SENZA CENSURA N.27

novembre 2008

 

In tempi insospettabili

L'università, la sua crisi, protagonisti e comparse (marzo-aprile 2008)

 

È’ così che abbiamo collocato questa riflessione in termini temporali quando l'abbiamo pubblicata sul blog della nostra assemblea di facoltà. Il testo è stato scritto con l'intento di descrivere e spiegare quei meccanismi che facevano apparire l'università come un terreno privo di contraddizioni nonostante il costante impoverimento del sapere. Processo che offre tutti i presupposti per un peggioramento delle condizioni d'inserimento nel mercato di lavoro da parte di tutti i laureati/andi. Il nostro lavoro sarebbe dovuto essere un lungo percorso d'intervento prima di veder maturare i primi risultati.
Invece la storia negli ultimi mesi è andata un po' diversamente. Questo testo non può essere facilmente adoperato per fini di agitazione di breve periodo, ma può servire per tracciare linee di riflessione e di lavoro.
Vogliamo che spinga verso una riflessione che è mancata in questi ultimi anni all'interno dei movimenti di classe sul rapporto fra riproduzione del sapere e disciplinamento della forza lavoro. Infine, vogliamo che stimoli l'intervento resosi più immediato per le questioni che solleva ma anche più esigente per i risultati che deve ottenere, visto che ci troviamo ormai in tempi di crisi del capitalismo.

 

Prima di cominciare occorre fare un inciso. Il comportamento dell’istituzione universitaria e le riforme del sistema formativo hanno delle conseguenze sull’intero corpo degli studenti, e queste sono un fatto oggettivo. Detto ciò, bisogna precisare che non tutti gli studenti reagiscono allo stesso modo davanti alla trasformazione dell’università. Cioè la loro reazione è un fatto soggettivo, in quanto relazionata alle diverse condizioni materiali nonché di estrazione sociale, back round culturale ecc. Partendo dalle diverse risposte che gli studenti danno, vedremo il perché di queste diversità e quelle che riteniamo più interessanti.
Una seconda parentesi. Oltre al rapporto fra docenti e ricercatori, fra docenti e studenti, fra ricercatori e studenti e fra tutti questi, bisogna esaminare anche il rapporto di queste categorie con lo Stato stesso. Per Stato intendiamo quella forma politica, espressione legislativa e amministrativa, dei rapporti di forza che vigono fra le classi presenti all’interno di una società. Una forza maggiore o minore di ogni gruppo determina le scelte che lo stato prende nei campi decisionali sopra accennati. In questa società, gli attuali rapporti di forza sono a favore dei capitalisti, così definiamo lo stato come Capitalista Collettivo, ed è questo l’elemento che guida le sue azioni. E questo vale (ovviamente…) anche nel campo della formazione.

E si comincia…

Ciò che noi chiamiamo istruzione, e ancor di più sistema d’istruzione, sia esso riguardante l’asilo nido o i dottorati, è un prodotto storico dell’evoluzione del capitalismo. L’istruzione quindi è condizionata sia nei suoi contenuti istruttivi che nei suoi metodi dall’evoluzione del sistema capitalistico. Viene condizionata attraverso un canale di collegamento dinamico con le necessità “conoscitive”, ideologiche e di disciplinamento dell’organizzazione del lavoro e della vita sociale in toto.
Per dimostrare ciò che abbiamo appena detto (non vorremo certo essere definiti ideologici) facciamo un piccolo flash-back.
Le borghesie sin dalla loro nascita non avevano né la voglia né la necessità di organizzare l’istruzione di altre classi oltre la loro. Soprattutto per quel che riguardava il proletariato, l’assicurazione della sua produttività, della sua laboriosità e disciplina avveniva con la violenza delle polizie e degli eserciti e non tramite le aule scolastiche. Agli albori del capitalismo si imparava durante il lavoro - on the job si direbbe oggi?...- i novelli imparavano cosa dovevano fare mentre facevano il compito stesso al quale erano stati assegnati e ciò bastava.
Con il passare del tempo però i padroni e i loro sorveglianti, spesso ex operai con esperienza tale da conoscere tutti i trucchi e i tempi di lavoro reali dei loro vecchi compagni, notavano che con questa organizzazione del lavoro i proletari diventavano detentori del sapere riguardo al lavoro stesso (far funzionare le macchine, aggiustarle, modificarle,migliorare il prodotto, ma anche sabotarle, bloccarle temporaneamente o in maniera permanente ecc.). Così i proletari usavano il loro sapere nel e per il loro interesse esclusivo, ogniqualvolta riuscissero ad eludere il dominio dei capitalisti. Una situazione del genere evidenziava un grande pericolo per quest’ultimi in quanto il proletariato era dominato a livello politico e militare, ma era padrone di sé a livello conoscitivo/gnoseologico.
Si tratta di una situazione che peraltro ha dimostrato ampiamente la sua pericolosità a livello storico. Basti pensare la rivoluzione d’Ottobre o ancor di più le rivoluzioni dei consigli operai che hanno scosso l’Europa centrale (Ungheria, Austria, Germania) subito dopo la Prima Guerra mondiale.
Ma già da prima, i capitalisti ne erano consapevoli e si erano messi al lavoro per cercare di “spezzare” il monopolio della conoscenza del lavoro in tanti frammenti. I loro tentativi hanno seguito due direzioni.
La prima direzione era quella dell’automazione della macchina, che la rendeva più complessa e perciò meno controllabile da chi la operava. Questo rendeva gli operai costretti a dipendere dal sapere di altri, non operai. Così il lavoro si insegnava in maniera diversa e diverso era anche il rapporto fra insegnante e principiante - subordinazione e disciplinamento al posto di collegialità e solidarietà -.
La seconda direzione era l’organizzazione della formazione - ecco, ci siamo… - in modo tale da organizzare a livello centrale e con le dovute gerarchie l’evoluzione, il flusso e la distribuzione dei saperi dentro la società. Anche in questo caso c’era un prima e un dopo. Così i vari sistemi d’istruzione delle comunità locali, o di reti sociali più o meno estese vengono marginalizzati, penalizzati, attaccati per instaurare un sistema nuovo.
Anche se qualcuno per descrivere questo processo di cambio di sistemi di formazione userà il termine “superare”, apparentemente neutro ma in realtà consapevolmente fuorviante, la realtà resta diversa. La sostituzione di un modello all’altro e la sua imposizione è un esercizio di violenza concreta dal momento che riguarda le relazioni fra le persone. Immaginate un ragazzino nato in campagna, portato a scuola e obbligato ad imparare varie materie, fra le quali geografia. Si prende questo ragazzino abituato a girare per i campi, i boschi, in contatto diretto con il suo territorio naturale, i suoi animali ecc. e si vuole, tenendolo seduto per ore dentro un’aula, insegnarli cos’è un fiume visto come una riga blu o una montagna come un nome sopra un disegno marrone entrambi dentro un libro. Quindi un modello astratto, amputato da ogni relazione con la sua quotidianità. Un riadeguamento della persona e del suo pensiero, in ciò che vede, che sente, nelle sue esperienze. Riguarda i suoi spazi, così come i suoi tempi. Basti pensare alla prima giornata a scuola (ma anche alla seconda, e alla terza…) e al perpetuo conflitto che c’era dentro di loro - e noi pure - per non andare a scuola e/o essere altrove. Oppure il suono del campanello, questo regolatore di un “organizzato cambio del comportamento” di tutti, che dava il segnale d’uscita dallo studio per andare a giocare e viceversa.
Questo campanello era ed è ancora una “lezione per la vita” in quanto lo si sentirà anche dopo la scuola, nel lavoro ovviamente, e prima ci si abitua, meglio sarà…
Per l’organizzazione del suo sistema formativo, la borghesia ha utilizzato elementi da pregressi sistemi formativi. Per esempio dal modello utilizzato dalla chiesa, l’unico sistema di trasmissione dei saperi per alcuni secoli: dura disciplina, austerità, isolamento, rigidità morale. Tutti elementi riconoscibili anche nella scuola borghese fino a buona parte del 20esimo secolo.
Da un canto ha cercato di distruggere sistematicamente qualsiasi altro modello di trasmissione di saperi basato su modelli di reti sociali. Ricordiamoci la sistematicità con la quale i maestri vietavano e punivano l’uso delle lingue dialettali a scuola proprio perché andavano contro agli obiettivi uniformanti di un sistema centralizzato. Dall’altro canto ha sfruttato di nascosto e senza fare ammissioni caratteristiche di altri modelli. Ci riferiamo allo studio a casa, o a quello collettivo tuttora molto diffuso fra compagni di uno stesso corso in università.
Lo sviluppo di un sistema formativo centralizzato è giunto al suo apice in contemporanea con la massima funzionalità del sistema produttivo fordista. Pilastro fondamentale, creava l’ambiente ideologico perfetto per la produzione e il consumo di massa. Da qui anche il suo carattere “pubblico” e (quasi) gratuito con un carattere apparentemente interclassista. Il compito di formare a tre livelli, grossomodo, è stato appaltato allo stato, non tanto perché i capitalisti hanno pensato all’interesse della collettività o perché era un attività senza margine di profitto, quanto per il fatto che l’istruzione di massa da un ente centralizzato -lo stato appunto- e la creazione di strumenti adeguati come libri, scuole, professori, metodi di controllo-esami, veniva a costare meno per ogni “testa formata”, e si incastrava perfettamente alle esigenze di una produzione di massa e alla produzione di un ideologia analoga di disciplinamento. Per ideologia del disciplinamento intendiamo l’antagonismo di tutti contro tutti (comunemente scavarsi la fossa a vicenda), Allo stesso modo toglieva la possibilità di qualsiasi percorso di formazione alternativa, bloccando di fatto l’emancipazione formativa dei proletari e di coloro che stanno alla base della piramide sociale, piegandola alle esigenze del capitale.

Il passaggio dal modello formativo fordista a quello successivo percorre una strada che si chiama crisi
Come abbiamo detto sopra, c’è un prima e un dopo che dipende da alcuni fattori storici. Nel momento in cui il modello fordista si sentiva pienamente fiducioso delle sue possibilità di garantire lo status quo, perpetuando la divisione della società in classi smussandone le contraddizioni, è entrato platealmente in crisi, quasi contemporaneamente nel mondo produttivo così come in quello della sfera formativa.
La divisione rigida fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, cioè fra coloro che eseguivano e coloro che concepivano il lavoro che andava fatto, era diventata un pilastro del sistema produttivo ma ancor di più del sistema formativo. La svalutazione continua di una gran parte di lavoratori per via della mancanza di attestati – diplomi – che accertavano o permettevano di accedere a certe competenze o persino allo studio di altre, e il controllo tramite una quota di specializzati ad ogni campo del sapere (sociologi, urbanisti, avvocati, fisici ecc.) era il modo con il quale il capitalismo pensava di perpetuare suo dominio.
Ma questa compartimentazione è saltata a causa della rivolta degli operai, del lavoro manuale, che ha saputo individuare le falle dentro il sistema produttivo dando vita a momenti di insubordinazione, sabotandone il funzionamento. La “scuola” dei rapporti sociali che si sviluppava durante questi momenti si è dimostrata migliore di quella borghese, attirando una parte di quegli operai specializzati che avrebbero dovuto fungere da controllori. Così gli (ex) controllori si schieravano contro la borghesia spianando contro di essa le armi del sapere (e non solo…). Mentre il sistema scolastico ufficiale trasformava la sua ideologia di governance in aria fritta piena di proclami moralistici contro i comportamenti “devianti” o ritenuti tali, non produceva più figure di controllo affidabili, ma agenti del nemico di classe, gente pronta a far saltare il banco…
Mettete assieme le voci della Fiat e la rivolta operaia a Corso Traiano, l’occupazione dell’università di Torino e di Roma con gli scontri a Valle Giulia, l’offensiva Vietcong insieme all’università di Berkley, California, il maggio Francese e la rivolta di Città del Messico e vi renderete conto del boato.
La prova della perdita del monopolio sul sapere produttivo e formativo sono state le rivolte che questo sistema finiva per alimentare. Questa perdita è stato il fattore che ha scatenato la crisi del sistema d’istruzione.

…lungo la crisi del sistema universitario
Fare una cronostoria della crisi sarebbe molto dispendioso in termini di tempo. Essa crea una scia d’eventi attraverso i vari tentativi di riforma della scuola e dell’università. Basta pensare alla riforma Malfatti e al movimento del ’77, ricchissimo sotto l’aspetto della sua forza trasformatrice, che essa ha aiutato a nascere. I nuovi modi e mezzi di comunicazione, le radio libere e i fogli autoprodotti intesi come nuovi metodi di rapportarsi erano frutto di quel movimento. Lo stesso vale per il movimento della Pantera del ’90, che ha occupato tutti gli atenei del paese contro la riforma Ruberti. Anche qui, gli occupanti per comunicare usano i telefax e anticipano Internet, usando la rete informatica universitaria. Stesso discorso nella mobilitazione contro le riforme Zecchino-Berlinguer e Moratti nel 2005, dove i blog e le nuove tecnologie digitali hanno un ruolo importante per la discussione e la coordinazione delle mobilitazioni. Ogni tentativo di riforma o anche riforma ultimata evidenzia il potenziale antagonista. Mezzi che sono stati usati nelle lotte contro le riforme che adeguano l’università alle esigenze del mercato, vengono di seguito recuperati dal mercato stesso e dai suoi acerrimi sostenitori.
La crisi della scuola e dell’università è un sottoinsieme della crisi del modello produttivo e della società in generale. Allora questione centrale è diventata nuovamente la produzione, la distribuzione e il possesso del sapere. In parole povere la riorganizzazione del lavoro intellettuale.
Per far ciò la classe dirigente ha dovuto misurarsi con alcune domande: a) può continuare l’istruzione ad essere l’unico meccanismo di distribuzione dell’ideologia della governance?, b) come si doveva riorganizzare l’altro pilastro, il lavoro manuale?, c) lo stato doveva e poteva continuare ad essere l’unico erogatore d’istruzione, espressione della volontà collettiva dei capitalisti nel campo formativo?, d) come potevano essere ricondotti alla compatibilità i rapporti sociali prodotti negli squarci delle lotte sociali?
Se tutte le domande esigono una risposta, la terza ha una risposta che ci interessa particolarmente; con gli unici criteri della funzionalità e della profittabilità – abbiamo detto che lo stato è il capitalista collettivo – i capitalisti hanno sempre interesse che esista un’istruzione abbastanza centralizzata o comunque entro limiti precisi. Così essa può sempre continuare a disciplinare le future generazioni o limitarne la loro portata gnoseologica. Per far ciò serve un sistema centralizzato.
Per quanto riguarda la sua profittabilità è interessante osservare che nella fase di transizione dal vecchio modello al modello nuovo, si possono accettare anche pure delle perdite, e questo perché l’istruzione nella società capitalistica è comunque un settore strategico. In contemporanea però, l’iniziativa privata guadagna nuovi spazi. I margini ci sono, dal momento che il “cliente” è pure disposto di pagare pur di essere “istruito”.
Ma un’altra questione fondamentale che qui si presenta è la meccanizzazione (taylorizzazione) del lavoro intellettuale. Più questa meccanizzazione avanza, più i suoi algoritmi diventano il piano sul quale si organizza l’intelligenza, allora più il sistema formativo tradizionale si deteriorerà non solo quantitativamente ma anche qualitativamente. Basti vedere il peso del “lavoro ideologico” per la formazione delle future generazioni di “dirigenti” (o almeno così ci vorrebbero far credere), che non ricade più tanto alle spalle delle varie istituzioni universitarie, quanto in ciò che viene diffuso dai media. Vale a dire, è più probabile che uno studente si convinca dell’utilità dell’università per la propria formazione da giornali e televisioni, e non certo frequentando i corsi … Il sistema formativo monco non mantiene più il monopolio di trasmissione dell’ideologia per cui il titolo garantisce il successo, e come potrebbe risultare convincente, quando nelle facoltà mancano persino la carta igienica? E addirittura si trasforma in un esamificio, con controlli di carattere poliziesco sulla sua popolazione più che d’effettiva conoscenza.
Così la vera punta avanzata di questa produzione d’ideologia della subordinazione in virtù di un futuro “successo”, diventa il sistema mediatico (giornali, giornalisti, televisioni e altri cannibali del pensiero). Sistema mediatico che è poi alla base del “successo” di quei docenti che lo sanno ampiamente sfruttare. E questi docenti verranno poi ad essere riconosciuti dai loro studenti non certo per la qualità del loro insegnamento, ma per la loro posizione e la loro capacità di spendersi sul piano mediatico.
Le varie riforme del sistema universitario oltre a produrre laureati afflitti di “nullità lessicale e bancarotta sintattica” (così conclude l’inchiesta del Royal Literary Fund durata 7 anni dal 1999 fino al 2006) o l’abbandono-espulsione di massa per un sacco di iscritti, producono anche altri effetti collaterali. Uno di questi è il ruolo che i docenti e i ricercatori hanno dentro questo sistema.

Comunità scientifica
Il concetto che ogni osservazione è pregna di teoria, sostenuto da Karl Popper, significa che punti di vista differenti danno descrizioni differenti dello stesso oggetto. Questo concetto trasformato in criterio per la storia dell’evoluzione scientifica descritta da Kuhn e presente anche nella ricerca sociale mette una pietra tombale sopra le pretese d’imparzialità della funzione del docente e del ricercatore.
La scienza contemporanea essendo un’attività che richiede un capitale fisso d’enorme valore, cioè soldi e infrastrutture, non abbonda di certo fra i ceti poveri né è un oggetto decisionalmente dipendente da qualche voto popolare. Sono questi investimenti, fatti e controllati strettamente dai capitalisti ad essere lo zoccolo duro della scienza oggi e sono questi che determinano il suo orientamento.
C(a)sa nostra come funziona?
Invece di parlare di idee è meglio parlare di interessi – mooolto materiali – che stanno dietro le idee. Quando l’università, i suoi docenti vengono criticati, soprattutto nella nostra facoltà, si viene subito accusati di approccio ideologico. Ma le scienze sociali intese come orientamento universitario sono (o meglio dire erano, abbiamo visto sopra la natura del cambiamento) per eccellenza un avamposto della produzione di ideologia. In mancanza di un capitale fisso delle proporzioni di un politecnico, di una facoltà di medicina, di fisica, sono le scienze sociali ad essere le più volubili e ideologiche. Ma qui entra un altro fattore che si chiama capitale circolante o in parole più povere la grana, el danèe. Visite e contro-visite di colleghi dal/al estero, riviste finanziate, associazioni scientifiche con il loro contorno di convegni, salari per la ricerca, salari per consulenze a livello di amministrazione pubblica locale, nazionale ed europea, salari per consulenze private, regali in genere o in denaro sopra (ma anche sotto il banco)…. un giro d’affari non da poco, insomma …
Il primato in questi affari lo detiene l’economia (un caso?) e negli ultimi anni la nostra facoltà insieme ad altre in varie città ha spostato il suo peso d’insegnamento verso le materie economiche (anche questo un caso???). Infatti i risultati di miglioramento della società si vedono…
La volatilità fa sì che appena cambi il vento, cambiano “faccia” anche i nostri scienziati. Non a caso abbiamo avuto una conversione en masse di vari docenti da estremisti comunisti a miglioristi del Pci, a “rinnovatori” diessini e infine a miti “democratici” seguendo puntualmente il flusso del daneé dopo aver scoperto che la rivoluzione non era dietro l’angolo. Infatti, il primato della scienza si chiama capitale. E il barone ha un “titolo nobiliare”, conseguenza logica del denaro, che gli ha permesso di acquistarlo.

L’intreccio con l’intervento pubblico
In molti sperano di piegare questo meccanismo attraverso riforme deontologiche o legislative. Numeri chiusi, controllo della scienza da parte della cittadinanza (sic), “extraterritorialità del sapere rispetto alla banalità e mediocrità che sta sommergendo il paese” e chi più ne ha più ne metta. Tutte cose che ipotizzando che possano accadere richiedono l’intervento del capitalista collettivo (vi ricordate, Stato??...). Semplicemente perché: a) sono cose che non fanno parte (se non contrarie) alle esigenze delle elite e b)la svalutazione non accade tanto per il numero degli studenti quanto per la parcellizzazione dei saperi attraverso il 3+2, la proliferazione di corsi ecc, la monetarizzazione di pezzi del sapere o dei certificati che lo “accertano” come l’ECDL, ecc.
Ci limitiamo a dire che chiunque cerchi di arrivare a conclusioni guardando l’istruzione come un settore indipendente e isolato dal sistema capitalistico, si troverà nella situazione di fare osservazioni di corta visione, superate prima ancora di essere dette, finendo per spalleggiare la macelleria di teste (e vite) della ristrutturazione capitalista.
Ovviamente nel gioco di “discussione sulla crisi dell’università” (e la sua propaganda) ci stanno anche i diversivi. “It’s a dirty job, but somebody’s gotta do it” come dice Bonnie Tyler in una sua canzone. Anche il giochino del dibattito democratico (mi raccomando ehh) lascia tanti soldi, posti, voti, per alcuni. E tante ma tante illusioni per altri…

Colpe e “meriti”
Una riforma, per fare un esempio la Zecchino-Berlinguer - che riguarda la docenza e la ricerca universitaria - fra i suoi proclami di razionalizzazione introduceva per il settore della docenza i docenti a contratto, una sorta di barone “straccione”. La definizione sembra paradossale, ma corrisponde ad un contesto intenzionalmente complicato. La riforma, come quelle che l’hanno preceduta dal ’91 in poi, ha rafforzato il mito dell’ascesa individuale. Non più l’aspirazione di far parte dell’università in sé, né la figura di un professore qualunque, quella del “mi piace insegnare e fare ricerca”, ma quella del docente che conta (money remember?), del prestigio individuale della sua posizione. Prestigio che sorge non nei momenti d’insegnamento ma attraverso la sua consultazione come “esperto” da parte del sistema mediatico – il pilastro centrale alla produzione d’ideologia come abbiamo detto.
Ora, per arrivare a ciò, bisogna fare la “gavetta” del precario. Con l’inserimento dei precari in un contesto di “lavori sporchi” si ottengono due piccioni con una fava. Da un lato si mantiene una forza lavoro disciplinata e subordinata dal ricatto della precarietà, molto materiale e oggettiva, dall’altro lato il boia dell’ideologia fa il suo lavoro. Lavoro gratuito di correzioni e di ricerca, leccaculaggine e chissà cos’altro. Se in certe università studentesse e studenti poco tempo fa davano via il culo per qualche esame e i baroni lo chiedevano (e non ci scusiamo per il nostro linguaggio), per qualche posto stipendiato o in attesa di essere stipendiati cosa accadrà?
Perciò bisogna porsi la domanda: è possibile che l’unica alternativa ad una privatizzazione dell’università, con tutto ciò che essa comporta in termini di ritmi di studio, di contenuti dei corsi, di rapporti collettivi fra studenti, di costi per la formazione che ognuno di noi deve sopportare, sia il potere baronale dell’università formalmente pubblica ma in realtà territorio d’affari per pochi docenti? Noi vogliamo credere di no.

La soggettività, che incubo
Il nodo della questione purtroppo è (anche) questo. Dopo gli schiaffi d’ogni tipo incassati nei licei “parcheggio”, dalla famiglia e le sue attese, nell’università il rincoglionimento dei primi tre anni, quello del “facciamoci le scarpe a vicenda” e dello psicotico “io sono il primo della classe”, dopo la specializzazione si arriva al “lavoro gratuito in attesa di…” per i dottorandi e i ricercatori. Sorge una domanda: l’oggetto dello scontro è solo la condizione precaria dei ricercatori? O questo aspetto è soltanto una parte di tutto il resto?
Sembra quasi che si protegga dal fuoco all’albero – il ricercatore precario – concentrandosi su di esso, mentre nel frattempo la foresta (e l’albero pure) viene tagliata. Una valvola di sfogo per una condizione reale in un insieme di rapporti sociali dove vige il fittizio. È proprio questo intreccio, l’insieme di questi miti a far sì che nonostante gli studenti e i ricercatori capiscano la quotidianità della miseria dentro e intorno il sistema d’istruzione non abbiano ancora dato fuoco alle polveri. Al contrario, pare che negli ultimi anni i movimenti siano sempre finiti per identificare un nemico isolato – ora questa legge, domani questo ministro, dopodomani questa precisa condizione ecc. – che diventa una valvola di sfogo per questa situazione di perenne tensione. Se fossimo in malafede rispetto ad una certa sinistra, penseremmo che si tratta di mobilitazioni costruite ad artificio per disinnescare in tempo tensioni che mettono in discussione molto di più. Infatti siamo in malafede.

Chi paga, chi guadagna?
I pretendenti al potere sono più di prima e non è rimasto nessun potere da dividere. Se c’è chi guadagna deve esserci chi ci perde – un gioco a somma zero.
(Kerr, The Great Trasformation in Higher Education, 1960-1980)

Per pagamento non intendiamo solo i costi per studiare in università. In realtà i costi si estendono per il periodo della vita delle persone o gran parte d’essa. Riguardano la negoziabilità che la forza lavoro uscita dall’università, ha.
Anna Scannavini sostiene, fra le altre cose, in un suo articolo sulle università americane nella rivista ÀCOMA – estate 2007 – che la riduzione delle risorse economiche per le università negli Stati Uniti (in una maniera simile a quelle italiane) ha comportato una minore spesa per il personale, con un processo di precarizzazione per i lavoratori. Inoltre ne è derivata anche la necessità di avere una ricerca volta al profitto immediato. Cioè, l’istituzione universitaria acquista fondi e prestigio perché favorisce la ricerca verso prodotti immediatamente commerciabili e verso studiosi capaci di produrre “più fondi pubblici e privati”. La conseguenza è quella di far calare la capacità di produrre pensiero e, nel futuro, ricerca scientifica di base.
Un’altra conseguenza di lungo periodo e quella della crescita dell’indebitamento di coloro che vogliono frequentare l’università attraverso i cosiddetti “prestiti d’onore”, promossi dagli atenei stessi oppure tramite gli intermediari finanziari sempre in aumento. Negli Stati Uniti la crisi dei mutui ha portato in superficie oltre alla bolla speculativa immobiliare anche l’aumento dell’indebitamento di ampie fasce della popolazione universitaria. Si tratta di studenti staccatasi dalla famiglia, e sempre più in difficoltà nel restituire i prestiti legati ai propri studi universitari in quanto questi vengono calcolati come parte di un investimento – nel campo della formazione universitaria con la prospettiva di un lavoro più redditizio – che tarda ad arrivare …
In Italia, nonostante la proliferazione dei corsi di laurea negli ultimi anni, allo stesso momento questi sono diventati estremamente rigidi, per quanto riguarda i piani di studio. Si tratta di un elemento molto importante in quanto dai contenuti di studio si determina:
a) L’interesse degli studenti verso l’università:
Come si diceva sopra gli studenti, soprattutto quelli del triennio, sono consapevoli non tanto del loro sapere, ma del loro non sapere, cioè percepiscono la povertà dei loro saperi rispetto al livello della complessità sociale. Questa consapevolezza al contrario è fonte d’estraneazione, di alienazione, soffocata dalla speranza dell’ascesa oppure sfocia nell’abbandono ma quasi mai in una reale ricerca di coscienza. Vedremo il perché.
Questa condizione è un vero e proprio paradosso(?), selezione avversa direbbe Martelli (insegna Teoria Politica alla Facoltà di Scienze Politiche ndr), cioè da un lato l’università sostiene di volere gli studenti più interessati, e gli studenti vengono in università proprio in virtù di questo. Dall’altro lato l’università -sia tramite i baroni che tramite le sue istituzioni, consigli di facoltà, rettorati e ministero obviously- crea le condizioni affinchè lo studente non trovi molto di diverso dai licei. Ormai non si cerca nemmeno di mascherarlo, ogniqualvolta qualche strano studenti protesti, per le aule, per i testi, per l’accesso alle infrastrutture, per gli spazi mancanti, si sente dire: “L’università non è tenuta ad offrire questo servizio”. È come se in una maniera (in)diretta ti viene detto di lasciar stare, di adeguarti alla norma ma soprattutto di giocare il gioco con le loro regole (a perdere). Così i soggetti che maggiormente vedono nell’istruzione superiore un riscatto per loro, magari attraverso una maggiore comprensione della realtà, sono i primi ad essere avversati dall’università.
b) Il tipo di formazione che essi hanno
In questo passaggio bisogna capovolgere il discorso ufficiale secondo cui l’università migliore è quella che meglio prepara gli studenti al mondo del lavoro. Piccolo dettaglio: il mondo del lavoro vuole lavoratori disciplinati e spendibili subito, incentrati sulle capacità tecnico-esecutive. L’università si adegua a questa esigenza, trasformandoci in elementi riceventi e contemporaneamente passivi rispetto al processo formativo. Così si può avere un sistema formativo che produce pezzi difettosi per una macchina che con questi pezzi funziona perfettamente.
L’ingresso del sapere nel campo produttivo ha trasformato il rapporto privilegiato, ma comunque selettivo, che trasferiva il sapere dal “maestro” ai suoi allievi, in un asta, dove le risorse economiche del soggetto determinano quanti “pezzi” di sapere parcellizzato avrà. Un tipo d’istruzione più complessiva aumenterebbe la consapevolezza dello studente riguardo alle proprie capacità, e lo renderebbe meno disponibile alle condizioni di lavoro (salari, orari, turni, rapporti fra le gerarchie, tipologie di contratti) attuali. E questa è cosa risaputa da parte della classe dirigente.
Per capire meglio facciamo un esempio: la gallina in batteria è ferma, non si muove per nulla, e tutto il giorno mangia e fa uova. L’eventuale movimento intacca la produzione e aumenta i costi che la gallina comporterebbe al proprietario/padrone. Così se uno studente ha la possibilità di definire il piano dei suoi studi, e inizia a decidere quando e dove fare le uova, non solo aumenta i costi per la sua formazione, ma difficilmente si farà rimettere in gabbia dopo.
A nostro avviso questo deve essere l’approccio verso il baronato, prodotto di una condizione reale di false promesse d’ascesa individuale, per le quali i primi fungono da agenti dentro gli atenei.
Esiste margine per un sapere non “patrocinato”? La questione della formazione collettiva in antitesi all’uso del sapere capitalista. La crescita del sapere antagonista, frutto delle esperienze che il proletariato matura su tutti i campi.
To be continued…

Assemblea studenti Scienze Politiche - Milano
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