SENZA CENSURA N. 29

giugno 2009

 

editoriale

 

Alla fine degli anni ’80 il definitivo superamento del “sistema bipolare” ha segnato una tappa fondamentale nel processo di sviluppo delle strategie dell’imperialismo, accelerando in modo evidente quel fenomeno conosciuto da tutti come “globalizzazione”.
E’ iniziata una fase in cui l’iniziativa è passata saldamente nelle mani del comando imperialista e che ha visto le soggettività e la stessa classe, in Italia e come negli altri paesi del centro, subire pesantemente l’attacco della controparte.
Un attacco a 360 gradi che si è sviluppato su due fronti: un fronte esterno, col quale attraverso la guerra e l’infiltrazione economica, politica e militare, l’imperialismo ha esteso il suo dominio e il suo sfruttamento sul pianeta; e un fronte interno, fatto di politiche economiche antipopolari, ristrutturazioni selvagge, precarizzazione e controllo.
Se questo processo sul piano internazionale, non più celato dalla “guerra fredda”, è diventato ben riconoscibile e ha portato un’intera generazione politica ad analizzare e a creare opposizione al concetto di globalizzazione, ciò non ha impedito che il pesante attacco sul piano interno determinasse comunque un progressivo arretramento delle forze antagoniste nella classe, alimentato e agevolato anche dalle varie derive riformiste.
In questo quadro il lavoro di Senza Censura è stato quello di tentare di contribuire all’approfondimento dell’analisi sulla reale natura di questi processi e sul nesso che questo piano strategico andava determinando con i processi di ristrutturazione (e di repressione) sul piano interno.
Non stavamo assistendo ad una fase di “sviluppo” neutra, ma al preciso tentativo da parte del capitale di dare risposte concrete alla sua strutturale crisi avviando nel contempo processi di esecutivizzazione che gli consentissero di ridurre al minimo i vincoli alla sua capacità operativa.
Tutta questa fase è stata caratterizzata da una potente battaglia ideologica che, partendo dall’assunto della “sconfitta storica” del comunismo, dipingeva il sistema capitalista come l’unico in grado di garantire sviluppo e benessere nel pianeta, e cooptando in sua difesa e in suo sostegno, attraverso la “guerra al terrorismo”, l’intero apparato politico, istituzionale e militare del pianeta.
Ma l’espansione sul piano globale del sistema capitalistico attraverso l’occupazione politica, economica e militare, con le annessioni al quadro NATO o con le guerre guerreggiate, non ha potuto evitare l’esportazione della crisi stessa che proprio attraverso i processi di globalizzazione cercava soluzioni.
E se la creazione di nuove aree di “sviluppo capitalistico” attraverso la disgregazione della “stabilità” bipolare ha determinato radicali cambiamenti in aree tradizionalmente non industriali, e con essi profonde modificazione nelle caratteristiche stesse del loro proletariato, portando in alcuni casi una breve fase di “benefici” con il nuovo processo di espansione all’interno della crisi stessa, ha dovuto ben presto fare i conti con gli effetti di quanto abbiamo visto determinarsi negli ultimi mesi e non solo.

La crisi
La crisi che stiamo vivendo attualmente, per estensione e profondità, pensiamo stia delineando il definitivo superamento della fase caratterizzata dalla spinta dei processi di globalizzazione e ne vada ad aprire una completamente nuova.
Non tanto per il capitale, comunque impegnato da anni nel tentativo di predisporre tutti gli strumenti più efficaci alla gestione della crisi, quanto per la classe.
La maschera infatti è definitivamente caduta: questa crisi sta dimostrando con la sua drammaticità che gli sforzi, i sacrifici richiesti in questi anni a milioni di uomini e donne in tutto il mondo, le guerre, lo sfruttamento selvaggio del pianeta, nulla di tutto questo è riuscito effettivamente a ridare respiro ad un sistema che non ha alcuna prospettiva di sviluppo reale e non riesce più nemmeno a promettere un miglioramento delle condizioni di vita per nessuno.
Nemmeno il tentativo di dare un volto nuovo all’establishment USA (molto più “sensibile” sul piano della comunicazione dei nostri vetusti apparati di potere) servirà a mascherare questa realtà né a coprire i suoi drammatici effetti.
Certo, non stiamo profetizzando che questa crisi stia per far saltare il banco... sarebbe una stupida semplificazione. Il sistema probabilmente tornerà a rimettersi in moto, a riassorbire in parte le contraddizioni da essa generate, ma il salto a nostro avviso c’è stato e da questo non si può tornare indietro.
E’ ormai evidente che l’estensione globalizzata del mercato economico e finanziario rende sempre più veloci ed omogenei su scala planetaria i nefasti effetti determinati dalla crisi.
Questo determina il sempre maggiore allargamento sul piano verticale, cioé sul piano dello scontro tra le classi, della forbice tra chi si colloca nel campo capitalista, adoperandosi attivamente per sviluppare strategie di gestione della suddetta crisi, e chi la stessa la paga materialmente sulla propria pelle con l’aumento dello sfruttamento, la disoccupazione, la miseria, la guerra. Nello stesso tempo, sul piano orizzontale, cioé sul piano di classe, questo processo tende ad allineare globalmente le condizioni di chi non la vuole pagare, rendendo sempre più simili le contraddizioni e nello stesso tempo sempre più valide sul piano generale le strategie di risposta che le soggettività della classe sperimentano nelle singole realtà. Da questi due piani vengono definitivamente espulsi tutti i tentativi di mediazione fondati sulla presunta riformabilità del sistema. Dal punto di vista del comando, in quanto esso ha sussunto in prima persona, attraverso le politiche di repressione e controllo, la gestione delle contraddizioni sociali, senza più bisogno dunque di mediatori politici e sociali ormai obsoleti. E dal punto di vista della classe perché dopo anni di continui ed inutili arretramenti la credibilità di queste ipotesi è ormai completamente venuta meno.
Se quindi in questa nuova fase la nostra attenzione dovrà continuare ad analizzare e interpretare le strategie di gestione della crisi dell’imperialismo, ci sembra però ancora più importante concentrare la nostra attenzione su quanto sta accadendo e su quel che accadrà all’interno della classe.
E questa attenzione a nostro avviso dovrà obbligatoriamente essere rivolta sull’intero piano dello scontro, cioè sul piano internazionale; questo non perché affidiamo tutte le nostre speranze (vista la brutta aria che tira dalle nostre parti…) ad un nuovo “internazionalismo proletario”, ma proprio perché contrariamente alle fasi precedenti, quanto si sviluppa e si sperimenta sul piano della resistenza e dell’organizzazione di classe in ogni angolo della terra oggi, può essere stimolo e traccia per sperimentare anche qui forme di ricomposizione di classe.

Questa è la traccia di lavoro che ci ha mosso nella redazione di questo numero, il filo rosso che cerca di collegare i diversi materiali contenuti al suo interno.
Oltre ad alcuni contributi di analisi specifici sulle strategie di gestione della crisi, cerchiamo di rilevare il fatto che sul piano internazionale si stanno sviluppando da tempo esperienze anche di lotta rivoluzionaria estremamente importanti, addirittura in fase di transizione a forme di relazioni sociali diverse dalle precedenti. O che per esempio l’America Latina per alcuni aspetti abbia preceduto quanto sta succedendo attualmente in altri luoghi e che alcuni movimenti che là si sono sviluppati rappresentano l’ossatura stessa di concreti processi di trasformazione antagonisti agli interessi del capitale, al di là delle personalizzazioni e dei facili simbolismi. E che la stessa caratterizzazione delle esperienze di classe ha assunto caratteristiche ben più simili a ciò che si può ritrovare oggi nelle nostre metropoli di quanto accadeva in passato.
Riportiamo testimonianze di come la stessa Europa dell’est, quella della delocalizzazione, della nuova Europa del capitale, dove UE e USA si sono contesi il controllo dei paesi che venivano dalla disgregazione dell’area di influenza sovietica, deve oggi fare i conti con gli effetti della crisi, sia sul piano finanziario sia quello economico/industriale.
O di come in molti paesi lo stesso livello della lotta sindacale tenda oggi obbligatoriamente a rompere i vincoli della specificità assumendo spesso un piano più generale di intervento, ben lontano dal consueto strumentale ruolo di cogestori delle contraddizioni. O di come anche nella stessa Europa si determinano in alcuni casi momenti di rottura importanti che sviluppano forme di lotta ben diverse (sequestri, occupazioni, azioni…) dagli scioperi simbolici o di routine.

Scrivevamo in uno dei nostri ultimi editoriali che ogni lotta, nelle forme e nei contenuti che va ad esprimere, fissa un punto di non ritorno; e ora possiamo aggiungere che questo è tanto più vero se questa lotta ha la capacità di determinare il raggiungimento dell’obiettivo.
Pensiamo sia necessario anche per noi oggi riuscire a contribuire, almeno per quanto ci sarà possibile come collettivo redazionale attraverso la conoscenza e l’approfondimento, a fare in modo che il punto di non ritorno degli altri possa diventare nel nostro immaginario e nella nostra realtà anche il nostro.



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