nazionale” (Pagine Difesa)
In questo quadro emerge tutta la debolezza dell’Europa in particolare dettata dalla quasi totale dipendenza dalle forniture energetiche russe. E’ esplicito quanto riportato di seguito per comprendere la debolezza dell’europa nella gestione delle contraddizioni che vanno sviluppandosi.
[…] Da una parte un’Europa senza esercito non può che beneficiare dell’allargamento della Nato, dall’altra la stessa Europa senza idrocarburi non vuole fare uno sgarro così grande alla Russia di Putin e Medvedev. Allo stato attuale, infatti, limitandoci alla questione energetica, per noi europei la Russia è un partner anni luce più affidabile rispetto alle repubbliche caucasiche. Nonostante le numerose “iniziative”, prima tra tutte l’Iniziativa Baku, che a livello europeo vengono firmate e portate avanti con i Paesi del Mar Nero e del Mar Caspio (e senza la Russia, a cui quasi sempre spetta il ruolo di semplice osservatore), a ben guardare a livello nazionale (Italia capofila, ma anche gli altri non scherzano) ci si muove diversamente e, ormai da anni, ci stiamo consegnando a Gazprom & Co. E questo per un motivo abbastanza chiaro: le mosse europee guardano lontano e non riguardano contratti di fornitura bensì nuovi oleodotti o gasdotti ancora tutti da costruire. Una sorta di strabismo europeo dettato dalla terribile dipendenza dall’estero per gli idrocarburi che esiste già oggi e va risolta anno per anno, inverno per inverno. Le compagnie nazionali, al contrario, ragionano in metri cubi e barili e hanno l’obbligo di tenere le riserve a livelli accettabili. Gli Stati Uniti, è banale dirlo, hanno poco da scegliere: in una corsa globale all’accaparramento delle fonti energetiche non possono che scegliere i nemici della Russia e coccolarli in ogni modo possibile. L’Europa, al contrario, è pericolosamente in bilico tra due baratri: scontentare il proprio poliziotto o il proprio benzinaio […] (Pagine Difesa)

Quanto avviene oggi sul piano delle contraddizioni si colloca in un panorama che potrebbe assumere anche caratteristiche impreviste. La “guerra al terrorismo” si è dimostrata un fallimento. La resistenza ha contribuito in gran parte ad indebolire l’intervento politico-militare. Le nazioni che hanno partecipato alle missioni di guerra in Iraq e Afghanistan si stanno o si sono via via defilate. L’economia americana sta facendo emergere tutti i sui limiti, trascinando con se l’intero apparato finanziario e forse per la prima volta minando il proprio dominio internazionale.
I processi di “democratizzazione”, le cosiddette “rivoluzioni arancioni”, stanno implodendo generando le proprie contraddizioni e obbligando a rendere espliciti gli interessi americani nell’area.
Ma se da una parte possiamo dare una lettura di un panorama in “progress” senza sufficienti strumenti per un’analisi definita, dall’altra non possiamo che constatare che chi sarà a dover pagare il prezzo più alto delle contraddizioni in atto sarà sempre quella fetta di proletariato soggetto alle barbarie dell’imperialismo: da una parte la tendenza alla guerra si manifesta e cade violentemente sul destino dei proletari coinvolti, dall’altra la ristrutturazione necessaria da parte dell’imperialismo sul fronte interno non potrà che trasformarsi in un’altra guerra oramai condotta con mezzi non difformi dalla guerra guerreggiata. Sarà la capacità di assumere in maniera sempre maggiore i collegamenti tra questi due piani nell’agire quotidiano che potrà portare ad un ulteriore sviluppo in termini qualitativi della nostra azione e delle istanze che la classe esprime.
“La vostra crisi noi non la paghiamo… più”

Fonti:
www.globalresearch.ca

www.globalsecurity.org

www.paginedidifesa.it



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