SENZA CENSURA N.28
marzo 2009
editoriale
Durante le mobilitazioni contro i criminali bombardamenti che l’esercito
israeliano ha compiuto sui territori palestinesi della striscia di Gaza a
dicembre e gennaio scorsi, è avvenuta una cosa che ha sorpreso molti militanti
politici “indigeni”, noi compresi: in molte città italiane le comunità arabe
sono scese massicciamente nelle piazze e, nei fatti, hanno determinato il piano
della mobilitazione di quei giorni.
Subito il tentativo da parte istituzionale è stato quello di sottolineare in
modo esasperato l’aspetto “confessionale” di questi episodi, sviluppando un
dibattito quasi scandalistico sulle preghiere in piazza e sull’islam, e
mobilitando a ruota una fetta consistente dell’apparato cattolico. Ci è sembrato
evidente il tentativo di spostare l’attenzione sull’aspetto a nostro avviso meno
interessante di quanto è successo in quei giorni in molte piazze italiane ed
europee. E anche una buona parte della sinistra, istituzionale e non, ci pare
sia caduta in questa trappola.
Certo, potremmo spendere a nostra volta pagine e pagine di parole sui limiti
delle cosiddette “comunità” immigrate, sui limiti delle logiche confessionali,
sui limiti dell’islam: ne siamo perfettamente consapevoli.
Se concentrassimo però le nostre riflessioni su questi aspetti, e in generale
sui limiti delle dinamiche culturali e politiche delle comunità immigrate come
se fossero qualcosa di a se stante, di separato dal quadro generale dello
scontro di classe, commetteremmo un grosso errore. Riproporremmo ancora una
volta un approccio parziale della questione, come se si stesse parlando di
qualcosa di diverso dall’analisi di un fenomeno che deve essere interpretato
invece in tutto e per tutto come interno alle dinamiche della classe proprie di
questa fase. Un approccio che contribuirebbe a mantenere viva una sorta di
“separazione”, un distinguo nei confronti di una componente a cui invece è
necessario rapportarsi tenendo conto di cosa oggi esprime la realtà di classe
italiana nel suo complesso, sia dal punto di vista sociale che politico.
Quello che invece ci interessa evidenziare è che per la prima volta, almeno in
maniera così massiccia, una comunità immigrata si è esplicitamente mobilitata in
maniera autonoma su una tematica profondamente politica. Per la prima volta non
c’è stata una semplice adesione a qualcosa preparato da altri, una presenza
“colorata” ma minoritaria; c’è stato invece pieno protagonismo nel definire
tempi e modi delle mobilitazioni sul territorio.
Sono dati che ci devono far riflettere.
Innanzitutto perché testimoniano che esiste un nesso profondo tra la guerra
imperialista che viene combattuta sul fronte esterno, e quello che essa
determina sul fronte interno attraverso i soggetti che, direttamente o
indirettamente, quella guerra se la vivono sulla propria pelle.
In secondo luogo perché dà un significato ancora più profondo ai continui
tentativi messi in atto dagli stati europei per arginare, attraverso
legislazioni di emergenza e repressione continua, proprio il pericolo che questi
elementi di coscienza di classe antimperialista possano diventare volano per
forme di aggregazione e solidarietà di classe nei territori del centro.
Come abbiamo scritto in precedenti editoriali, la necessità del controllo sul
fronte interno è per il comando una prerogativa indispensabile, soprattutto in
una fase in cui i vari fronti di guerra non riescono comunque ad arrestare il
procedere della crisi. Lo sviluppo e il radicamento delle politiche securitarie,
lungi dal voler rispondere al profondo disfacimento del tessuto sociale,
contribuiscono pesantemente sia a tenere sotto controllo le varie componenti
della classe, sia a tenerle ben divise e separate tra loro.
Uno degli obiettivi prioritari per il comando è proprio quello di tenere aperta
il più possibile la frattura tra la componente immigrata del proletariato e
quella “indigena”, facendola diventare, come già ci pare stia avvenendo in altri
paesi europei, un dato socialmente acquisito e consolidato.
L’errore, quindi, che si rischierebbe di compiere riproponendo un approccio
parziale ed arretrato sarebbe quello di assecondare proprio questa logica
completamente controproducente, rimanendo impantanati in quella cultura
“eurocentrica” ancora tanto presente all’interno delle forze del movimento di
classe.
E questo errore sarebbe ancora più grave perché proprio in questa fase le
politiche di guerra e il procedere della crisi tendono viceversa ad uniformare
il piano delle contraddizioni, evidenziando, laddove questo riesce ad
esprimersi, i contorni di quel “proletariato metropolitano” di cui tanto si è
parlato negli anni passati.
Molto è cambiato da quando, ormai parecchio tempo fa, all’interno delle mura
umide di molti centri sociali si discuteva su come relazionarsi ai primi
“immigrati” che iniziavano a frequentare e a condividere gli spazi del movimento
e le sue iniziative.
Molti allora, con una mentalità che spesso faticava a nascondere il proprio
retroterra culturale profondamente cattolico, confondevano il fondamentale
principio della solidarietà con quello più ambiguo e scivoloso
dell’assistenzialismo.
La discriminante di classe stentava ad essere considerata un parametro
universale di valutazione, anche perché, a differenza delle precedenti comunità
di stranieri con cui si era abituati a confrontarsi e che erano solitamente
molto politicizzate (si pensi ai palestinesi, agli iraniani, ai latinoamericani,
ai somali, ecc), si registrava allora una presenza crescente di una
composizione, proveniente dal sud economico del mondo, che aveva più le
caratteristiche del sottoproletariato. Una componente che era in prevalenza
molto ricattabile, disposta a grossi sacrifici sia sul posto di lavoro che nelle
condizioni di vita nel territorio, poco interessata a ragionamenti di
“prospettiva” sulle sorti dell’umanità o della lotta di classe.
A parte rare eccezioni, spesso i rapporti con questo “soggetto” si esaurivano
quando questi trovavano referenti più affidabili delle scalcinate strutture di
un movimento che certo non godeva né di buona salute né di grandi risorse… E
che, come se non bastasse, era costretto a confrontarsi spesso con la
repressione.
Molto è cambiato, dicevamo, da allora.
Dal punto di vista sociale, negli ultimi vent’anni è andata consolidandosi una
presenza di proletariato immigrato che ha l’obiettivo di fermarsi in maniera più
stabile nei nostri territori e che sta sviluppando una “seconda generazione”
inserita più radicalmente nelle pur contraddittorie dinamiche di classe
nostrane. Questa componente, che affianca gli storici flussi di transito, preda
di sfruttatori più o meno legali, è ormai una presenza stabile in tutti i
settori sociali, dal mondo del lavoro a quello della scuola. E pur essendo
spesso ancora un “elemento debole” disponibile ad un maggiore sfruttamento e a
peggiori condizioni di vita, questo dato non può di per se bastare per
giustificare la crescente ostilità nei confronti dello “straniero” a cui
assistiamo quotidianamente. Una clima di xenofobia e di razzismo istituzionale a
cui gli stessi immigrati di prima e seconda generazione si sono peraltro fatti
carico di dare riposta mobilitandosi in prima persona (vedi Milano dopo la morte
di Abba, Parma, Caserta, Lampedusa...). Un’ostilità che va dunque ricercata
proprio nel capillare lavoro del comando e nella conseguente mancanza, ormai
cronica nel tessuto sociale, del principio della solidarietà di classe,
principio che aveva consentito, pur tra le tante contraddizioni, di assorbire i
precedenti flussi migratori interni degli anni 50-60 trasformandoli in nuova
linfa per lo sviluppo della lotta di classe nelle grandi fabbriche e nei
territori del nord Italia.
Oggi il concetto di solidarietà di classe sembra non esistere più. Questo è
attribuibile, a nostro avviso, allo smantellamento progressivo da parte del
comando e delle forze riformiste delle strutture e delle identità di cui la
classe si era dotata il secolo scorso, offrendo campo libero a logiche razziste
e di differenziazione che proprio all’interno delle componenti popolari stanno
oggi trovando un rinnovato successo.
In queste condizioni l’unica “sponda” possibile per affrontare le difficoltà
della crisi diventa la dimensione comunitaria. Questo paradossalmente avviene in
modo più semplice proprio per le comunità immigrate che, o su base etnica o su
base confessionale, riescono spesso a trovare forti momenti di ricomposizione.
Cosa oramai estremamente difficoltosa, viceversa, per altre fette di
proletariato, frantumato in una completa devastazione sociale, culturale e
politica.
Le dinamiche comunitarie, che da sempre garantiscono un circuito di assistenza
fondamentale, rischiano però al tempo stesso di diventare totalmente vincolanti,
controllate il più delle volte dagli interessi economici (o religiosi) di
potentati altrettanto attenti allo sfruttamento della propria base, andando così
ad innestare un circolo vizioso di difficile superamento.
A poco serve, allora, discutere su quanto siamo distanti dall’islam, o su come
le varie leadership di queste comunità rappresentino comunque forze più
interessate ad un accordo con gli apparati di potere e di controllo dello stato.
Sforziamoci di ragionare su quello che c’è, su quello che si determina, e non su
quello che ci piacerebbe ci fosse attorno a noi ma che il più delle volte vive
solo all’interno delle nostre teste.
Da un dato invece secondo noi è più utile ripartire e lo ripetiamo: queste
complesse trasformazioni rendono ormai obsoleto il vecchio e arrogante approccio
solidaristico nei confronti degli “immigrati”, sia perché non tiene conto
dell’attuale forte mancanza di legittimità delle componenti politiche del
movimento, sia soprattutto perché ripropone una logica arretrata di separazione,
all’interno della composizione di classe stessa, del proletariato immigrato da
quello indigeno.
Opporsi a questo processo di separazione per noi significa cercare di
interpretare quanto si esprime all’interno della classe nel suo complesso,
quanto sfugge al controllo del comando o dei tentacoli del riformismo, tentando
di evidenziare e valorizzare in questi casi i possibili punti di connessione che
emergono piuttosto che soffermarsi sui limiti che queste dinamiche si portano
dietro.
Per concludere, siamo convinti che non ci saranno leggi né regolamenti che
riusciranno a fermare i processi e le dinamiche determinate dallo “sviluppo”
imperialista nel mondo.
Questi processi non sono lineari, né sfoceranno automaticamente in qualcosa di
positivo da un punto di vista di classe. Sono spazi, sono occasioni determinate
dalle condizioni oggettive che le soggettività politiche devono saper cogliere
per accelerare un percorso di crescita. Il che può voler dire, in periodi come
questi in cui le capacità delle soggettività rivoluzionarie sono decisamente
arretrate, sforzarsi di coglierne la valenza, di individuare forme anche
parziali di collegamento e di relazione con i soggetti che ne sono protagonisti,
e, soprattutto, combattere l’approccio disfattista ed arrogante che spesso le
stesse componenti politiche della classe, prima ancora della classe stessa,
esprimono.
In questa fase, secondo noi, questo è già un compito primario ed indispensabile
che deve caratterizzare il lavoro politico di tutti e a cui pure noi tentiamo di
dare un contributo.