CRONACHE DA UN LAGER
CHIAMATO C.P.T.
Strana è questa vita, uno si trova nei guai, il suo egocentrismo lo fa
sentire unico, poi incontra altre persone, sente altre storie e si vergogna
di essersi lamentato. Sono un dissidente politico algerino arrestato nel
lontano 1995, processato durante il decennio ‘95/’05, processo che si è
concluso con una condanna finita di scontare il 27/08 del 2008. Sei mesi
prima della fine della condanna l’amministrazione carceraria Ucciardone
inoltra una pratica di espulsione nei miei confronti. Non potendo ottenere
soddisfazione, visto che il sottoscritto era un dissidente politico,
legalmente residente in Italia, in più sposato con una cittadina italiana e
padre di cinque figli, hanno deciso di manipolare i miei dati anagrafici e
la mia posizione giuridica. Così, da semplice delinquente da strapazzo (art.
416 cp) sono diventato un potenziale terrorista (art. 270 cp). Il comico è
che risultavo celibe, senza residenza e senza lavoro, insomma un clochard.
Rendendomi conto di questo ho presentato un esposto alla procura. E’ quindi
venuto in carcere il procuratore a raccogliere le mie dichiarazioni.
Verosimilmente lo status-vile, doppiamente vile, di un detenuto
extracomunitario, non consentiva di ottenere giustizia o di intimorirli,
perché hanno continuato la loro opera di falsificazione, “in atti
d’ufficio”, indisturbati. Il giorno fatidico di uscita ho dovuto aspettare,
in una cella-sauna tre ore, prima che una pattuglia di poliziotti mi
portasse in questura (ufficio immigrazione), dove mi venne notificato un
decreto d’espulsione basato su quei dati falsati. Ho provato a farli
ragionare, presentando loro i documenti in mio possesso, ma senza buon
esito.
La sera dello steso giorno (29/08) dormivo già dentro un letto di un altro
carcere (chiamato C.P.T.), soltanto che questa volta nessuno mi rimproverava
un reato. Tutto sommato me la sono andata a cercare: fare attività politica
di opposizione in un paese famoso per le sue prese di posizione
opportuniste, non poteva che finire così. Poi ho incontrato gente in questo
lager, ascoltato le loro storie, di colpe non avevano neanche l’ombra. Ve ne
racconto un paio.
1) Kennedy Adu Gyanfi: è uno studente ghanese, trasferito Cap Town
(Sudafrica), iscritto al terzo anno di ingegneria (non chiedetemi la
specializzazione, sono di formazione classica, non ci capisco niente, anche
se me l’ha spiegato). Si trovava in Sicilia con un visto turistico/Schengen
(validità 6 mesi). Lo hanno fermato, un controllo, una sera molto calda in
cui era uscito a fare due passi, lasciando però il passaporto a casa. Non
soltanto non gli hanno dato la possibilità di andare a prendere i suoi
documenti, ma il bello è che neanche il suo avvocato (d’ufficio) riesce a
farlo uscire.
Ora sono più di venti giorni che il malcapitato chiede di essere mandato via
per non perdere l’iscrizione all’università e per mettere fine a queste
vacanze diventate un incubo.
2) Sukhdev Singh: è un indiano del Punjab, vive a Reggio Calabria da cinque
anni dove fa il magazziniere. In questo tempo ha conosciuto una ragazza
calabrese, convivono da un paio di anni insieme, vanno in comune per
sposarsi, gli consegnano una convocazione della questura. Il giorno che si
reca in questura viene fermato e portato nel lager, a causa di un vecchio
decreto di espulsione.
Ora spera di essere rimpatriato al più presto, così da poter riabbracciare
la sua compagna, ma questa volta a casa sua (sempre sperando che le autorità
indiane non espellano la ragazza).
La prima cosa che ho avuto modo di notare dal primo momento del mio approdo
entro le mura di questo carcere è la sofistica terminologica.
Viene chiamato Centro di Permanenza ma è circondato da moltitudini di sbarre
affiancate da sistemi di sorveglianza vari e allarmi diversificati.
Il tutto guardato da carabinieri (tornati da missini all’estero) e
poliziotti, più militari, che controllano l’entrata. Ho visto anche dei
veicoli della guardia di finanza, ma non ho ancora capito la loro funzione.
I detenuti vengono chiamati ospiti. Sono stato ospite in varie nazioni,
presso vari ceti sociali e culturali, ma vi assicuro che mai nessuno mi
aveva perquisito e ordinato di abbassare i pantaloni per guardarmi il buco
del sedere.
Altro segno di grande ospitalità sono le visite programmate. Per poter
ricevere la visita di una parente, bisogna consegnare una copia di un suo
documento di riconoscimento, che l’amministrazione si incarica di spedire
alla questura per ottenere l’autorizzazione.
Fino a qua ci siamo, sembra un carcere di media sicurezza. Non contenta la
questura rincara la dose, chiedendo di precisare il giorno della visita in
anticipo, una cosa che neanche nell’alta sicurezza è applicata, visto che
l’autorizzazione vale per sempre, fino a prova contraria.
Detta ospitalità tocca il suo picco di premura con la corrispondenza. La
posta in entrata viene portata da collaboratori in presenza di un
poliziotto, che evidentemente non la tiene lui, ma che tu devi aprire in sua
presenza in modo che lui possa verificare il contenuto.
Mentre la posta in uscita, una volta consegnata ai collaboratori viene
portata al direttore che da l’autorizzazione alla spedizione. Il direttore
può dare l’autorizzazione e anche no, non è così?
Elementi chiave del diritto costituzionale della corrispondenza sono la
segretezza e l’anonimato, chiaramente evasi dalle pratiche di questo lager.
Nel carcere di alta sicurezza è consentito usufruire di 4 ore d’aria, qui
una sola ora, scelta ad un orario impossibile, le 16, quando il caldo tocca
il suo massimo. A quell’ora neanche gli uccelli volano, mica scemi loro!
Sotto quel sole ad un mulo gli verrebbe il mal di testa, ma forse un mulo
vale di più di un extracomunitario. In questo marasma consoliamoci con il
fatto che la carne extracomunitaria abbia fornito lavoro a gente
(collaboratori, assistenti, psicologi…) che senza di loro sarebbe
disoccupata, sempre sperando che la parte del leone se la cucchi il fratello
dell’onorevole Giovanardi.
Bendebka Lhadhi
Lager C.P.T. macht frei, Bendebka Lhadi, settembre 2008
via Tunisi 35 - 91100 - Trapani |