SENZA CENSURA N. 29
giugno 2009
Dalla lunga crisi alla grande crisi
Prima parte
Ci sembra non più 
prorogabile proporre una riflessione sulla situazione di crisi che a livello 
globale il capitalismo sta attraversando. In questa ottica diamo spazio a un 
materiale - pubblicato in due parti - che analizza in modo chiaro e approfondito 
gli elementi oggettivi caratteristici delle attuali fasi storiche di caduta del 
saggio di profitto, ripercorrendone le varie fasi a partire dagli inizi degli 
anni ‘60 fino ai giorni nostri. L’analisi è centrata sugli USA, paese nodale del 
sistema capitalistico, dove l’attuale crisi ha avuto le sue prime e più evidenti 
ricadute.
Presentare questo lavoro di analisi vuole essere un modo per cercare di fare il 
punto della situazione oggettiva per poterla ricollocare su quelle che sono le 
sue ricadute sulla classe proletaria, sull’uso politico che viene fatto della 
crisi e sulle risposte che possono svilupparsi. Questo primo contributo vuole 
essere da preludio a un lavoro di inchiesta che metta in evidenza anche la 
soggettività che oggi si esprime sul terreno della lotta di classe, contribuendo 
a cogliere tutti quegli elementi di autonomia e di progettualità “altra” che i 
lavoratori contro la crisi sono chiamati a mettere in campo.
DALLA LUNGA CRISI ALLA GRANDE CRISI 
A leggere le analisi e proposte prodotte nell’area della sinistra ex 
istituzionale sulla crisi che ha investito il capitale su scala globale, pare di 
essere in presenza di una grande opportunità: dopo 30 anni di neoliberismo 
finalmente torna (?) in scena lo Stato nella regolazione del processo economico; 
si suggeriscono quindi utopici piani di intervento, quali “un piano del lavoro 
con lo Stato che si fa garante di una piena occupazione, stabile e di 
“qualità”…o “nell’immediato consentire che lo Stato abbia potere di decisione 
sulle imprese in cui investe” e, addirittura, “in termini di prospettiva, 
estendere il controllo pubblico e sociale della produzione, rilanciando il 
valore, la possibilità e la necessità dell’economia di piano”. Ignorando 
totalmente la natura di classe dello Stato e i vincoli invalicabili insiti nel 
rapporto di produzione capitalistico, queste proposte non fanno altro che 
seminare illusioni, generando passività e delega tra chi intanto già subisce 
duramente le conseguenze di questa crisi.
Piuttosto che cogliere il momento quantomeno per “rischiarare le coscienze”, le 
si intorpidisce ancor più.
Alla base di queste proposte vi è anche un’analisi sulle origini di questa crisi 
che non ne coglie affatto la natura strutturale. Quando non se ne vedono le 
cause nel solo processo di finanziarizzazione e si cercano nell’economia reale, 
le si coglie in un deficit di domanda dovuto al taglio dei redditi del lavoro 
dipendente, che sarebbe frutto di una scelta politica determinata, di stampo 
neoliberista, e non di ragioni strutturali, e dunque in qualche modo 
correggibile avviando una nuova era di politiche Keynesiane. Siamo nel campo 
delle utopie riformiste, che non intendono prendere atto della natura 
strutturale delle contraddizioni che stanno investendo il rapporto di produzione 
dominato dal capitale e che in questa crisi si stanno manifestando in tutta 
evidenza.
Sembra utile dunque un approfondimento delle cause di fondo di questa crisi al 
fine di capire quali potranno esserne le conseguenze e quali siano le reali 
opportunità che essa offre alla classe.
SOVRAPPRODUZIONE: CHE COS’E’?
A tal fine occorre fare anzitutto una breve premessa sul concetto con cui la 
sinistra marxista generalmente spiega la crisi: quello di sovrapproduzione. 
Questo termine viene usato per lo più come sinonimo di sovraccumulazione, 
sovrainvestimento, sovrapproduzione di mezzi di produzione e/o sovrapproduzione 
di merci…non rendendo però così pienamente il contenuto che Marx ha inteso dare 
a questo concetto. Per Marx “sovrapproduzione assoluta di capitale si ha quando 
il capitale addizionale per lo sviluppo della produzione capitalistica è uguale 
a zero”, in altri termini quando il capitale addizionale non riesce a 
valorizzarsi. Ma con ciò ancora non è detto il perché di questa sovrapproduzione 
di capitale. Marx ce lo indica, specificando che la valorizzazione di capitale 
col procedere della accumulazione va incontro fondamentalmente a due ostacoli, 
ambedue connessi allo sviluppo della produttività del lavoro; uno sviluppo 
quest’ultimo necessario alla sopravvivenza dei singoli capitali nella lotta di 
concorrenza tra loro. Il capitalista per affrontare la concorrenza deve, 
infatti, cercare di vendere ad un prezzo inferiore ai suoi concorrenti, ciò che 
è possibile solo con una crescita della produttività del lavoro.
Il primo ostacolo sorge dal fatto che per il capitale la crescita della 
produttività per lo più ha un costo, non è gratis. Infatti essa è per la maggior 
parte connessa ad una crescita del macchinario nel processo produttivo e quindi 
del peso del valore del macchinario in rapporto al capitale totale. Dal momento 
che il macchinario non fa che trasmettere il proprio valore al prodotto man mano 
che viene consumato nel processo di produzione senza aggiungerne di nuovo, esso 
rappresenta un puro costo per il capitale.
Finché il capitalista avrà il monopolio dell’innovazione potrà ottenere comunque 
un sovrapprofitto, sia allargando il proprio mercato sia vendendo ad un prezzo 
inferiore a quello di mercato, ma in ogni caso superiore ai nuovi costi di 
produzione. Nel momento però in cui gli altri capitalisti, costretti dallo 
stesso meccanismo della concorrenza, introdurranno anch’essi i nuovi metodi di 
produzione, e questi ultimi si generalizzeranno, il prezzo di mercato cadrà, 
adeguandosi al nuovo livello raggiunto dalla produttività del lavoro, e tutto il 
peso del costo dei nuovi macchinari introdotti si scaricherà sul saggio di 
profitto. Trattandosi questo di un processo continuo Marx parla di tendenziale 
caduta del saggio di profitto.
La crescita del grado di sfruttamento è il principale fattore di contrasto alla 
caduta del saggio di profitto, ma questa crescita si ottiene per un verso 
proprio con una maggior produttività del lavoro con i suoi relativi costi, per 
un altro verso con la crescita dell’intensità e durata del lavoro, forme queste 
non costose per il capitale, ma sottoposte a limiti fisiologici oltre che 
sociali e politici. Una soluzione temporanea a tali difficoltà è cercata 
attraverso una scala di produzione più ampia, favorita dalla centralizzazione di 
capitali, che permette economie di capitale speso in macchinari e materie prime 
e quindi una crescita della produttività meno costosa.
Ma è un rimedio che tende ad esaurirsi, in quanto così vengono accelerati al 
tempo stesso proprio quei fattori che incidono negativamente sul saggio di 
profitto (investimenti in nuovi macchinari).
Al medesimo processo è legato anche il secondo ostacolo individuato da Marx: la 
progressiva crescita della produttività e l’estensione della scala della 
produzione generano una “produzione di massa” che deve trovare uno sbocco nella 
circolazione (nel consumo); ma “mentre l’accumulazione capitalistica 
richiederebbe un mercato costantemente allargato, per riversare verso l’esterno 
le proprie contraddizioni interne (quelle generate dal “processo che si esprime 
nella caduta del saggio di profitto”) i rapporti di distribuzione antagonistica 
limitano il potere di consumo”…”il potere di consumo della società” infatti è 
“basato su rapporti di distribuzione antagonista, che riducono il consumo delle 
grandi masse della società ad un minimo variabile solo entro confini più o meno 
ristretti”. In altri termini il capitale sviluppa l’accumulazione e la 
produzione di massa indipendentemente dal bisogno solvibile, che è limitato 
fondamentalmente dal fatto che il salario non può superare un certo tetto senza 
mettere in discussione lo stesso rapporto di lavoro salariato, su cui tutto si 
basa.
Due indicatori ci confermano che è stato proprio il cambiamento tecnologico il 
fattore determinante che ha inciso nelle fasi storiche di caduta del saggio di 
profitto: uno è l’”intensità di capitale”, cioè il rapporto tra capitale fisso 
(cioè il valore dei macchinari) e lavoro, che indica il grado di meccanizzazione 
della produzione, l’altro è la “produttività del capitale”, cioè la produzione 
media per unità di capitale fisso, che indica i costi della meccanizzazione. Le 
due grandi fasi storiche di ribasso dei profitti coincidono con una crescita 
dell’intensità di capitale e con una riduzione della produttività del capitale 
(vedi tabella e grafici 1-2-3).
Si tratta ora di verificare quanto i due ostacoli individuati da Marx, e in 
particolare il cambiamento tecnologico e i suoi costi, abbiano inciso sulla 
crisi in atto. Di quest’ultima ora ne ricostruiamo anzitutto le origini, 
centrando l’analisi sugli USA, in quanto perno attorno a cui si è costruito il 
processo d’accumulazione su scala globale in questa fase storica e in cui è 
possibile cogliere più chiaramente gli elementi che l’hanno caratterizzato.
ANNI 60-70: PRIME MANIFESTAZIONI DELLA CRISI E SUA GESTIONE CON POLITICHE 
KEYNESIANE
Le radici della crisi esplosa nel 2007/08 affondano nei lontani anni ’60. Dal 
1965, infatti, il tasso di profitto in USA inizia una progressiva discesa: dal 
10% del PIL scenderà al 6% nel 1970. Stesso fenomeno si verificherà in Europa 
sul finire del decennio. Con lo sviluppo estensivo dell’accumulazione già ad 
inizio anni ’60 si era ridotto in USA l’esercito industriale di riserva 
(semplicizzando: la disoccupazione) che aveva garantito bassi salari e un forte 
grado di sfruttamento. La risposta del capitale fu un’accelerazione del 
progresso tecnologico e dell’automazione dei processi produttivi di stampo 
fordista e una ricerca di sbocchi esteri per le imprese nel tentativo di 
“ripartire i costi fissi (cioè per lo più in macchinari) in più grande serie”: 
la crescita tecnologica infatti non consentiva ormai una produzione redditizia 
per il capitale se non su scala internazionale. A metà anni 60 il ciclo 
d’accumulazione del dopoguerra tocca comunque un tetto: anzitutto per il costo 
crescente in macchinari e l’organizzazione del lavoro taylorista che non 
riusciva più ad accrescere il saggio di sfruttamento attraverso una crescita 
dell’intensità e durata del lavoro, ed anzi suscitava una crescente ribellione 
operaia; favorita quest’ultima anche dalla riduzione dell’esercito industriale 
di riserva che indebolì il comando del capitale sulla forza lavoro occupata, 
facendo lievitare anche i salari. Anche il tentativo di dare uno sbocco alla 
“produzione di massa” col sostegno dello Stato alla domanda, stimolando il 
consumo operaio con forme di salario indiretto (welfare), a lungo andare aveva 
rafforzato la classe lavoratrice. Infine, una volta ricostruito l’apparato 
produttivo europeo sulla base del modo di produzione taylorista-fordista, 
l’Europa era ormai tornata competitiva sul mercato mondiale rispetto agli stessi 
USA, riducendo la possibilità di dare uno sbocco alla produzione americana 
accrescendo l’export.
Di fronte alla caduta del saggio di profitto che maturò in questo contesto, la 
crisi del processo di accumulazione si fece manifesta. La capacità di pressione 
dei lavoratori, però, era cresciuta al punto da rendere troppo rischiose in 
termini sociali e politici strategie miranti a far seguire alla crisi il suo 
decorso naturale, che avrebbe comportato la distruzione di parte del capitale 
sociale in sovrappiù e nuovi metodi di produzione in grado di ristabilire un 
saggio di sfruttamento adeguato a rilanciare l’accumulazione. Così gli USA, 
l’economia per prima colpita, nella seconda metà degli anni ’60 optarono per una 
gestione della crisi con strumenti di politica economica (monetaria e fiscale) 
espansiva ispirata al Keynesismo, tesi ad alimentare uno sviluppo forzoso 
dell’accumulazione, sperando che la ripresa di quest’ultima ne avrebbe presto 
ripagato i costi.
Non avendo aggredito le cause di fondo all’origine della crisi però, non solo il 
saggio di profitto continuò la sua discesa, ma si accrebbe l’indebitamento delle 
imprese; inoltre la crescita della spesa pubblica si tradusse in crisi fiscale 
dello Stato e la politica monetaria della FED, che raddoppiò la massa monetaria 
in circolazione, mise in moto un processo inflazionistico sempre più forte. 
Infine, crescendo il differenziale d’inflazione con le altre economie 
capitalistiche sviluppate, gli USA subirono un deficit della bilancia 
commerciale, che minò la funzione del dollaro (allora convertibile in oro con 
una parità fissa di 35 dollari per oncia) quale perno del sistema monetario 
internazionale (detto di Bretton Woods). Per ridare competitività alle proprie 
imprese, nel 1971 gli USA dichiararono l’inconvertibilità in oro del dollaro, 
ciò che ne permise la svalutazione, scaricando la crisi sugli altri paesi. 
Finisce così l’era di Bretton Woods ed inizia quella dei cambi flessibili, che 
favorì le svalutazioni competitive degli anni ’70, nel contesto di una acuta 
competizione tra i poli capitalistici, tutti desiderosi di dare uno sbocco 
esterno alla sovrapproduzione, mantenendo ed allargando gli spazi conquistati 
dalle proprie imprese sul mercato mondiale. Solo la Germania (e il Giappone che 
seguì una strategia simile) optò per un marco forte ed una politica 
antinflazionistica in funzione di una ristrutturazione e riconversione delle sue 
industrie e di un’ internazionalizzazione produttiva, accettando la sfida USA e 
cercando di imporsi come potenza economica emergente.
Forte dell’insostituibilità del dollaro quale denaro mondiale e della 
conquistata libertà di svalutarlo, in USA la strategia di gestione della crisi 
si basò negli anni ’70 ancora sul tentativo di far riprendere artificiosamente 
l’accumulazione attraverso un uso generalizzato del credito, che permetteva di 
prorogare la sopravvivenza delle imprese anche in una fase di difficoltà di 
valorizzazione. Sostenuta dal finanziamento monetario (cioè attraverso emissione 
di nuova moneta stampata dalla FED e non con più tasse o titoli pubblici) fu 
favorita anche una crescita della spesa pubblica, in particolare del welfare. 
Questa scelta d’espansione del debito pubblico, di facilitazione esasperata del 
credito e d’atteggiamento di benevola noncuranza verso il tasso di cambio del 
dollaro, se permise di evitare il precipitare della crisi e di salvare 
l’industria, perpetuò le condizioni di sovrapproduzione e non aprì la strada ad 
una nuova ripresa dei profitti e dell’accumulazione. Anzi fece accelerare 
l’inflazione. Quest’ultima si originava dal fatto che in un contesto di 
sovrapproduzione, in cui quindi non c’è spazio per una reale ripresa 
dell’accumulazione, se si cerca di sostenere la riproduzione del capitale 
iniettando denaro (ormai sganciato da ogni riferimento alla merce-denaro oro e 
quindi puro segno di credito) nella circolazione, si mantiene artificiosamente 
in piedi il finanziamento ad una produzione senza sbocchi reali. Quel denaro non 
corrisponderà così a reali transazioni: si verifica uno scarto tra il valore 
anticipato dai segni di credito emessi e circolanti come denaro e il valore 
globale delle merci in circolazione. Il denaro circolante rappresenterà di 
conseguenza una quantità di valore minore, si svalorizzerà. E’ così che la crisi 
prese negli anni ’70 la forma di una stagnazione accompagnata da forte 
inflazione (la famosa stagflazione). 
La crescita dei prezzi delle materie prime e l’indisponibilità dei lavoratori a 
farsi decurtare i salari resero poi il processo inflazionistico ancor più 
virulento, pur non essendone queste le cause scatenanti.
L’artificiosità e precarietà dell’accumulazione del capitale americano si 
riflesse infine pesantemente sul dollaro. 
A fine anni ’70 la costante svalutazione del dollaro, ormai moneta creditizia 
anche sul piano internazionale il cui valore si determina sul mercato valutario, 
portò addirittura ad un seppur limitato ritorno in auge dell’oro e a forme di 
baratto negli scambi internazionali. E ciò in un contesto in cui, anche se 
ancora nessun altra moneta era in grado di sostituirsi al dollaro, stavano 
emergendo nuove potenze economiche (Germania e Giappone) in grado di contrastare 
l’egemonia assoluta americana.
Così quando nel ’79 l’inflazione americana raggiunse il 13% e il dollaro subì 
pericolosi attacchi speculativi, fu necessaria una svolta nella gestione della 
crisi. Era ormai necessario intervenire drasticamente sul processo 
inflazionistico interno e sulle sue cause, sia perché si stava ormai 
autoalimentando con forti rischi per le stesse imprese produttive, sia per 
salvare il predominio del dollaro ricercando un’inversione alla sua costante 
svalutazione.
| 
       Grafico 1 - USA: produttività del capitale 1870-1987 
 | 
| 
       Grafico 2 - USA: saggio di profitto 1870-2000 
 | 
| 
       
 Grafico 3 - USA: intensità del capitale 1870-1995 Rapporto capitale-lavoro (dollaro del 1996 per ore lavorate) 
 | 
| 
       
 Tabella 1 - USA: tasso di profitto - intensità di capitale - produttività del capitale r è il tasso di profitto; K/L il rapporto capitale-lavoro; Y/K la produttività del capitale; w il salario reale. i tassi sono calcolati con la regressione del logaritmo della variabile nel tempo. 
 | 
ANNI ’80: LA SVOLTA NELLA GESTIONE DELLA CRISI
La svolta si avviò con una dura stretta monetaria (rialzo del tasso d’interesse 
ufficiale della FED), attraverso quindi il rifiuto di continuare a venire in 
soccorso dei problemi finanziari delle banche, dovuti a loro volta alle 
richieste di finanziamento da parte delle imprese, sempre più indebitate. Scopo 
della stretta monetaria fu, in primis, dare avvio ad una profonda 
ristrutturazione del processo produttivo al fine di ristabilire un adeguato 
saggio di profitto. La restrizione del credito funge infatti da forte pressione 
sulle imprese indebitate, costringendole a ristrutturazioni. Lo spiegò bene 
Ciampi, allora presidente della Banca d’Italia, qualche anno dopo: a causa della 
svolta della politica monetaria (che dagli USA si estese in Europa) “le 
strategie aziendali, d’investimento e di riorganizzazione interna, dovettero 
volgersi all’aumento della produttività e a una linea di resistenza di fronte 
alla spinta dei costi… Il mutato atteggiamento della politica monetaria e del 
cambio ha agito sui comportamenti dei lavoratori dipendenti attraverso le 
imprese, ma anche direttamente.” A quest’ultimo riguardo, infatti, uno degli 
obiettivi immediati della stretta fu la ricostituzione di un consistente 
esercito industriale di riserva, sia per accrescere il saggio di sfruttamento, 
sia per colpire il nucleo centrale di classe operaia, attore delle lotte degli 
anni ‘60/’70. Detto con le parole di Alan Budd, consulente della Thatcher, “per 
usare una terminologia marxista, quella che si era progettata era una crisi 
capitalistica che, ricostituendo un esercito di forza lavoro di riserva, ha 
consentito da allora in poi ai capitalisti di realizzare alti profitti”.
La svolta dell’80 non fu dunque frutto di una scelta di tipo ideologico, di 
stampo “neoliberista” o “monetarista” che dir si voglia…, ma di una risposta 
alle difficoltà strutturali di valorizzazione del capitale, che le politiche 
Keynesiane non erano state in grado di risolvere.
E tanto poco c’entrava l’ideologia, che appena la stretta del credito riuscì ad 
eliminare parte delle imprese inefficienti (e quindi del capitale in eccesso), e 
a generare un significativo esercito industriale di riserva (tra l’80 e l’82 
l’occupazione operaia calò del 12% e la disoccupazione arrivò all’11%), e appena 
l’inflazione fu riportata sotto controllo (nell’83 era al 3,2%) e il dollaro si 
rivalutò…di fronte al rischio di un aggravamento della crisi, gli USA optarono 
(nell’84) per una sua gestione ancora una volta fondata fortemente sul credito e 
su una politica fiscale espansiva, che si tradusse in una impennata della spesa 
militare, oltre che in una riduzione delle tasse per le imprese e i ceti più 
ricchi.
Volano della ripresa fu la trasformazione degli USA in “camera di compensazione 
finanziaria a livello mondiale” ciò che permise di affrontare il declino 
dell’economia americana con un’inversione del flusso di capitali internazionali 
verso gli USA, che da creditori diventarono così “la principale nazione 
debitrice e pozzo di liquidità”. 
Nei primi anni 80 in USA e GB fu avviata una ristrutturazione dei sistemi 
finanziari (estesasi nel corso del decennio agli altri paesi capitalistici), 
fondata su una liberalizzazione e deregolamentazione dei mercati dei capitali da 
prestito sul piano interno e su di una loro apertura a livello internazionale, 
tesa a realizzare in prospettiva un mercato dei capitali da prestito globale. Da 
qui prese avvio la cosiddetta “globalizzazione finanziaria”.
La pletora di capitali non investiti nella produzione per il basso tasso di 
profitto, che negli anni 70 si erano riversati nei “paesi in via di sviluppo” 
furono attratti ora, dagli alti tassi d’interesse e dalla liberalizzazione del 
movimento dei capitali, in USA, dove furono investiti anzitutto su titoli del 
tesoro. Così fu possibile innescare un finanziamento non inflazionistico del 
debito, al contrario di quanto era successo negli anni precedenti in cui era 
stata la FED a finanziarlo attraverso l’emissione di nuova moneta. Scopo 
immediato della ristrutturazione finanziaria fu un rilancio della spesa 
pubblica, in primis di quella militare, finalizzata a sostenere ed orientare la 
ristrutturazione del sistema produttivo e la riconversione dell’industria 
americana dal siderurgico, tessile, chimico, ai settori ad alta tecnologia 
(militare, elettronica). 
D’altra parte, più in generale, la ristrutturazione finanziaria favorì lo 
sviluppo della finanza di mercato, a discapito delle tradizionali operazioni 
bancarie, e la nascita di nuovi intermediari finanziari oltre alle banche 
ordinarie: nuovi mercati (es. derivati) e nuovi attori (fondi, ecc…) che si 
sottraggono ad ogni forma organizzata di controllo. Ciò allo scopo di favorire 
il finanziamento delle imprese attraverso titoli, azioni, ecc… piuttosto che 
attraverso la tradizionale mediazione delle banche. In una fase di debolezza del 
sistema bancario (colpito dalla crisi americana e da quella dei “paesi in via di 
sviluppo”) il sistema di credito attraverso il canale della “finanza diretta” 
permise una maggiore ripartizione dei rischi dell’investimento finanziario 
rispetto alle banche e quindi facilitò i prestiti, seppur più volatili ed 
esigenti rispetto ai crediti bancari. Si rese possibile anche la mobilitazione 
di un risparmio maggiore con rendimenti alti rispetto ai depositi bancari, un 
risparmio che altrimenti sarebbe rimasto inutilizzato come capitale. Si mise 
quindi a disposizione dei capitali industriali più forti tutto il capitale 
disponibile e potenziale della società, permettendo investimenti altrimenti 
impossibili per i singoli capitalisti e un’estensione della scala di produzione 
in funzione di una crescita della produttività più elevata.
Sempre a tale scopo e alla ricerca di nuovi sbocchi di mercato, le maggiori 
imprese approfittarono dell’emergente mercato globale dei capitali da prestito 
per mettere in moto un portentoso processo di centralizzazione di capitali su 
scala internazionale, riscontrabile nella crescita degli investimenti diretti 
all’estero (IDE) intratriadici (cioè interni alla triade Usa, Europa e Giappone) 
nel corso degli anni 80.
Le imprese maggiori e più efficienti furono quindi messe nelle condizioni di 
finanziare la ristrutturazione necessaria, incentrata sull’automatizzazione dei 
processi produttivi. Quest’ultima si caratterizzò per un graduale passaggio da 
una forma d’automazione tecnocratico-rigida (fordista) ad una di automazione 
flessibile, finalizzata ad una maggiore integrazione dei processi produttivi 
tesa ad ottenere economie di capitale circolante e riduzione dei tempi di 
produzione. L’aumento della produttività più che attraverso una nuova 
organizzazione del lavoro, legata ancora al modello taylorista, fu cercata, 
soprattutto col taglio dei posti di lavoro e l’efficienza dei nuovi macchinari: 
la riduzione dell’importanza dell’iniziativa operaia era infatti uno degli scopi 
immediati della ristrutturazione tecnologica.
L’automazione flessibile permetteva anche la produzione di merci differenti su 
una stessa linea di produzione, e quindi di immettere sempre nuovi prodotti nei 
settori di mercato ancora non concorrenziali. Si accelerano così in questa fase 
innovazioni del processo e dei prodotti, alla ricerca di fonti di 
sovrapprofitto.
Al di là del breve periodo però questo processo innovativo, a causa della 
reazione dei concorrenti, produsse vere e proprie guerre dei prezzi; e ciò 
proprio quando il costo del macchinario si accresceva molto con l’automazione 
flessibile. Come sostenne Daid nel 1986 “allo stato attuale della tecnologia dei 
robot i costi fissi sono considerevoli in rapporto al risparmio netto realizzato 
sui costi totali, cosicché l’introduzione dei robot è redditizia solo a partire 
da una certa scala di produzione”…di qui l’accelerazione dei processi di 
centralizzazione e la ricerca affannosa di nuovi mercati invadendo gli altri 
poli capitalistici.
Nel corso degli anni ’80 l’intensità di capitale crebbe del 22%. Leggermente 
meno rispetto al 24% degli anni ’70, ciò che si riflesse in una lieve crescita 
della produttività del capitale e del saggio di profitto. Quest’ultima, peraltro 
precaria, fu comunque il risultato soprattutto della crescita del saggio di 
sfruttamento, con una riduzione della massa salariale e un nuovo controllo della 
forza lavoro all’interno del processo produttivo, sulla spinta della crescita 
dell’esercito industriale di riserva.
Negli anni ’80 in USA la paga oraria diminuì del 4,9% per l’80% della forza 
lavoro, e si persero due-tre giorni di ferie l’anno pro capite. Anche la 
revisione del welfare favorì questi processi: esso fu attaccato in quanto “mina 
l’autoregolazione del mercato del lavoro, tenendo alti i salari, perché 
scoraggia i disoccupati sussidiati ad accettare salari bassi e premere sugli 
occupati” (Sole 24 ore).
La crescita della produttività del lavoro fu comunque bassa, a causa della 
vecchia organizzazione del lavoro che non permetteva una crescita sostanziale 
dell’intensità del lavoro. In ogni caso la crescita del tasso di sfruttamento 
non riuscì a controbilanciare i costi crescenti dell’automazione, tanto che sul 
finire del decennio questa realtà di “crescente immobilizzazione in alta 
tecnologia e capitale fisso” disincentivava sempre più gli investimenti 
nell’industria e bloccava ancora l’accumulazione ad un livello basso; 
l’indebitamento delle imprese riprese così a crescere.
D’altra parte il venir meno del controllo delle grandi imprese sui rispettivi 
mercati nazionali, data la concentrazione e reciproca invasione sui medesimi 
mercati (USA ed europeo) in un contesto di forte competizione, chiuse 
progressivamente l’unica valvola di sfogo per una produzione di massa sempre più 
estesa.
Anche il rafforzamento del sistema finanziario americano e quindi del dollaro, 
che si rivalutò del 40% nella prima metà degli anni ’80, rappresentò un problema 
per l’industria americana e le sue esportazioni.
D’altra parte, l’accordo di Plaza del 1985, con Germania e Giappone, per una 
svalutazione controllata del dollaro, oltre a non intaccare più di tanto il 
deficit estero, a fronte di una crescita del debito pubblico ed estero (definiti 
“debiti gemelli” in quanto risultato della strategia messa in piedi per attirare 
capitali esteri a sostegno del debito pubblico), aprì una nuova contraddizione, 
mettendo nuovamente a rischio il dollaro nella sua funzione di denaro mondiale.
Questa crescente debolezza dell’economia americana, portò al crollo di Wall 
Strett dell’87 (che perse il 17% in un solo giorno!), che viene ricordato come 
il primo della nuova era finanziaria.
Le difficoltà nell’investimento produttivo, sempre più costoso e rischioso, che 
avevano fatto crescere la pletora di capitale inattivo, e le nuove opportunità 
offerte dalla ristrutturazione finanziaria, avevano infatti fatto crescere 
l’investimento di tipo finanziario e speculativo. Di fronte ai primi segnali che 
ingeneravano sfiducia sul futuro della crescita dell’accumulazione e con essa 
sul dollaro, le forme feticistiche del capitale denaro, il capitale fittizio, 
crollarono. La crisi di Wall Strett fu di breve durata e non ebbe effetti 
sull’economia reale solo per l’intervento massiccio e inedito della FED.
La crisi dell’economia reale si manifestò comunque pochi anni dopo (nel 90), 
quando le contraddizioni di fondo che si sono viste all’opera si manifestarono 
con una ripresa dell’inflazione. Infatti l’immissione di liquidità da parte 
delle banche centrali dopo la crisi delle borse del 1987 aveva fatto scendere i 
tassi d’interesse alimentando così il credito alle imprese e quindi la crescita 
della produzione, che nei paesi OCSE crebbe nel 1988 ad un ritmo del 4,4%. 
Questo meccanismo, che già abbiamo visto all’opera, fece fare un balzo 
all’inflazione che dal 3% della prima parte del 1988 arrivò al 4,2% nel marzo 
1989 e al 5,5% solo due mesi dopo. In questo contesto la FED reagì con una nuova 
stretta monetaria che avviò una nuova fase di intensa crisi e ristrutturazione.
A fine anni 80 dunque l’egemonia assoluta degli USA sul piano economico era di 
nuovo a rischio. Ma non lo era solo per le contraddizioni interne al proprio 
sistema produttivo; in questo decennio, infatti, nonostante l’uso aggressivo del 
dollaro, la competizione con Germania e Giappone si era accentuata. Questi 
ultimi non erano rimasti fermi e avevano affrontato la sfida americana. Attorno 
alla Germania si era formato lo SME (sistema monetario europeo) col fine sia di 
ridistribuire su più valute ed economie gli oneri delle svalutazioni e 
rivalutazioni del dollaro, sia, soprattutto, di imporre la “disciplina tedesca” 
al resto dell’Europa, con un cambiamento di politica economica tesa a 
costringere le imprese ad una razionalizzazione e ristrutturazione del sistema 
produttivo, che effettivamente fu attuata fin dai primi anni 80, insieme ad una 
crescita della disoccupazione.
Nell’85/87 si avviò anche il completamento del mercato unico europeo, che 
metteva in moto l’apertura del mercato dei capitali e un intenso processo di 
centralizzazione per rafforzare le imprese europee.
In Giappone, d’altra parte, si era messa in atto una crescita della 
competitività delle imprese attraverso un modello d’organizzazione della 
produzione, detto toyotista, in grado di ottenere ciò che il modello taylorista 
non soddisfaceva più: cioè la possibilità di raggiungere un maggior grado di 
sfruttamento con mezzi non costosi per il capitale. La crescita della 
produttività non era più cercata solo attraverso nuovi sistemi di macchine ed 
eliminazione di forza lavoro occupata, ma con una nuova organizzazione del 
lavoro flessibile, il just in time e il subappalto. Non si abbandonava la via 
delle innovazioni e dell’automazione flessibile, ma ci si pose il problema di 
far fronte ai suoi costi, attraverso nuovi principi organizzativi che favorivano 
in primis una crescita del grado di sfruttamento attraverso una più elevata 
intensità e durata del lavoro, legati ad un maggior controllo e ad un utilizzo 
più flessibile della forza lavoro nel processo produttivo. Il just in time viene 
applicato anche all’esterno della grande impresa, nei rapporti con i fornitori 
in subappalto, costringendo le imprese subappaltatrici ad una continua 
razionalizzazione dell’attività lavorativa e della gestione della produzione, 
con un feroce sistema di incentivi.
Nella crisi del 90 questo modello fu importato dalle imprese degli altri paesi 
capitalisti, riadattandolo al loro contesto.
In USA si parlò di “reengineering”, di ridisegno globale dei processi 
produttivi. Nella crisi dei primi anni 90 questo modello s’impose passando per 
un intenso processo di “dimagrimento” delle imprese (di riduzione cioè delle 
attività e del numero di dipendenti) e la ricerca della massima insicurezza del 
posto di lavoro. Si crearono così le condizioni per una ripresa degli 
investimenti industriali: si aprì “una fase di sviluppo largamente incentrata su 
applicazioni dell’informatica nell’industria, commercio, servizi”…sfruttando a 
tal fine anche i risultati della spesa militare degli anni 80: “la spesa 
pubblica per la difesa è stata il principale veicolo di propulsione nei settori 
dell’elettronica, informatica e TLC” (Fazio, Banca d’Italia).
ANNI 90: LA PRECARIA RIPRESA DEL SAGGIO DI PROFITTO
Ciò che caratterizzò gli anni 90 in USA fu una forte ripresa dell’accumulazione 
fondata su investimenti in nuove tecnologie infotelematiche, allo scopo di 
accrescere la produttività e ottenere una ripresa del saggio di profitto, oltre 
che, più in generale, di rilanciare la competitività delle imprese americane.
Così, secondo la Banca d’Italia, “negli anni 90 l’incremento medio degli 
investimenti nel settore privato ha sfiorato il 6%, valore più che doppio 
rispetto a quello registrato nel decennio precedente; gli investimenti in 
macchinari e mezzi di trasporto sono cresciuti in media dell’8%. All’interno di 
questo comparto, le spese per attrezzature informatiche hanno segnato un aumento 
medio annuo quasi del 20%; la loro quota sul complesso degli investimenti 
privati sfiora il 30%, era del 9% all’inizio degli anni 80, allorché prese avvio 
il profondo processo di ristrutturazione dell’economia”…”Il processo di 
sostituzione di beni capitali tradizionali con quelli TIC (tecnologie 
dell’informazione e comunicazione)…si è fortemente intensificato negli anni 90 
interessando la generalità dei settori manifatturiero e dei servizi”.
L’introduzione dei computer nella produzione di beni e servizi e internet furono 
le basi della rivoluzione tecnologica degli anni 90: i calcolatori, in 
particolare i PC, nella prima metà degli anni 90, i server e la messa in rete 
dei PC, nella seconda metà.
Così Greenspan (allora presidente della FED) nel 99 riassumeva il ruolo e gli 
effetti di questa rivoluzione tecnologica: “il progresso nella disponibilità di 
informazioni, ha permesso di eliminare gran parte delle scorte e delle riserve 
di manodopera. Il collegamento tra centri di produzione e di vendita ha 
consentito la riduzione nei tempi di consegna…e ciò ha diminuito la quantità di 
capitale richiesto per produrre beni e servizi. I processi d’intermediazione 
nella produzione e nella distribuzione si vanno riducendo e in qualche caso sono 
eliminati”. L’innovazione investe dunque la sfera della produzione e della 
distribuzione riducendo fortemente i tempi di circolazione del capitale. Ma 
soprattutto s’impenna la crescita della produttività. Secondo la Banca d’Italia 
“nel periodo 1996/2000 il tasso di crescita annuo della produttività oraria del 
lavoro nel settore privato non agricolo salì al 2,5%, dall’1,4% nella media del 
periodo 1973/1995”. In particolare, nel comparto manifatturiero crebbe del 4,4% 
nella seconda parte degli anni 90 (del 4% nella prima metà) rispetto al 2,5% del 
periodo 73/91. Nei servizi crebbe dopo il 1995 dell’1,5% l’anno, rispetto allo 
0,8% dei due decenni precedenti.
Ma alla base di questo balzo della produttività non ci furono solo le nuove 
tecnologie. Come sostenne Fazio, “con le nuove tecnologie sono state 
riorganizzate le attività aziendali con guadagni di efficienza nell’utilizzo del 
lavoro e in quello degli impianti. E’ stata fondamentale, in tale progresso, la 
possibilità di impiegare la mano d’opera con criteri di elevata flessibilità”. 
Da parte sua la BCE (Banca Centrale Europea) in un suo studio rilevava che “il 
maggior dinamismo dell’economia americana in questo decennio sarebbe dovuto non 
tanto ai maggiori investimenti, quanto al fattore lavoro, in particolare al 
maggior numero di ore lavorate”.
Difatti la ripresa dell’accumulazione negli anni 90 fu caratterizzata da una 
forte crescita del saggio di sfruttamento, che, come ammetteva il Sole 24 ore 
“finanziò, di fatto, gli investimenti tecnologici”.
In particolare, a questo proposito, si manifestarono in questi anni tre fenomeni 
strettamente connessi tra loro: la formazione di un articolato ed efficiente 
esercito industriale di riserva, la stagnazione dei salari e “il fenomeno delle 
lunghe ore di lavoro” (Sole 24 ore).
Anzitutto nel decennio vi fu un afflusso di circa tredici milioni d’immigrati e 
quindi di forza lavoro in più. Come scrisse Colajanni “l’espansione 
dell’occupazione americana si è realizzata attraverso la riduzione dei salari 
reali e l’utilizzazione di forza lavoro non qualificata, in buona parte 
proveniente dall’immigrazione”. Così se dal ‘91 al ‘99 si ebbero 19 milioni di 
posti di lavoro in più, l’occupazione crebbe nel lavoro precario e non 
garantito: tra il 90 e il 95 gli occupati a tempo pieno crebbero del 3%, quelli 
a tempo parziale del 15%; a fine anni 90 gli impieghi precari erano un terzo del 
totale, rispetto a un quarto negli anni 80. L’occupazione poi crebbe soprattutto 
nei servizi: tre quarti della crescita nel commercio al dettaglio e “altri 
servizi” in un contesto di minori garanzie, bassi salari e precarietà.
Nei settori industriali la ristrutturazione non si limitò al periodo della crisi 
del 90/91, ma diventa permanente: nel 94, quando ormai i profitti si erano 
ripresi, i posti di lavoro persi erano uguali al 91. Così prevalse una generale 
crescita dell’insicurezza del posto di lavoro. Negli anni 90 un lavoratore su 
venti aveva perso il posto, a fronte di uno su venticinque negli anni 80; così 
se nel 91 il 25% dei lavoratori temeva di perdere il posto di lavoro, nel 96 era 
il 46%, malgrado il tasso di disoccupazione più basso. Lo stesso Greenspan, nel 
97, ammetteva che “ l’aumento dei salari è stato nettamente inferiore di quanto 
le relazioni storiche con le condizioni del mercato del lavoro avrebbero fatto 
prevedere (con un tasso di disoccupazione al 5-6% ci si sarebbe cioè aspettato 
una maggiore crescita dei salari). Un contenimento attivo nell’aumento delle 
retribuzioni è stato evidente da qualche anno a questa parte e sembra essere 
principalmente conseguenza dell’insicurezza dell’occupazione”; e in un altro 
intervento specificava che “ tale insicurezza è dovuta principalmente alla 
rapida evoluzione delle tecnologie. I mutamenti tecnologici hanno dato un 
importante impulso alle ristrutturazioni aziendali”.
Vi fu poi l’intervento dello Stato che con la riforma del welfare di metà anni 
90 abbassò la soglia di sicurezza garantita, costringendo gli ex assistiti ad 
accettare lavori con salari molto bassi e ad esercitare pressione “sui 38 
milioni di lavoratori poveri occupati”.
Così, in presenza di questo composito esercito industriale di riserva, 
comprendente oltre la forza lavoro immigrata un insieme di figure di lavoro 
precario e rafforzato dalla insicurezza del posto di lavoro generata dalla 
ristrutturazione permanente nell’industria,…a fine anni 90 i salari erano sotto 
il livello del 1973: in dollari costanti del 1982, la paga oraria media nel 
settore privato era nel 1973 di 8,54 dollari, nel 93 di 7,39, nel 99 di 7,86.
La riduzione dei salari spiega infine il “fenomeno delle lunghe ore di lavoro”: 
per mantenere il livello di vita del 1973 i lavoratori americani dovevano 
lavorare sei settimane in più l’anno. Così dalle 1882 ore annue lavorative del 
1983 si passò alle 1952 del 1995, alle 1966 del 1997. Solo tra il 93 e il 99 le 
ore annue lavorative aumentarono in media di 50 unità.
Sempre allo scopo di una ripresa del saggio di profitto, le imprese americane 
misero in atto in questo decennio anche un’altra strategia: 
l’internazionalizzazione della produzione. A fine anni 90 un terzo dei profitti 
delle imprese americane veniva dalle loro filiali all’estero. 
Gli investimenti diretti all’estero (IDE) americani presero due vie. La prima fu 
finalizzata alla ricerca di un maggior saggio di sfruttamento, dovuto sia alla 
più elevata intensità e durata del lavoro che ai livelli salariali più bassi, a 
fronte di una tecnologia e quindi di una produttività non molto distante da 
quella americana, che era possibile trovare nei paesi di nuova 
industrializzazione, quali il Messico (con cui viene avviato col NAFTA un 
processo di integrazione regionale) e, soprattutto, i paesi dell’Est Asiatico 
(Cina, Corea, ASEAN); un’area quest’ultima in cui le multinazionali americane 
trasformano e assemblano prodotti che poi vengono venduti in USA (più del 20% 
delle esportazioni di Cina, Corea, Filippine, era diretta in USA).
Come rilevò Greenspan “ci troviamo di fronte ad un 
fenomeno di outsourcing sempre più esteso a livello globale. Ciò che ci si 
aspetterebbe di vedere, e sta effettivamente accadendo, è la combinazione di un 
accrescimento del rendimento del capitale e della diminuzione del costo unitario 
della forza lavoro”.
Il secondo tipo di IDE era legato alla ricerca di una maggior scala di 
produzione e allo sfruttamento di nuovi mercati. Questi IDE erano originati 
dalla necessità da parte delle grandi imprese di accrescere la dimensione 
dell’attività produttiva per far fronte ai costi della ristrutturazione 
tecnologica, e di trovare alla crescita della capacità produttiva uno sbocco di 
mercato adeguato penetrando nei mercati altrui. Sempre Greenspan, nel 97 
coglieva quest’aspetto dell’internazionalizzazione produttiva: “una quota 
crescente dell’attività produttiva compete sui mercati globali, permettendo 
quindi ai costi fissi di diffondersi in aree geografiche più vaste, promuovendo 
una maggior specializzazione ed efficienza…la possibilità di diversificare 
produzione e vendita in diversi continenti permette una riduzione dei costi 
unitari per le imprese e dunque sostiene i profitti”.
Questo tipo di IDE rappresenta in questa fase la percentuale più grande, ed è 
diretta per lo più verso gli altri poli della Triade, nel contesto di un più 
generale processo di centralizzazione del capitale a livello internazionale, 
interno alla Triade stessa.
Per sostenere il grande balzo dell’accumulazione degli anni 90 le imprese 
americane misero in atto anche un intenso processo di centralizzazione del 
capitale all’interno del loro stesso territorio. Le fusioni e acquisizioni sono 
state uno strumento essenziale del processo di ristrutturazione industriale. 
Come scrisse Deaglio, esse rispondevano “alla necessità di ridurre le spese 
fisse sotto l’assillo della concorrenza e di raggiungere una massa critica 
finanziaria per poter effettuare determinati investimenti”. L’introduzione delle 
nuove tecnologie risultava infatti redditizia per le imprese solo a partire da 
una certa dimensione, necessaria per ottenere economie di scala e “far fronte 
alle crescenti immobilizzazioni in alta tecnologia e capitale fisso”. Come 
scrisse Y. Doz “ le trasformazioni delle tecnologie di prodotto e di processo 
hanno accresciuto la dimensione minima di efficienza produttiva in settori come 
l’auto, la chimica, l’elettronica di consumo,i semiconduttori, gli impianti 
industriali”, cioè nei settori a più alta intensità di capitale.
Questo processo di centralizzazione delle imprese americane fu favorito, 
soprattutto nella seconda metà degli anni 90, da una crescita delle operazioni 
effettuate da imprese estere nei confronti d’imprese statunitensi. Nel 95, con 
la rivalutazione del dollaro concordata con Germania e Giappone, fu stimolato 
l’afflusso di capitali esteri. E proprio la rivalutazione del dollaro fu una 
delle cause scatenanti della crisi asiatica del 97, che generò una fuga di 
capitali da quell’area, orientandoli ancor più verso gli USA, dove finanziarono 
il boom degli investimenti di fine anni 90. Si è sostenuto così che il dollaro 
forte, insieme alla differenza dei tassi d’interesse americani e al più alto 
saggio di profitto (soprattutto rispetto a quello europeo), sia stato “uno dei 
principali motori dell’accumulazione americana”. In ogni caso l’accelerazione 
del processo d’accumulazione fu in gran parte finanziato, e quindi reso 
possibile, dall’ondata di IDE e di investimenti finanziari (in azioni e 
obbligazioni privati) in USA, per lo più provenienti dall’Europa (il Giappone 
investì soprattutto in titoli di Stato).
Più in generale, a fine anni 90 gli USA si accaparravano l’80% del risparmio 
mondiale, che finanziò il 40% dell’aumento dello stock di capitale americano. E 
se nel 95 il denaro straniero rappresentava solo l’8% degli investimenti totali 
americani (residenziali e aziendali), nel 99, arrivò al 25%.
Un fondamentale contributo a tali processi lo dette la nuova struttura del 
sistema finanziario USA.
Se la deregulation dei mercati finanziari e la promozione della libera 
circolazione dei capitali avviate negli anni 80 furono alla base dei processi di 
centralizzazione internazionale, consentendo agli USA di attingere al risparmio 
mondiale, sul piano interno negli anni 90 la ristrutturazione finanziaria 
fondata sulla finanza diretta favorì il crescente bisogno del sostegno delle 
istituzioni che centralizzano il capitale denaro (oltre alle banche, i Fondi 
comuni, i Fondi pensioni…) da parte del capitale industriale, per far fronte 
alla ristrutturazione permanente, con i suoi costi sempre più grandi in 
investimenti.
La politica monetaria della FED sostenne attivamente questi processi. Anzitutto 
con una politica che, a parte piccoli rialzi dei tassi a fine 96 inizio 97, fu 
espansiva. In secondo luogo favorendo il proseguimento del processo di 
deregolamentazione del sistema finanziario e quindi l’espansione del credito. La 
FED si mosse così basandosi sulla valutazione (come risulta chiaro anche dalle 
parole citate da Greenspan) che il crescente saggio di sfruttamento avrebbe 
tenuto a freno, almeno temporaneamente, le contraddizioni che la crescita della 
accumulazione portava con sé e quindi i potenziali effetti inflazionistici di 
una accelerazione artificiale di quest’ultima attraverso una politica monetaria 
e creditizia espansiva.
Questa politica favorì anzitutto l’indebitamento crescente delle imprese, 
tenendo basso il costo finanziario degli investimenti. La crescita 
dell’indebitamento delle imprese fu vorticosa: escluso il comparto finanziario, 
l’indebitamento delle aziende americane crebbe del 61% dal 95 al 2000. In 
secondo luogo la politica della FED permise anche l’indebitamento delle 
famiglie, al fine di sostenere il consumo e dare sbocco alla sovracapacità 
produttiva generata dalla crescita della produttività e dell’accumulazione. 
Vista la stagnazione dei salari e una crescita dell’occupazione limitata ai 
settori a bassi salari, solo il finanziamento artificioso del ceto medio-alto ha 
permesso di allungare i tempi in cui la sovracapacità produttiva si è 
manifestata. In particolare, la crescita della domanda della parte della 
popolazione a reddito più alto fu favorita da un “effetto ricchezza” legato 
all’aumento di ricchezza (di carta) mobiliare (azioni…) e quindi alle quotazioni 
di borsa. Si consumava più reddito perché cresceva la “ricchezza” finanziaria, 
virtuale! L’arricchimento in borsa permetteva di indebitarsi, aumentando i 
consumi a credito. Un consumo quindi drogato dalla crescita della borsa e dei 
redditi finanziari.
Dato questo crescente indebitamento d’imprese e famiglie la politica monetaria 
accomodante a fine anni 90 diventò sempre più decisiva e necessaria non solo per 
sostenere consumo e investimenti, ma per la stessa stabilità del sistema 
finanziario e bancario.
L’accresciuta attenzione della FED ai destini della Borsa, insieme all’afflusso 
di denaro da parte di capitali esteri e Fondi in Borsa, determinarono un 
crescente sviluppo del capitale fittizio e della speculazione, e l’eccezionale 
ascesa dei prezzi delle azioni (la bolla di Wall Street) di fine anni 90.
D’altra parte il forte indebitamento accentuò lo squilibrio della bilancia 
commerciale, visto che il consumo si rivolse in maniera crescente anche alle 
merci importate. E l’indebitamento di famiglie e imprese (e quindi i consumi e 
gli investimenti) fu finanziato facendo arrivare, come si è visto, risorse 
dall’estero. Così a fine anni 90 il deficit estero era al 5% del PIL e il debito 
estero al 20% del PIL (2000 miliardi di dollari). E’ stato possibile questo 
livello d’indebitamento solo perché, grazie al ruolo del dollaro quale valuta di 
cui sono composte le riserve mondiali, il debito estero americano è denominato 
nella valuta nazionale. Si tratta di un credito gratuito di cui finora godono 
solo gli USA. Le attività denominate in dollari (riserve delle Banche Centrali 
estere, depositi bancari stranieri in USA, titoli di Stato detenuti all’estero) 
costituiscono infatti sia la base monetaria dei traffici mondiali che il debito 
americano. Finché i fornitori esteri dell’economia americana accettano il 
dollaro, gli USA non devono reperire esternamente i mezzi finanziari per le loro 
spese estere: così gli USA possono finanziare i disavanzi commerciali senza 
rispettare il vincolo finanziario. In ultima analisi dunque il ruolo del dollaro 
come denaro mondiale ha giocato un ruolo decisivo in tutta questa fase di 
ripresa economica in USA.
Il risultato di questo rilancio del processo d’accumulazione del capitale 
americano, spinto da questo insieme di fattori, si manifestò sin da metà anni 
90, in cui i profitti tornarono finalmente ad un livello vicino a quello degli 
anni d’oro, cioè all’8,4% del PIL; e a fine anni 90 il saggio di profitto era 
cresciuto del 10% rispetto ai valori di inizio decennio.
Nel 97 si ebbe però una svolta: il saggio di profitto cadde, preannunciando la 
crisi poi esplosa nel 2000.
Si tratta ora di vedere il perché di questa svolta.
2000: LA CRISI DELLA “NEW ECONOMY”
L’accelerazione progressiva del processo d’accumulazione delle imprese 
americane, sostenuta artificialmente dal credito, è stata finalizzata, come si è 
visto, ad una crescita continua della produttività del lavoro, nel quadro di una 
lotta dei singoli capitali per la sopravvivenza, all’interno di una 
acutizzazione della concorrenza interna e intratriadica, in un contesto in cui “ 
a fronte dell’incremento delle dimensioni minime di investimenti, chi non può 
permettersi tali investimenti è escluso e anche chi non riesce a distribuire i 
volumi generati dalle innovazioni rapidamente e in tutto il mondo”. Alla base di 
questa sfrenata competizione stavano le difficoltà di valorizzazione, per gli 
alti costi fissi e la sovracapacità produttiva, quindi la sovrapproduzione di 
capitale irrisolta dato il tipo di gestione della crisi scelta. Le soluzioni 
cercate a queste difficoltà non potevano però che renderle ancor più acute. Con 
la crescita dell’accumulazione infatti sono venuti alla luce i suoi costi non 
solo per i singoli capitali, ma per il capitale sociale nel suo insieme.
Vediamo cosa accadde.
I fattori determinanti nella crescita della produttività del lavoro negli anni 
90 sono stati fondamentalmente due.
Una parte è stata generata dai cambiamenti nell’organizzazione della produzione, 
cioè “dalla migliore combinazione dei fattori produttivi, capitale e lavoro, 
resa possibile dalla digitalizzazione”; quindi “dalla maggiore efficienza del 
processo di produzione e dalla riorganizzazione delle imprese”, nonché, come la 
stessa BCE aveva rilevato, dalla crescita della intensità e durata del lavoro. 
Tutti elementi questi che non hanno richiesto un costo per il capitale.
Ma l’altro fattore determinante nella crescita della produttività è stata la 
crescita “dell’intensità di capitale” e quindi la sostituzione di macchinari a 
lavoro: e questo fattore non è affatto gratuito per il capitale.
Come si è visto, per ottenere guadagni di produttività sempre più forti si è 
investito molto e progressivamente sempre di più, soprattutto in nuove 
tecnologie infotelematiche. La crescita dell’intensità di capitale che quest’ondata 
d’investimenti ha implicato, era stata favorita dal ribasso del prezzo relativo 
dell’investimento, dovuto alla crescita della produttività negli stessi settori 
che producevano nuovi macchinari: in particolare, il prezzo relativo dei 
computer cadde del 20% l’anno dal 92 al 94 e del 35% l’anno dal 95 al 98. Per 
l’insieme delle TLC il ribasso fu del 6-7% l’anno dal 91 al 94 e del 12-13% 
l’anno dal 95 al 98 (P. Artus).
La crescita di più di cinque punti del tasso d’investimento in volume dal 92 al 
2000 ha corrisposto così ad una crescita di tre punti del tasso d’investimento 
in valore. La forte svalorizzazione del capitale speso in macchinari informatici 
ha fatto quindi si che per tutta una fase della ripresa dell’accumulazione negli 
anni 90, la quantità di capitale fisso, cioè il valore del macchinario, in 
rapporto al prodotto non sia aumentata (quindi la produttività del capitale non 
si è ridotta) nonostante i massicci investimenti in volume.
La svalutazione del capitale speso in macchinari ha dato dunque un sostanziale 
contributo al fatto che il peso, in termini di costi per il capitale, della 
crescita dell’intensità di capitale, non si sia manifestato subito, favorendo 
così l’accumulazione per una buona parte degli anni 90.
D’altra parte, nel corso del decennio, spinte dalla costrizione della 
concorrenza, le imprese hanno intensificato oltre misura l’introduzione di nuove 
tecnologie e quindi la sostituzione di capitale fisso a lavoro.
Questa ondata d’investimenti ha implicato dei costi cresciuti molto rapidamente, 
finché il peso del macchinario si è infine accresciuto non solo in volume, ma 
anche in valore, ad un livello tale da generare una riduzione della produttività 
del capitale (vedi grafico 4).
Infatti, come già rilevava Marx, “il ribasso relativo dei costi dei mezzi di 
produzione determinato dalla crescita della produttività, non esclude che la 
somma assoluta del loro valore aumenti, poiché il saggio assoluto del loro 
impiego cresce enormemente con lo sviluppo della produttività stessa e con 
l’aumento, che vi si accompagna, della scala di produzione; la loro massa 
(volume) cioè cresce più rapidamente di quanto diminuisca il loro valore”.
Gli effetti dello sforzo d’investimenti tra il 95 e il 2001 sono riassunti in 
questi dati: il capitale produttivo è cresciuto in volume del 6% l’anno (il 3% 
negli anni 80); il rapporto capitale/ore lavorate è aumentato del 4% l’anno; la 
produttività del capitale è diminuita dell’1,75% l’anno.(P. Artus). In rapporto 
alla produzione è stato necessario sempre meno lavoro, ma ci sono volute sempre 
più macchine, con le conseguenze negative sul saggio di profitto che si 
manifestarono nel 97 (vedi grafico 5).
I costi della crescita dell’intensità del capitale non sono stati compensati dal 
contributo gratuito alla crescita della produttività dato dai miglioramenti 
nell’organizzazione della produzione e nella gestione delle imprese che le nuove 
tecnologie hanno permesso, né dalla crescita del saggio di sfruttamento dovuta 
all’aumento dell’intensità e durata del lavoro, che pure è stata, come si è 
visto, particolarmente significativa in USA negli anni 90.
D’altra parte vitale era dare uno sbocco alla “produzione di massa” frutto della 
crescita della produttività e della scala di produzione. Ma il consumo 
solvibile, per quanto sostenuto artificialmente, non era in grado di correre 
dietro alla crescita della capacità produttiva, della scala e dei volumi di 
produzione. Il tasso di utilizzo delle capacità produttive in USA non crebbe dal 
94. Ciò in un contesto di sovracapacità produttiva a livello mondiale in tutte 
le produzioni: “lo scarto tra produzione potenziale e consumo atteso era di 
circa un terzo”; il divario tra produzione effettiva e capacità produttiva era 
valutato quasi più grande che durante la grande depressione degli anni 30. E 
così anche il secondo classico ostacolo insito nella natura stessa del rapporto 
di capitale (strettamente connesso al primo) dette il suo contributo alla caduta 
del saggio di profitto.
Di fronte alla svolta nel saggio di profitto del 97, la FED decise di sostenere 
ancora artificialmente l’accumulazione con una politica monetaria espansiva tesa 
sia a facilitare ulteriormente il finanziamento delle imprese, riducendo il 
costo dei nuovi investimenti, sia a sostenere i consumi, permettendo così 
un’estensione dei volumi di produzione. Si favorì quindi una crescita ancor più 
vorticosa dell’indebitamento d’imprese e famiglie, che dissimulò gli squilibri 
maturati all’interno del processo d’accumulazione venuti alla luce nel 97. Ne 
seguì un nuovo boom degli investimenti in tecnologie informatiche, con 
conseguente crescita della produttività. Così si rese però ancor più acuta la 
crisi, che si manifestò infine chiaramente nel 2000, quando proprio gli 
investimenti in TIC, traino dell’economia americana negli anni 90, diventarono 
l’elemento scatenante della crisi, riducendosi drasticamente.
La crescita fittizia della cosiddetta New Economy (internet…) di fine anni 90, 
alimentata dalla politica monetaria espansiva, aveva rappresentato infatti il 
maggior sbocco per le imprese produttrici di beni d’investimento in TIC 
(computer, server, software, chip…) incentivando una crescita degli investimenti 
in questo settore.
Ma quando, a causa degli alti costi fissi e dei prezzi tirati verso il basso 
dalla moltiplicazione di nuove imprese nel settore della New Economy, queste 
accumularono perdite, la comunità finanziaria prese atto della sopravvalutazione 
fatta al loro riguardo rifiutando di rifinanziarle e le più fragili di esse 
videro presto cadere attività e valore borsistico.
Si sgonfiò così però anche il boom d’investimenti in TIC di cui erano state 
protagoniste, con gravi conseguenze per i grandi produttori di TIC, che già 
peraltro risentivano del calo della domanda di queste tecnologie da parte dei 
settori tradizionali.
Col rallentamento dell’accumulazione nei settori che utilizzano beni 
d’investimento TIC si sono manifestati nel settore TIC stesso gli alti costi in 
macchinari della crescita della produttività e la sovracapacità produttiva.
Fanno testo le innumerevoli lagnanze dei manager del settore che parlavano di 
“una domanda debole in rapporto alla capacità produttiva e a costi fissi 
difficilmente comprimibili”, in concomitanza con una guerra dei prezzi dovuta 
all’estrema concorrenzialità. Che la crisi sia esplosa a partire dal settore TIC 
si spiega, in conclusione, sia per la sua funzione di produttore di macchinari 
informatici utilizzati negli investimenti in questa fase, sia perché è proprio 
in questo settore che più si erano manifestati i caratteri del processo di 
accumulazione degli anni 90. La crisi si è poi velocemente trasmessa al resto 
dei settori manifatturieri “con una decelerazione tanto più forte quanto più 
grossa era stata la sovraccumulazione precedente”.
Da quanto si è visto dovrebbe essere chiaro quanto sarebbe sbagliato leggere la 
crisi in cui è sfociato il processo d’accumulazione degli anni 90 a partire 
dalle contraddizioni generate dall’accumulazione abnorme di capitale fittizio, 
che pure si verificò. I processi di finanziarizzazione del capitale che 
caratterizzano in parte questi anni, avevano origine nelle funzioni da essi 
svolte a sostegno dei crescenti costi che la crescita dell’accumulazione 
implicava per il capitale industriale. E la bolla speculativa e il crollo della 
Borsa nel 2000, non furono che una manifestazione secondaria di una crisi che va 
cercata nella dinamica interna al capitale produttivo.
La crisi del 2000 produsse 2 milioni e 700.000 disoccupati da inizio 2001 a 
inizio 2003, fino ad allora un record dal dopoguerra. I profitti nel 2001 
crollarono del 17%, la più grossa caduta dagli anni 30. In seguito alla 
riduzione del CLUP (costo del lavoro per unità di prodotto) del 2,5% nel 2002 e 
del 1,2% nel 2003, dovuta alla riduzione dei salari e ad una crescita della 
produttività quasi interamente ottenuta con una maggiore intensità del lavoro, i 
profitti si ripresero già nel 2002 crescendo del 17%. Un ruolo fondamentale però 
lo svolse lo Stato, che intervenne subito anzitutto con una riduzione del tasso 
d’interesse della FED dal 6,5% all’1,75% nel solo 2001, allo scopo sia di 
evitare un crollo ancor più pesante della Borsa e del credito, che avrebbe avuto 
effetti disastrosi per il finanziamento delle imprese e in generale 
sull’economia reale iperindebitata, sia per sostenere i consumi, unica via 
immediata per tenere sotto controllo la crisi produttiva. Le industrie 
tradizionali, auto e immobiliare in primis, grazie alla riduzione dei costi del 
credito al consumo e dei tassi sui mutui (legati al tasso FED), svolsero così un 
ruolo di ammortizzatori a fronte del generale ribasso della produzione delle 
imprese, sostenendo la congiuntura (gli investimenti in costruzioni crebbero del 
16% nel 2001).
Oltre che con la politica monetaria lo Stato intervenne con una politica fiscale 
aggressiva. Il taglio delle tasse di 1.300 miliardi di dollari in 10 anni (leggi 
del 2001/02/03) sostenne i redditi medio-alti e il loro consumo. Ma soprattutto 
la spesa militare svolse un ruolo determinante, sin dall’autunno/inverno del 
2001, con le guerre afgana e poi irakena come volano.
La crescita della spesa pubblica e il taglio delle tasse fece passare il 
bilancio pubblico da un attivo dell’1,3% del PIL nel 2000 ad un passivo del 4,8% 
nel 2003.
D’altra parte, con una graduale svalutazione del dollaro, a scapito soprattutto 
dell’euro (che da inizio 2002 ad inizio 2004 si rivalutò del 40%), si cercò di 
rivitalizzare l’industria americana aprendole nuovi sbocchi di mercato.
Questo massiccio intervento dello Stato, con modalità fino allora inedite dalla 
grande crisi del 29, riuscì effettivamente ad evitare l’aggravarsi della crisi 
finanziaria e reale, e portò ad una ripresa del PIL a ritmi più sostenuti da 
metà 2003. D’altra parte questo intervento non fece altro che rinviare, 
amplificandole, le contraddizioni all’origine della crisi, cosicché quest’ultima 
è riesplosa con molta più virulenza nel 2007. Come ha scritto Cipolletta (confindustria), 
“l’economia americana era già all’inizio di una recessione nel 2001…la 
recessione fu evitata (con misure eccezionali di sostegno all’economia, fiscali 
e monetarie), ma fu avviato anche un ciclo di espansione forzata durato fino ai 
nostri giorni”…”Il prezzo è stato uno squilibrio ancora più forte, da cui sono 
derivate le bolle speculative sul mercato immobiliare e poi su quello 
finanziario, che oggi ci fanno tanta paura”.
 
| 
     Grafico 4 - USA: produttività del capitale e crescita volume/valore capitale fisso 1985-2000 L’aumento della struttura del capitale; stock di capitale produttivo in rapporto al PIL (in %) 
 | 
| 
     Grafico 5 - USA: erosione dei profitti dal 1997 Quota dei profitti delle imprese USA non finanziarie in percentuale del PIL corrente 
 | 
Centro documentazione “Wakatanca” - Milano
[wacatanca@gmail.com]