SENZA CENSURA N.27
novembre 2008
Divide et impera
Strategie neocoloniali e resistenza sul fronte africano
Riprendiamo l’analisi della situazione nel fronte africano, come già
affrontato in alcuni numeri precedenti della rivista, con la pubblicazione di
tre contributi specifici. Il primo articolo, del Gabinetto Basco di analisi
internazionale, riporta, come scrive l’autore, “alcune chiavi per capire il
conflitto del Darfur, una crisi quasi dimenticata che la recente ‘interessata’
decisione del Tribunale Penale Internazionale può mettere nel peggiore degli
scenari possibili, con un incremento della violenza e la ripresa della guerra
civile”. Il secondo, è la traduzione di parte di un comunicato dell’Azione
Ciadiana per l’Unità e il Socialismo (ACTUS), inviataci dal prigioniero politico
Alfredo Davanzo dal carcere di Vigevano; questo testo, come scrive il compagno,
mostra la “realtà dell’oppressione imperialista e della lotta antimperialista
sconosciute e anche secondarie (certamente), ma proprio perciò utili a svelare
come queste due realtà siano assolutamente generali e capillarmente diffuse.
Nonché, nello specifico ed emergente scenario del Darfour-Sudan, a demistificare
l’ignobile ennesima campagna umanitaria.
Il testo è purtroppo un po’ datato (primavera 2007), tant’è che il Generale
Presidente Idriss Deby ha dovuto cedere il potere. Però, la situazione generale
non è cambiata molto. Evidentemente quest’analisi conserva molta attualità,
soprattutto come tendenza generale di forze in campo. In particolare, è uno
spaccato del principale imperialismo europeo, cioè quello francese, che si sta
riconvertendo in motore del ‘futuro’ imperialista UE”.
Il terzo materiale, tratto dal sito
www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare,
svela la mistificazione dell’informazione sui disegni imperialistici locali ed
internazionali, il reale ruolo delle ONG a partire dall’attacco al presidente
Mugabe.
Una crisi dimenticata
L’attualità nel conflitto del Darfur
Darfur significa in arabo “la terra dei fur”, ed è composta da diversi gruppi
etnici, arabi e non. I fur, zaghawa, masalit, tunjur e altri hanno abitato
questa zona da secoli, alcuni dedicandosi all’agricoltura e altri basando la
loro maniera di vivere in un’attività nomade. Diviso in tre ‘zone etniche’,
nessuna di queste può considerarsi omogenea dal punto di vista etnico.
A differenza del conflitto tra Jartum e il sud del paese, in Darfur i sentimenti
o le differenze religiose non entrano dentro i parametri dello scontro, dato che
entrambe le parti sono mussulmane sunnite. Per capire meglio l’attuale conflitto
è necessario entrare “dentro il prisma della storia”, facendo attenzione ad un
ventaglio di differenze e avvenimenti che si sono succeduti nelle ultime decadi.
Il processo post-coloniale ha mostrato che l’indipendenza del Sudan fu prodotta
dalle negoziazioni tra autorità coloniali e determinate elitès politiche locali,
lasciando ai margini importanti comunità ed etnie, soprattutto popolazioni della
periferia, come il Darfur. Questo accordo non teneva conto né della realtà né
delle richieste di quei segmenti di popolazione emarginati politicamente,
economicamente e socialmente.
Il conflitto venne dichiarato “ufficialmente” all’inizio del 2003, ma già dagli
anni ‘70 si producono frequenti azioni armate contro trasporti e strutture
governative del Darfur. Da parte del governo si darà inizio ad una campagna di
“negazione di qualsiasi problema politico”, presentando la situazione come
frutto dell’attività di banditi e cominciando una dura repressione contro le
popolazioni locali del Darfur, che porterà ad un maggiore rifiuto di quest’ultime
alle politiche dell’esecutivo centrale.
All’epoca erano già molte le voci dei popoli del Darfur che denunciavano
l’emarginazione che subivano da parte del governo del Jartum nella sanità, nei
servizi sociali basilari, infrastrutture e rappresentanza politica nelle
istituzioni centrali del paese. Allo stesso tempo, segnalavano il concetto di
emarginazione delle periferie da parte delle elites di Jartum, così come la
percezione che il conflitto in Sudan non sia circoscritto allo scontro tra nord
e sud, ma che si tratti di una lotta tra una minoranza elitaria appoggiata
socialmente ed economicamente dal Governo centrale e una maggioranza sfruttata e
discriminata.
Nel 2003, due gruppi oppositori al governo, il Movimento per l’uguaglianza e la
giustizia (JEM), di matrice islamista, e l’Esercito di liberazione del Sudan (SLA),
laico, decidono di prendere le armi contro Jartum approfittando della
situazione. Il Governo reagì come in passato, negando il carattere politico del
conflitto, aumentando la repressione e utilizzando milizie paramilitari locali,
i Janjaweed, contro i gruppi etnici che appoggiano i rivoltosi.
Gli accordi di pace tra Jartum e l’Esercito di Liberazione del Popolo del Sudan
(SPLA) puntano ad una riorganizzazione dello Stato, che continuerà con
l’emarginazione dei popoli del Darfur.
I pericoli di questa nuova emarginazione sono evidenti, e il nuovo consenso è
una ulteriore prova che la maggioranza dei popoli del Darfur continua ad essere
ignorata dalla politica ufficiale del paese.
Parallelamente, aumentano le voci all’interno del Darfur che di fronte a questa
situazione rivendicano una separazione reale, e prospettano la secessione come
unica via d’uscita dal conflitto.
L’intervento del TPI ha posto un nuovo punto di inflessione nel lungo conflitto
del Darfur.
Alcuni attori hanno accolto con gioia la decisione di perseguire legalmente i
dirigenti sudanesi, altri hanno mostrato le loro riserve davanti alla
possibilità che lo scenario politico peggiori, mentre coloro che appoggiano il
presidente si sono mossi per mobilitare le loro basi davanti a quella che
considerano una aggressione esterna. La polarizzazione del paese è, senza
dubbio, un nuovo pericolo da aggiungere alla già delicata situazione.
Diverse voci sudanesi, critiche con Jartum, hanno manifestato ampiamente che non
accetterebbero nemmeno un “cambio di regime” spinto dagli interessi stranieri.
D’altra parte, il presidente sudanese è cosciente del fatto che il vero pericolo
si possa trovare all’interno del cerchio dei suoi collaboratori. Come già
accaduto nel passato i cambi golpisti si producono con una certa frequenza e
seguono sempre lo stesso copione, per questo Omar al-Beshir non si fida di
nessuno.
Alcuni analisti si sono chiesti perché arrivi ora la decisione del TPI e hanno
segnalato la tendenza di alcuni attori (mezzi di comunicazione, USA, alcune ONG)
di giocare al rialzo con il numero di vittime nei conflitti in base a
determinati interessi, o per facilitare il proprio intervento. Hanno ricordato
il caso della Bosnia Herzegovina, dove quegli stessi attori contarono 300.000
morti, quando posteriormente si seppe che furono 100.000. questa cifra rimane
una enorme tragedia, ma la speculazione dimostra come l’obbiettivo finale non
sia arrivare a una soluzione ma portare la bilancia dall’una o dall’altra parte.
Il problema del Darfur è politico, e rappresenta una parte della crisi più
profonda che affligge il Sudan. L’emarginazione sociale, economica e politica
che ha dovuto subire gran parte dei popoli del Darfur richiede un dialogo
indirizzato alla ricerca di una pace basata in una soluzione politica giusta che
elimini le radici del conflitto e metta fine alla violenza. Per questo, la pace
arriverà per mano della giustizia che ponga fine a questa situazione di
squilibrio che hanno mantenuto, per primo, il regime coloniale britannico, e
successivamente i diversi governi del Sudan.
Fino ad ora la politica del “divide et impera” è stata la strategia centrale di
Jartum, accompagnata da un’impunità repressiva e la complicità di alcuni poteri
occidentali.
A parte questo, la soluzione più chiara passa per i parametri della negoziazione
segnalati. Senza un accordo si potrebbe produrre uno scenario come quello della
Repubblica popolare del Congo o del Ruanda.
L’intervento interessato del TPI, insieme agli interessi di alcune potenze
occidentali, può collocare il Sudan alle porte del peggiore degli scenari
possibili: un aumento della violenza; tensioni dentro al partito di governo; una
crisi nel Governo di Unità Nazionale, che può fare collassare gli accordi di
pace con il SPLA e provocare un nuovo inizio della guerra civile, e l’uscita dei
diplomatici e dei collaboratori stranieri.
“In definitiva, la crisi umanitaria potrebbe incrementarsi in questo nuovo
contesto, in cui la violenza raggiungerebbe livelli preoccupanti e toccare anche
altri stati vicini al Sudan, dove le forze golpiste potrebbero trovare il
pretesto per agire”.
27 luglio – Gara
Txente Rekondo
Gabinetto basco di Analisi Internazionale(GAIN)
***
Dichiarazione dell’ACTUS relativa allo spiegamento di forze militari dell’Unione Europea in Ciad
L’Azione Ciadiana per l’Unità e il Socialismo (ACTUS) prende atto della
decisione dell’Unione Europea di dispiegare una forza militare di circa 2500
uomini sul territorio del Ciad, lungo la frontiera con il Sudan.
Esprimiamo la nostra indignazione e totale rigetto per questo atto di guerra che
mira, in realtà, a proteggere il Generale-Presidente Idriss Déby, il cui potere
è seriamente minacciato dalle Forze di resistenza nazionale (UFDD, RFC, CNT,
CAR) a partire dai territori liberati nella suddetta regione.
Questa decisione dell’UE è stata approvata con l’accordo del Generale-Presidente
Idriss Déby, nel corso della sua recente visita ufficiale in Francia il 19
luglio 2007. Tuttavia, fino a poco tempo prima lo stesso Generale-Presidente, si
opponeva ad ogni spiegamento di truppe militari straniere in Ciad.
Questo voltafaccia, inatteso, sarebbe il risultato di un accordo segreto che da
un lato è a garanzia del suo potere contro la legittima ed irresistibile
avanzata su N’Djaména delle Forze di resistenza nazionale, dall’altro, permette
lo sviluppo dell’aggressione contro il Sudan, per le sue mire e concorrenza
verso la Cina rispetto ai giacimenti petroliferi.
In questa regione delicata, dove le Forze di resistenza nazionale del Ciad
controllano interi territori, il coinvolgimento diretto e operativo delle truppe
dell’Unione Europea sarebbe inevitabile.
Questa forza militare europea in Ciad sarebbe inappropriata e parziale, e non
contribuirebbe assolutamente alla protezione dei profughi, come invece pretende
di fare.
Nei fatti, la responsabilità del Generale-Presidente Idriss Déby Itno nella
creazione e nel sostegno del Movimento per la Giustizia e l’Uguaglianza (MJE),
il movimento ribelle del Darfour attivo dal febbraio 2003, è innegabile.
L’espandersi di disordini e guerre nella regione del Darfour rivelano anche
l’opera criminale del Generale-Presidente.
Nell’aprile scorso (2007), l’agenzia Reuters annunciò l’aggressione del Sudan da
parte delle truppe del Ciad, entrate in profondità nel territorio del Darfour,
uccidendo 17 militari sudanesi e numerosi civili. Tutto ciò è stato
stigmatizzato dai Rapporti di alcune ONG e anche da un rapporto ONU, ai quali si
aggiungono le testimonianze impressionanti e dettagliate di transfughi dal
regime, passati ora nelle file delle Forze di Resistenza Nazionale.
Il Dottor Khalil Ibrahim, leader del MJE, si esibisce fieramente per le vie di
N’Djaména (capitale del Ciad) ed effettua anche regolari soggiorni a Parigi.
Egli ha confermato in un’intervista a RFI del 20 ottobre 2006, il ruolo
fondamentale giocato dal Generale-Presidente Idriss Déby Itno nel sostegno al
suo movimento, che per di più partecipa alle operazioni militari ciadiane contro
le Forze di Resistenza Nazionale. Il Generale-Presidente Idriss Déby Itno
pratica così il terrorismo di stato, utilizzando i mercenari sudanesi del MJE,
per sterminare il suo proprio popolo.
Constatiamo con rabbia la deriva irreversibile della natura criminale del
personaggio, il cui piacere e soddisfazione massima sono nella vessazione del
popolo del Ciad, nella distruzione socioeconomica del paese, facendone uno tra i
più miserabili al mondo. Ciò malgrado le rimesse ingenti della vendita del
petrolio: dal 2003, l’oro nero ha riportato in Ciad 306 milioni di dollari di
entrate lorde. Solo nel primo anno di vendita del petrolio il paese ha
accumulato più di 103 milioni di dollari secondo il BEAC.
Una lobby pro-Déby, reazionaria e negazionista, conduce una campagna di
occultazione del genocidio praticato contro il popolo ciadiano. Questa campagna
in favore del conflitto del Darfour, fortemente mediatizzata, stigmatizza il
governo sudanese in quanto solo responsabile di questo dramma, le cui
conseguenze si estendono alle popolazioni del Ciad di questa regione di
frontiera.
Questa stessa lobby pro-Déby è cieca e muta di fronte al genocidio del popolo
del Ciad in atto da 17 anni. La lotta contro la dittatura condotta dalle Forze
di resistenza nazionale è cominciata 17 anni fa, alcuni mesi dopo la presa del
potere del Generale-Presidente Idriss Déby, nel dicembre 1989.
Questa lotta di liberazione è dunque ben anteriore all’incendio generalizzato
del Darfour, scatenato proprio dal tiranno del Ciad nel febbraio 2003. Sarebbe
perciò intellettualmente disonesto attribuire la paternità della creazione delle
Forze di resistenza nazionale e delle loro eroiche lotte al Governo sudanese.
A coloro i quali rinfacciano l’aiuto del Sudan alle Forze di resistenza
nazionale, rispondiamo che la Resistenza francese nella sua lotta contro
l’oppressione dell’occupante nazista non ha rifiutato l’aiuto degli alleati.
Allora perché non si riconosce lo stesso diritto al nostro popolo martire che
lotta contro la tirannia?
Le armi sottratte ai ribelli del MJE hanno rivelato che le matricole e
l’armamento appartenevano all’esercito del Ciad.
Le Forze di resistenza nazionale non sono composte da mercenari sudanesi o da
terroristi, come pretende chiamarli ossessivamente il Generale-Presidente Idriss
Déby. I combattenti delle Forze di resistenza nazionale sono ciadiani
riconosciuti e per di più, i loro principali dirigenti furono, in qualche caso,
nell’entourage del presidente come diplomatici o alti ufficiali, che hanno
deciso di rompere con l’abominevole regime di N’Djaména. Questa grossolana
disinformazione, rilanciata sistematicamente in occidente ha il solo obiettivo
di fare del tiranno una vittima e di criminalizzare le Forze di resistenza
nazionale e screditarle di fronte all’opinione internazionale.
E’ evidente la volontà di preparare così l’opinione occidentale all’idea di una
dispiegamento di forze militari dell’UE, conseguendo un doppio obiettivo:
combattere le Forze di resistenza nazionale a fianco dell’esercito del Ciad ed
aiutare le forze ribelli sudanesi del Darfour contro il governo sudanese.
Scenario che costituirebbe il preludio alla creazione di una zona di
interdizione aerea nel Darfour (sul modello del Kurdistan nord-iracheno per
tutti gli anni ’90, cui è seguita l’occupazione militare del paese da parte
degli USA per il saccheggio del petrolio).
Nessun Africano cosciente dell’avvenire del nostro continente, nessun
combattente per il progetto della creazione degli Stati Uniti dell’Africa potrà
mai accettare un simile neocolonialismo mascherato.
È notorio che l’opposizione plurale ciadiana (Forze di resistenza nazionale,
Partiti democratici) la società ed i sindacati hanno moltiplicato in questi
ultimi anni proposte ed iniziative di pace generale e senza esclusioni nel
Paese, ma il Generale-Presidente Idriss Déby Itno continua ad opporre un
ostinato rifiuto.
Osiamo ancora sperare che egli possa ancora essere illuminato da un bagliore di
umanesimo e di patriottismo, che lo condurrebbe infine ad accettare le ultime
proposte di pace sostenute dal Presidente del Gabon Omar Bongo Odimba e dalla
Guida libica Mouammar Kadhafi.
Non ci sarebbero alternative alla resistenza armata delle masse popolari se
l’inquilino del Palazzo rosa (il presidente) persiste a rigettare il dialogo. Ne
va della sopravvivenza del nostro Popolo, che non ama la guerra né è sostenitore
di alcuna violenza. Tuttavia, di fronte alla violenza imposta dal regime, le
masse popolari saranno obbligate ad opporre una violenza legittima, quella della
legittima lotta di liberazione, riconosciuta peraltro dalla dichiarazione di
Algeri del 1976. Questa dichiarazione stipula che i popoli oppressi hanno il
diritto a ricorrere alla lotta armata per liberarsi dal dominio, dalla dittatura
e dall’oppressione.
Di fronte alla tragedia del Ciad che perdura da 17 anni, l’Azione Ciadiana per
l’Unità e il Socialismo (ACTUS):
- condanna ed esprime la sua ferma opposizione al dispiegamento di truppe
militari dell’Unione Europea in Ciad alla frontiera col Sudan. Questo atto di
guerra permetterebbe di rinsaldare e beatificare il regime del
Generale-Presidente Idriss Déby. Ci ricordiamo ancora l’intervento delle forze
francesi in Ruanda (“Opération turquoise” del 1994) che ha permesso alle forze
ruandesi di organizzarsi e di condurre il genocidio di circa un milione di
persone.
- si oppone all’utilizzo del Ciad come base logistica per una qualsiasi
aggressione imperialistica contro il Sudan suscitando una guerra tra i due
Popoli a causa di interessi petroliferi.
- condanna questa cinica campagna internazionale della lobby pro-Déby che
occulta il genocidio del Popolo del Ciad, mettendo in evidenza solo il conflitto
in Darfour di cui peraltro Deby è il principale istigatore. Questa strategia
permette di proteggerlo e di sviare l’attenzione dalla tragedia ciadiana e dai
crimini contro l’umanità del dittatore.
Libreville, 22 Luglio 2007.
Per l’ACTUS, Azione Ciadiana per l’Unità e il Socialismo
Il Segretario Generale
Dr Ley-Ngardigal Djimadoum
actus@club-internet.fr
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Tutti criticano Mugabe: un africano risponde
Di Shungu M. Tundanonga-Dikunda
Chi si ricorda ancora di Moktar Bow? Moktar Bow era il segretario generale
onorario dell’Unesco. In quel periodo Gran Bretagna e USA si ritirarono dall’Unesco
mentre la Francia, la Germania e l’Italia sospendevano la loro partecipazione
finanziaria.
Perché? Perché Moktar Bow aveva voluto rompere il monopolio dell’informazione
detenuta dalle agenzie di stampa dei media occidentali. Oggi, questo monopolio
si fa sentire fortemente. L’Africa, soprattutto i congolesi del RDC, bevono le
informazioni dei media occidentali senza nessuno spirito critico. Alcuni pogrom
che hanno causato la morte di una sessantina di persone di varie nazionalità e
la distruzione di beni di cui i Sud africani, come gli Occidentali, negano di
pubblicare una stima, non sono stati oggetto di alcuna protesta, nessuna
manifestazione, nessuna crisi diplomatica sia in occidente che in Africa.
Chi può immaginare quale sarebbe stata la reazione occidentale, se, in tempo di
pace, i congolesi avessero agito nello stesso modo? E se ciò avesse avuto luogo
in Zimbabwe? Ciò che si trama contro lo Zimbabwe, lo Zanu-PF e Mugabe non ha
precedenti se non contro Lumumba. E se Mugabe riesce a tenere la situazione è
perché l’esercito, la polizia e le differenti forze di sicurezza non sono state
formate in Occidente, ma nei paesi comunisti (Cuba, Corea del Nord), e perché il
suo esercito non ha nessuna tradizione coloniale.
Vediamo come gli Occidentali si burlano degli africani ed inquinano l’opinione
pubblica internazionale. Mercoledì 18/6/08, BBC World aveva diffuso un servizio
sulla guerra civile che dura da 2 anni, al nord-ovest del Kenya, al Monte Egon:
là migliaia di persone sono diventate profughi interni e le popolazioni
autoctone rivendicano le loro terre.
Ciò che non era che l’inizio di una rivolta è diventata per i media
un’insurrezione armata. La polizia e l’esercito kenyota bruciano le case, i
raccolti e distruggono dei villaggi interi che non ottengono altro aiuto che
quello di Médecins sans frontières.
Giovedì 19/6/08, Raila Odinga va su BBC World per criticare Mugabe ed esortare i
Capi di Stato africani a prendere posizione contro Mugabe, quando nel suo stesso
paese ci sono stati centinaia di morti in occasione delle elezioni! E mentre nel
Rift Valley, le popolazioni autoctone hanno cacciato i Kikuyu per recuperare le
loro terre!
Il presidente senegalese Wade condanna il regime di Mugabe mentre il suo paese,
oasi di pace e di tranquillità, non riesce a nutrire la popolazione e i giovani
emigrano rischiando la vita.
Il suo ministro degli Interni sostiene a Parigi le espulsioni degli africani,
tra cui molti senegalesi, e anche l’immigrazione selettiva, ossia favorisce la
partenza della manodopera qualificata e del personale medico senegalese verso la
Francia!
Anche Kagame va su BBC World per consigliare a suo modo gli africani, mentre è
il presidente di un Stato poliziesco e senza opposizione, diretto da una sola
tribù e che fa concorrenza a Mobutu o Eyadema all’apice del loro potere!
Dietro BBC World, CNN, CNBC, Sky news, Francia 24, TV5 Monde, c’è una strategia
che consiste nel fare degli africani degli eunuchi guardiani di harem. Qualcuno
ha notato una sia pur piccola critica dell’Unione Africana o di un qualsiasi
Stato africano contro la direttiva Ritorno (degli immigrati) dell’Unione
Europea?
O una critica di una ONG africana per i diritti dell’uomo? Le stesse ONG
congolesi come Asadho, voix des sans Voies, ecc, che vivono degli oboli delle
ambasciate occidentali, non sono più che l’ombra di sé stesse.
E i sans-papiers illegali africani saranno soggetti fino a 18 mesi di detenzione
e saranno banditi per 5 anni dall’Europa! Evo Morales Ayma, il presidente
boliviano, in una lettera dell’11 giugno 2008, ha criticato severamente questa
direttiva dell’Unione Europea. Ma i suoi pari africani, gli alter-mondialisti
africani e le ONG africane per i diritti dell’uomo tacciono.
Hugo Chavez è appena passato all’azione chiudendo il rubinetto del petrolio
verso l’Unione Europea, anche se si tratta solo dello 0,7% del petrolio del
Venezuela. In compenso sia la Nigeria, il Camerun, il Gabon che l’Angola,
produttori africani di petrolio, non hanno reagito!
Chi si ricorda che N’Krumah aveva ritirato unilateralmente il Ghana dal
Commonweath? Chi si ricorda anche che Modibo Keita, N’Krumah, Sékou Touré,
Massamba-Débat non si lasciavano solleticare i piedi dagli Occidentali? Chi si
ricorda ancora che Charles Davide Ganao, ministro degli Esteri della R.P. del
Congo aveva difeso la causa dell’Africa alle Nazioni Unite in un discorso di più
di 2 ore?
Ciò che diceva il professor Buakasa sul Congo (Zaire) vale oggi per l’Africa:
“l’Africa non può che arretrare” e l’occidente, i benestanti e i dirigenti
africani se ne rallegrano. L’Africa profonda, l’Africa dei reietti e delle
vittime sta morendo.