SENZA CENSURA N. 29

giugno 2009

 

Dalla lunga crisi alla grande crisi

Prima parte

 

Ci sembra non più prorogabile proporre una riflessione sulla situazione di crisi che a livello globale il capitalismo sta attraversando. In questa ottica diamo spazio a un materiale - pubblicato in due parti - che analizza in modo chiaro e approfondito gli elementi oggettivi caratteristici delle attuali fasi storiche di caduta del saggio di profitto, ripercorrendone le varie fasi a partire dagli inizi degli anni ‘60 fino ai giorni nostri. L’analisi è centrata sugli USA, paese nodale del sistema capitalistico, dove l’attuale crisi ha avuto le sue prime e più evidenti ricadute.
Presentare questo lavoro di analisi vuole essere un modo per cercare di fare il punto della situazione oggettiva per poterla ricollocare su quelle che sono le sue ricadute sulla classe proletaria, sull’uso politico che viene fatto della crisi e sulle risposte che possono svilupparsi. Questo primo contributo vuole essere da preludio a un lavoro di inchiesta che metta in evidenza anche la soggettività che oggi si esprime sul terreno della lotta di classe, contribuendo a cogliere tutti quegli elementi di autonomia e di progettualità “altra” che i lavoratori contro la crisi sono chiamati a mettere in campo.

 

DALLA LUNGA CRISI ALLA GRANDE CRISI
A leggere le analisi e proposte prodotte nell’area della sinistra ex istituzionale sulla crisi che ha investito il capitale su scala globale, pare di essere in presenza di una grande opportunità: dopo 30 anni di neoliberismo finalmente torna (?) in scena lo Stato nella regolazione del processo economico; si suggeriscono quindi utopici piani di intervento, quali “un piano del lavoro con lo Stato che si fa garante di una piena occupazione, stabile e di “qualità”…o “nell’immediato consentire che lo Stato abbia potere di decisione sulle imprese in cui investe” e, addirittura, “in termini di prospettiva, estendere il controllo pubblico e sociale della produzione, rilanciando il valore, la possibilità e la necessità dell’economia di piano”. Ignorando totalmente la natura di classe dello Stato e i vincoli invalicabili insiti nel rapporto di produzione capitalistico, queste proposte non fanno altro che seminare illusioni, generando passività e delega tra chi intanto già subisce duramente le conseguenze di questa crisi.
Piuttosto che cogliere il momento quantomeno per “rischiarare le coscienze”, le si intorpidisce ancor più.
Alla base di queste proposte vi è anche un’analisi sulle origini di questa crisi che non ne coglie affatto la natura strutturale. Quando non se ne vedono le cause nel solo processo di finanziarizzazione e si cercano nell’economia reale, le si coglie in un deficit di domanda dovuto al taglio dei redditi del lavoro dipendente, che sarebbe frutto di una scelta politica determinata, di stampo neoliberista, e non di ragioni strutturali, e dunque in qualche modo correggibile avviando una nuova era di politiche Keynesiane. Siamo nel campo delle utopie riformiste, che non intendono prendere atto della natura strutturale delle contraddizioni che stanno investendo il rapporto di produzione dominato dal capitale e che in questa crisi si stanno manifestando in tutta evidenza.
Sembra utile dunque un approfondimento delle cause di fondo di questa crisi al fine di capire quali potranno esserne le conseguenze e quali siano le reali opportunità che essa offre alla classe.

SOVRAPPRODUZIONE: CHE COS’E’?
A tal fine occorre fare anzitutto una breve premessa sul concetto con cui la sinistra marxista generalmente spiega la crisi: quello di sovrapproduzione. Questo termine viene usato per lo più come sinonimo di sovraccumulazione, sovrainvestimento, sovrapproduzione di mezzi di produzione e/o sovrapproduzione di merci…non rendendo però così pienamente il contenuto che Marx ha inteso dare a questo concetto. Per Marx “sovrapproduzione assoluta di capitale si ha quando il capitale addizionale per lo sviluppo della produzione capitalistica è uguale a zero”, in altri termini quando il capitale addizionale non riesce a valorizzarsi. Ma con ciò ancora non è detto il perché di questa sovrapproduzione di capitale. Marx ce lo indica, specificando che la valorizzazione di capitale col procedere della accumulazione va incontro fondamentalmente a due ostacoli, ambedue connessi allo sviluppo della produttività del lavoro; uno sviluppo quest’ultimo necessario alla sopravvivenza dei singoli capitali nella lotta di concorrenza tra loro. Il capitalista per affrontare la concorrenza deve, infatti, cercare di vendere ad un prezzo inferiore ai suoi concorrenti, ciò che è possibile solo con una crescita della produttività del lavoro.
Il primo ostacolo sorge dal fatto che per il capitale la crescita della produttività per lo più ha un costo, non è gratis. Infatti essa è per la maggior parte connessa ad una crescita del macchinario nel processo produttivo e quindi del peso del valore del macchinario in rapporto al capitale totale. Dal momento che il macchinario non fa che trasmettere il proprio valore al prodotto man mano che viene consumato nel processo di produzione senza aggiungerne di nuovo, esso rappresenta un puro costo per il capitale.
Finché il capitalista avrà il monopolio dell’innovazione potrà ottenere comunque un sovrapprofitto, sia allargando il proprio mercato sia vendendo ad un prezzo inferiore a quello di mercato, ma in ogni caso superiore ai nuovi costi di produzione. Nel momento però in cui gli altri capitalisti, costretti dallo stesso meccanismo della concorrenza, introdurranno anch’essi i nuovi metodi di produzione, e questi ultimi si generalizzeranno, il prezzo di mercato cadrà, adeguandosi al nuovo livello raggiunto dalla produttività del lavoro, e tutto il peso del costo dei nuovi macchinari introdotti si scaricherà sul saggio di profitto. Trattandosi questo di un processo continuo Marx parla di tendenziale caduta del saggio di profitto.
La crescita del grado di sfruttamento è il principale fattore di contrasto alla caduta del saggio di profitto, ma questa crescita si ottiene per un verso proprio con una maggior produttività del lavoro con i suoi relativi costi, per un altro verso con la crescita dell’intensità e durata del lavoro, forme queste non costose per il capitale, ma sottoposte a limiti fisiologici oltre che sociali e politici. Una soluzione temporanea a tali difficoltà è cercata attraverso una scala di produzione più ampia, favorita dalla centralizzazione di capitali, che permette economie di capitale speso in macchinari e materie prime e quindi una crescita della produttività meno costosa.
Ma è un rimedio che tende ad esaurirsi, in quanto così vengono accelerati al tempo stesso proprio quei fattori che incidono negativamente sul saggio di profitto (investimenti in nuovi macchinari).
Al medesimo processo è legato anche il secondo ostacolo individuato da Marx: la progressiva crescita della produttività e l’estensione della scala della produzione generano una “produzione di massa” che deve trovare uno sbocco nella circolazione (nel consumo); ma “mentre l’accumulazione capitalistica richiederebbe un mercato costantemente allargato, per riversare verso l’esterno le proprie contraddizioni interne (quelle generate dal “processo che si esprime nella caduta del saggio di profitto”) i rapporti di distribuzione antagonistica limitano il potere di consumo”…”il potere di consumo della società” infatti è “basato su rapporti di distribuzione antagonista, che riducono il consumo delle grandi masse della società ad un minimo variabile solo entro confini più o meno ristretti”. In altri termini il capitale sviluppa l’accumulazione e la produzione di massa indipendentemente dal bisogno solvibile, che è limitato fondamentalmente dal fatto che il salario non può superare un certo tetto senza mettere in discussione lo stesso rapporto di lavoro salariato, su cui tutto si basa.
Due indicatori ci confermano che è stato proprio il cambiamento tecnologico il fattore determinante che ha inciso nelle fasi storiche di caduta del saggio di profitto: uno è l’”intensità di capitale”, cioè il rapporto tra capitale fisso (cioè il valore dei macchinari) e lavoro, che indica il grado di meccanizzazione della produzione, l’altro è la “produttività del capitale”, cioè la produzione media per unità di capitale fisso, che indica i costi della meccanizzazione. Le due grandi fasi storiche di ribasso dei profitti coincidono con una crescita dell’intensità di capitale e con una riduzione della produttività del capitale (vedi tabella e grafici 1-2-3).
Si tratta ora di verificare quanto i due ostacoli individuati da Marx, e in particolare il cambiamento tecnologico e i suoi costi, abbiano inciso sulla crisi in atto. Di quest’ultima ora ne ricostruiamo anzitutto le origini, centrando l’analisi sugli USA, in quanto perno attorno a cui si è costruito il processo d’accumulazione su scala globale in questa fase storica e in cui è possibile cogliere più chiaramente gli elementi che l’hanno caratterizzato.

ANNI 60-70: PRIME MANIFESTAZIONI DELLA CRISI E SUA GESTIONE CON POLITICHE KEYNESIANE
Le radici della crisi esplosa nel 2007/08 affondano nei lontani anni ’60. Dal 1965, infatti, il tasso di profitto in USA inizia una progressiva discesa: dal 10% del PIL scenderà al 6% nel 1970. Stesso fenomeno si verificherà in Europa sul finire del decennio. Con lo sviluppo estensivo dell’accumulazione già ad inizio anni ’60 si era ridotto in USA l’esercito industriale di riserva (semplicizzando: la disoccupazione) che aveva garantito bassi salari e un forte grado di sfruttamento. La risposta del capitale fu un’accelerazione del progresso tecnologico e dell’automazione dei processi produttivi di stampo fordista e una ricerca di sbocchi esteri per le imprese nel tentativo di “ripartire i costi fissi (cioè per lo più in macchinari) in più grande serie”: la crescita tecnologica infatti non consentiva ormai una produzione redditizia per il capitale se non su scala internazionale. A metà anni 60 il ciclo d’accumulazione del dopoguerra tocca comunque un tetto: anzitutto per il costo crescente in macchinari e l’organizzazione del lavoro taylorista che non riusciva più ad accrescere il saggio di sfruttamento attraverso una crescita dell’intensità e durata del lavoro, ed anzi suscitava una crescente ribellione operaia; favorita quest’ultima anche dalla riduzione dell’esercito industriale di riserva che indebolì il comando del capitale sulla forza lavoro occupata, facendo lievitare anche i salari. Anche il tentativo di dare uno sbocco alla “produzione di massa” col sostegno dello Stato alla domanda, stimolando il consumo operaio con forme di salario indiretto (welfare), a lungo andare aveva rafforzato la classe lavoratrice. Infine, una volta ricostruito l’apparato produttivo europeo sulla base del modo di produzione taylorista-fordista, l’Europa era ormai tornata competitiva sul mercato mondiale rispetto agli stessi USA, riducendo la possibilità di dare uno sbocco alla produzione americana accrescendo l’export.
Di fronte alla caduta del saggio di profitto che maturò in questo contesto, la crisi del processo di accumulazione si fece manifesta. La capacità di pressione dei lavoratori, però, era cresciuta al punto da rendere troppo rischiose in termini sociali e politici strategie miranti a far seguire alla crisi il suo decorso naturale, che avrebbe comportato la distruzione di parte del capitale sociale in sovrappiù e nuovi metodi di produzione in grado di ristabilire un saggio di sfruttamento adeguato a rilanciare l’accumulazione. Così gli USA, l’economia per prima colpita, nella seconda metà degli anni ’60 optarono per una gestione della crisi con strumenti di politica economica (monetaria e fiscale) espansiva ispirata al Keynesismo, tesi ad alimentare uno sviluppo forzoso dell’accumulazione, sperando che la ripresa di quest’ultima ne avrebbe presto ripagato i costi.
Non avendo aggredito le cause di fondo all’origine della crisi però, non solo il saggio di profitto continuò la sua discesa, ma si accrebbe l’indebitamento delle imprese; inoltre la crescita della spesa pubblica si tradusse in crisi fiscale dello Stato e la politica monetaria della FED, che raddoppiò la massa monetaria in circolazione, mise in moto un processo inflazionistico sempre più forte. Infine, crescendo il differenziale d’inflazione con le altre economie capitalistiche sviluppate, gli USA subirono un deficit della bilancia commerciale, che minò la funzione del dollaro (allora convertibile in oro con una parità fissa di 35 dollari per oncia) quale perno del sistema monetario internazionale (detto di Bretton Woods). Per ridare competitività alle proprie imprese, nel 1971 gli USA dichiararono l’inconvertibilità in oro del dollaro, ciò che ne permise la svalutazione, scaricando la crisi sugli altri paesi. Finisce così l’era di Bretton Woods ed inizia quella dei cambi flessibili, che favorì le svalutazioni competitive degli anni ’70, nel contesto di una acuta competizione tra i poli capitalistici, tutti desiderosi di dare uno sbocco esterno alla sovrapproduzione, mantenendo ed allargando gli spazi conquistati dalle proprie imprese sul mercato mondiale. Solo la Germania (e il Giappone che seguì una strategia simile) optò per un marco forte ed una politica antinflazionistica in funzione di una ristrutturazione e riconversione delle sue industrie e di un’ internazionalizzazione produttiva, accettando la sfida USA e cercando di imporsi come potenza economica emergente.
Forte dell’insostituibilità del dollaro quale denaro mondiale e della conquistata libertà di svalutarlo, in USA la strategia di gestione della crisi si basò negli anni ’70 ancora sul tentativo di far riprendere artificiosamente l’accumulazione attraverso un uso generalizzato del credito, che permetteva di prorogare la sopravvivenza delle imprese anche in una fase di difficoltà di valorizzazione. Sostenuta dal finanziamento monetario (cioè attraverso emissione di nuova moneta stampata dalla FED e non con più tasse o titoli pubblici) fu favorita anche una crescita della spesa pubblica, in particolare del welfare. Questa scelta d’espansione del debito pubblico, di facilitazione esasperata del credito e d’atteggiamento di benevola noncuranza verso il tasso di cambio del dollaro, se permise di evitare il precipitare della crisi e di salvare l’industria, perpetuò le condizioni di sovrapproduzione e non aprì la strada ad una nuova ripresa dei profitti e dell’accumulazione. Anzi fece accelerare l’inflazione. Quest’ultima si originava dal fatto che in un contesto di sovrapproduzione, in cui quindi non c’è spazio per una reale ripresa dell’accumulazione, se si cerca di sostenere la riproduzione del capitale iniettando denaro (ormai sganciato da ogni riferimento alla merce-denaro oro e quindi puro segno di credito) nella circolazione, si mantiene artificiosamente in piedi il finanziamento ad una produzione senza sbocchi reali. Quel denaro non corrisponderà così a reali transazioni: si verifica uno scarto tra il valore anticipato dai segni di credito emessi e circolanti come denaro e il valore globale delle merci in circolazione. Il denaro circolante rappresenterà di conseguenza una quantità di valore minore, si svalorizzerà. E’ così che la crisi prese negli anni ’70 la forma di una stagnazione accompagnata da forte inflazione (la famosa stagflazione).
La crescita dei prezzi delle materie prime e l’indisponibilità dei lavoratori a farsi decurtare i salari resero poi il processo inflazionistico ancor più virulento, pur non essendone queste le cause scatenanti.
L’artificiosità e precarietà dell’accumulazione del capitale americano si riflesse infine pesantemente sul dollaro.
A fine anni ’70 la costante svalutazione del dollaro, ormai moneta creditizia anche sul piano internazionale il cui valore si determina sul mercato valutario, portò addirittura ad un seppur limitato ritorno in auge dell’oro e a forme di baratto negli scambi internazionali. E ciò in un contesto in cui, anche se ancora nessun altra moneta era in grado di sostituirsi al dollaro, stavano emergendo nuove potenze economiche (Germania e Giappone) in grado di contrastare l’egemonia assoluta americana.
Così quando nel ’79 l’inflazione americana raggiunse il 13% e il dollaro subì pericolosi attacchi speculativi, fu necessaria una svolta nella gestione della crisi. Era ormai necessario intervenire drasticamente sul processo inflazionistico interno e sulle sue cause, sia perché si stava ormai autoalimentando con forti rischi per le stesse imprese produttive, sia per salvare il predominio del dollaro ricercando un’inversione alla sua costante svalutazione.

 

Grafico 1 - USA: produttività del capitale 1870-1987

 

Grafico 2 - USA: saggio di profitto 1870-2000

 

 

Grafico 3 - USA: intensità del capitale 1870-1995

Rapporto capitale-lavoro (dollaro del 1996 per ore lavorate)

 

 

Tabella 1 - USA: tasso di profitto - intensità di capitale - produttività del capitale

r è il tasso di profitto; K/L il rapporto capitale-lavoro; Y/K la produttività del capitale; w il salario reale. i tassi sono calcolati con la regressione del logaritmo della variabile nel tempo.

 

 

ANNI ’80: LA SVOLTA NELLA GESTIONE DELLA CRISI
La svolta si avviò con una dura stretta monetaria (rialzo del tasso d’interesse ufficiale della FED), attraverso quindi il rifiuto di continuare a venire in soccorso dei problemi finanziari delle banche, dovuti a loro volta alle richieste di finanziamento da parte delle imprese, sempre più indebitate. Scopo della stretta monetaria fu, in primis, dare avvio ad una profonda ristrutturazione del processo produttivo al fine di ristabilire un adeguato saggio di profitto. La restrizione del credito funge infatti da forte pressione sulle imprese indebitate, costringendole a ristrutturazioni. Lo spiegò bene Ciampi, allora presidente della Banca d’Italia, qualche anno dopo: a causa della svolta della politica monetaria (che dagli USA si estese in Europa) “le strategie aziendali, d’investimento e di riorganizzazione interna, dovettero volgersi all’aumento della produttività e a una linea di resistenza di fronte alla spinta dei costi… Il mutato atteggiamento della politica monetaria e del cambio ha agito sui comportamenti dei lavoratori dipendenti attraverso le imprese, ma anche direttamente.” A quest’ultimo riguardo, infatti, uno degli obiettivi immediati della stretta fu la ricostituzione di un consistente esercito industriale di riserva, sia per accrescere il saggio di sfruttamento, sia per colpire il nucleo centrale di classe operaia, attore delle lotte degli anni ‘60/’70. Detto con le parole di Alan Budd, consulente della Thatcher, “per usare una terminologia marxista, quella che si era progettata era una crisi capitalistica che, ricostituendo un esercito di forza lavoro di riserva, ha consentito da allora in poi ai capitalisti di realizzare alti profitti”.
La svolta dell’80 non fu dunque frutto di una scelta di tipo ideologico, di stampo “neoliberista” o “monetarista” che dir si voglia…, ma di una risposta alle difficoltà strutturali di valorizzazione del capitale, che le politiche Keynesiane non erano state in grado di risolvere.
E tanto poco c’entrava l’ideologia, che appena la stretta del credito riuscì ad eliminare parte delle imprese inefficienti (e quindi del capitale in eccesso), e a generare un significativo esercito industriale di riserva (tra l’80 e l’82 l’occupazione operaia calò del 12% e la disoccupazione arrivò all’11%), e appena l’inflazione fu riportata sotto controllo (nell’83 era al 3,2%) e il dollaro si rivalutò…di fronte al rischio di un aggravamento della crisi, gli USA optarono (nell’84) per una sua gestione ancora una volta fondata fortemente sul credito e su una politica fiscale espansiva, che si tradusse in una impennata della spesa militare, oltre che in una riduzione delle tasse per le imprese e i ceti più ricchi.
Volano della ripresa fu la trasformazione degli USA in “camera di compensazione finanziaria a livello mondiale” ciò che permise di affrontare il declino dell’economia americana con un’inversione del flusso di capitali internazionali verso gli USA, che da creditori diventarono così “la principale nazione debitrice e pozzo di liquidità”.
Nei primi anni 80 in USA e GB fu avviata una ristrutturazione dei sistemi finanziari (estesasi nel corso del decennio agli altri paesi capitalistici), fondata su una liberalizzazione e deregolamentazione dei mercati dei capitali da prestito sul piano interno e su di una loro apertura a livello internazionale, tesa a realizzare in prospettiva un mercato dei capitali da prestito globale. Da qui prese avvio la cosiddetta “globalizzazione finanziaria”.
La pletora di capitali non investiti nella produzione per il basso tasso di profitto, che negli anni 70 si erano riversati nei “paesi in via di sviluppo” furono attratti ora, dagli alti tassi d’interesse e dalla liberalizzazione del movimento dei capitali, in USA, dove furono investiti anzitutto su titoli del tesoro. Così fu possibile innescare un finanziamento non inflazionistico del debito, al contrario di quanto era successo negli anni precedenti in cui era stata la FED a finanziarlo attraverso l’emissione di nuova moneta. Scopo immediato della ristrutturazione finanziaria fu un rilancio della spesa pubblica, in primis di quella militare, finalizzata a sostenere ed orientare la ristrutturazione del sistema produttivo e la riconversione dell’industria americana dal siderurgico, tessile, chimico, ai settori ad alta tecnologia (militare, elettronica).
D’altra parte, più in generale, la ristrutturazione finanziaria favorì lo sviluppo della finanza di mercato, a discapito delle tradizionali operazioni bancarie, e la nascita di nuovi intermediari finanziari oltre alle banche ordinarie: nuovi mercati (es. derivati) e nuovi attori (fondi, ecc…) che si sottraggono ad ogni forma organizzata di controllo. Ciò allo scopo di favorire il finanziamento delle imprese attraverso titoli, azioni, ecc… piuttosto che attraverso la tradizionale mediazione delle banche. In una fase di debolezza del sistema bancario (colpito dalla crisi americana e da quella dei “paesi in via di sviluppo”) il sistema di credito attraverso il canale della “finanza diretta” permise una maggiore ripartizione dei rischi dell’investimento finanziario rispetto alle banche e quindi facilitò i prestiti, seppur più volatili ed esigenti rispetto ai crediti bancari. Si rese possibile anche la mobilitazione di un risparmio maggiore con rendimenti alti rispetto ai depositi bancari, un risparmio che altrimenti sarebbe rimasto inutilizzato come capitale. Si mise quindi a disposizione dei capitali industriali più forti tutto il capitale disponibile e potenziale della società, permettendo investimenti altrimenti impossibili per i singoli capitalisti e un’estensione della scala di produzione in funzione di una crescita della produttività più elevata.
Sempre a tale scopo e alla ricerca di nuovi sbocchi di mercato, le maggiori imprese approfittarono dell’emergente mercato globale dei capitali da prestito per mettere in moto un portentoso processo di centralizzazione di capitali su scala internazionale, riscontrabile nella crescita degli investimenti diretti all’estero (IDE) intratriadici (cioè interni alla triade Usa, Europa e Giappone) nel corso degli anni 80.
Le imprese maggiori e più efficienti furono quindi messe nelle condizioni di finanziare la ristrutturazione necessaria, incentrata sull’automatizzazione dei processi produttivi. Quest’ultima si caratterizzò per un graduale passaggio da una forma d’automazione tecnocratico-rigida (fordista) ad una di automazione flessibile, finalizzata ad una maggiore integrazione dei processi produttivi tesa ad ottenere economie di capitale circolante e riduzione dei tempi di produzione. L’aumento della produttività più che attraverso una nuova organizzazione del lavoro, legata ancora al modello taylorista, fu cercata, soprattutto col taglio dei posti di lavoro e l’efficienza dei nuovi macchinari: la riduzione dell’importanza dell’iniziativa operaia era infatti uno degli scopi immediati della ristrutturazione tecnologica.
L’automazione flessibile permetteva anche la produzione di merci differenti su una stessa linea di produzione, e quindi di immettere sempre nuovi prodotti nei settori di mercato ancora non concorrenziali. Si accelerano così in questa fase innovazioni del processo e dei prodotti, alla ricerca di fonti di sovrapprofitto.
Al di là del breve periodo però questo processo innovativo, a causa della reazione dei concorrenti, produsse vere e proprie guerre dei prezzi; e ciò proprio quando il costo del macchinario si accresceva molto con l’automazione flessibile. Come sostenne Daid nel 1986 “allo stato attuale della tecnologia dei robot i costi fissi sono considerevoli in rapporto al risparmio netto realizzato sui costi totali, cosicché l’introduzione dei robot è redditizia solo a partire da una certa scala di produzione”…di qui l’accelerazione dei processi di centralizzazione e la ricerca affannosa di nuovi mercati invadendo gli altri poli capitalistici.
Nel corso degli anni ’80 l’intensità di capitale crebbe del 22%. Leggermente meno rispetto al 24% degli anni ’70, ciò che si riflesse in una lieve crescita della produttività del capitale e del saggio di profitto. Quest’ultima, peraltro precaria, fu comunque il risultato soprattutto della crescita del saggio di sfruttamento, con una riduzione della massa salariale e un nuovo controllo della forza lavoro all’interno del processo produttivo, sulla spinta della crescita dell’esercito industriale di riserva.
Negli anni ’80 in USA la paga oraria diminuì del 4,9% per l’80% della forza lavoro, e si persero due-tre giorni di ferie l’anno pro capite. Anche la revisione del welfare favorì questi processi: esso fu attaccato in quanto “mina l’autoregolazione del mercato del lavoro, tenendo alti i salari, perché scoraggia i disoccupati sussidiati ad accettare salari bassi e premere sugli occupati” (Sole 24 ore).
La crescita della produttività del lavoro fu comunque bassa, a causa della vecchia organizzazione del lavoro che non permetteva una crescita sostanziale dell’intensità del lavoro. In ogni caso la crescita del tasso di sfruttamento non riuscì a controbilanciare i costi crescenti dell’automazione, tanto che sul finire del decennio questa realtà di “crescente immobilizzazione in alta tecnologia e capitale fisso” disincentivava sempre più gli investimenti nell’industria e bloccava ancora l’accumulazione ad un livello basso; l’indebitamento delle imprese riprese così a crescere.
D’altra parte il venir meno del controllo delle grandi imprese sui rispettivi mercati nazionali, data la concentrazione e reciproca invasione sui medesimi mercati (USA ed europeo) in un contesto di forte competizione, chiuse progressivamente l’unica valvola di sfogo per una produzione di massa sempre più estesa.
Anche il rafforzamento del sistema finanziario americano e quindi del dollaro, che si rivalutò del 40% nella prima metà degli anni ’80, rappresentò un problema per l’industria americana e le sue esportazioni.
D’altra parte, l’accordo di Plaza del 1985, con Germania e Giappone, per una svalutazione controllata del dollaro, oltre a non intaccare più di tanto il deficit estero, a fronte di una crescita del debito pubblico ed estero (definiti “debiti gemelli” in quanto risultato della strategia messa in piedi per attirare capitali esteri a sostegno del debito pubblico), aprì una nuova contraddizione, mettendo nuovamente a rischio il dollaro nella sua funzione di denaro mondiale.
Questa crescente debolezza dell’economia americana, portò al crollo di Wall Strett dell’87 (che perse il 17% in un solo giorno!), che viene ricordato come il primo della nuova era finanziaria.
Le difficoltà nell’investimento produttivo, sempre più costoso e rischioso, che avevano fatto crescere la pletora di capitale inattivo, e le nuove opportunità offerte dalla ristrutturazione finanziaria, avevano infatti fatto crescere l’investimento di tipo finanziario e speculativo. Di fronte ai primi segnali che ingeneravano sfiducia sul futuro della crescita dell’accumulazione e con essa sul dollaro, le forme feticistiche del capitale denaro, il capitale fittizio, crollarono. La crisi di Wall Strett fu di breve durata e non ebbe effetti sull’economia reale solo per l’intervento massiccio e inedito della FED.
La crisi dell’economia reale si manifestò comunque pochi anni dopo (nel 90), quando le contraddizioni di fondo che si sono viste all’opera si manifestarono con una ripresa dell’inflazione. Infatti l’immissione di liquidità da parte delle banche centrali dopo la crisi delle borse del 1987 aveva fatto scendere i tassi d’interesse alimentando così il credito alle imprese e quindi la crescita della produzione, che nei paesi OCSE crebbe nel 1988 ad un ritmo del 4,4%. Questo meccanismo, che già abbiamo visto all’opera, fece fare un balzo all’inflazione che dal 3% della prima parte del 1988 arrivò al 4,2% nel marzo 1989 e al 5,5% solo due mesi dopo. In questo contesto la FED reagì con una nuova stretta monetaria che avviò una nuova fase di intensa crisi e ristrutturazione.
A fine anni 80 dunque l’egemonia assoluta degli USA sul piano economico era di nuovo a rischio. Ma non lo era solo per le contraddizioni interne al proprio sistema produttivo; in questo decennio, infatti, nonostante l’uso aggressivo del dollaro, la competizione con Germania e Giappone si era accentuata. Questi ultimi non erano rimasti fermi e avevano affrontato la sfida americana. Attorno alla Germania si era formato lo SME (sistema monetario europeo) col fine sia di ridistribuire su più valute ed economie gli oneri delle svalutazioni e rivalutazioni del dollaro, sia, soprattutto, di imporre la “disciplina tedesca” al resto dell’Europa, con un cambiamento di politica economica tesa a costringere le imprese ad una razionalizzazione e ristrutturazione del sistema produttivo, che effettivamente fu attuata fin dai primi anni 80, insieme ad una crescita della disoccupazione.
Nell’85/87 si avviò anche il completamento del mercato unico europeo, che metteva in moto l’apertura del mercato dei capitali e un intenso processo di centralizzazione per rafforzare le imprese europee.
In Giappone, d’altra parte, si era messa in atto una crescita della competitività delle imprese attraverso un modello d’organizzazione della produzione, detto toyotista, in grado di ottenere ciò che il modello taylorista non soddisfaceva più: cioè la possibilità di raggiungere un maggior grado di sfruttamento con mezzi non costosi per il capitale. La crescita della produttività non era più cercata solo attraverso nuovi sistemi di macchine ed eliminazione di forza lavoro occupata, ma con una nuova organizzazione del lavoro flessibile, il just in time e il subappalto. Non si abbandonava la via delle innovazioni e dell’automazione flessibile, ma ci si pose il problema di far fronte ai suoi costi, attraverso nuovi principi organizzativi che favorivano in primis una crescita del grado di sfruttamento attraverso una più elevata intensità e durata del lavoro, legati ad un maggior controllo e ad un utilizzo più flessibile della forza lavoro nel processo produttivo. Il just in time viene applicato anche all’esterno della grande impresa, nei rapporti con i fornitori in subappalto, costringendo le imprese subappaltatrici ad una continua razionalizzazione dell’attività lavorativa e della gestione della produzione, con un feroce sistema di incentivi.
Nella crisi del 90 questo modello fu importato dalle imprese degli altri paesi capitalisti, riadattandolo al loro contesto.
In USA si parlò di “reengineering”, di ridisegno globale dei processi produttivi. Nella crisi dei primi anni 90 questo modello s’impose passando per un intenso processo di “dimagrimento” delle imprese (di riduzione cioè delle attività e del numero di dipendenti) e la ricerca della massima insicurezza del posto di lavoro. Si crearono così le condizioni per una ripresa degli investimenti industriali: si aprì “una fase di sviluppo largamente incentrata su applicazioni dell’informatica nell’industria, commercio, servizi”…sfruttando a tal fine anche i risultati della spesa militare degli anni 80: “la spesa pubblica per la difesa è stata il principale veicolo di propulsione nei settori dell’elettronica, informatica e TLC” (Fazio, Banca d’Italia).

ANNI 90: LA PRECARIA RIPRESA DEL SAGGIO DI PROFITTO
Ciò che caratterizzò gli anni 90 in USA fu una forte ripresa dell’accumulazione fondata su investimenti in nuove tecnologie infotelematiche, allo scopo di accrescere la produttività e ottenere una ripresa del saggio di profitto, oltre che, più in generale, di rilanciare la competitività delle imprese americane.
Così, secondo la Banca d’Italia, “negli anni 90 l’incremento medio degli investimenti nel settore privato ha sfiorato il 6%, valore più che doppio rispetto a quello registrato nel decennio precedente; gli investimenti in macchinari e mezzi di trasporto sono cresciuti in media dell’8%. All’interno di questo comparto, le spese per attrezzature informatiche hanno segnato un aumento medio annuo quasi del 20%; la loro quota sul complesso degli investimenti privati sfiora il 30%, era del 9% all’inizio degli anni 80, allorché prese avvio il profondo processo di ristrutturazione dell’economia”…”Il processo di sostituzione di beni capitali tradizionali con quelli TIC (tecnologie dell’informazione e comunicazione)…si è fortemente intensificato negli anni 90 interessando la generalità dei settori manifatturiero e dei servizi”.
L’introduzione dei computer nella produzione di beni e servizi e internet furono le basi della rivoluzione tecnologica degli anni 90: i calcolatori, in particolare i PC, nella prima metà degli anni 90, i server e la messa in rete dei PC, nella seconda metà.
Così Greenspan (allora presidente della FED) nel 99 riassumeva il ruolo e gli effetti di questa rivoluzione tecnologica: “il progresso nella disponibilità di informazioni, ha permesso di eliminare gran parte delle scorte e delle riserve di manodopera. Il collegamento tra centri di produzione e di vendita ha consentito la riduzione nei tempi di consegna…e ciò ha diminuito la quantità di capitale richiesto per produrre beni e servizi. I processi d’intermediazione nella produzione e nella distribuzione si vanno riducendo e in qualche caso sono eliminati”. L’innovazione investe dunque la sfera della produzione e della distribuzione riducendo fortemente i tempi di circolazione del capitale. Ma soprattutto s’impenna la crescita della produttività. Secondo la Banca d’Italia “nel periodo 1996/2000 il tasso di crescita annuo della produttività oraria del lavoro nel settore privato non agricolo salì al 2,5%, dall’1,4% nella media del periodo 1973/1995”. In particolare, nel comparto manifatturiero crebbe del 4,4% nella seconda parte degli anni 90 (del 4% nella prima metà) rispetto al 2,5% del periodo 73/91. Nei servizi crebbe dopo il 1995 dell’1,5% l’anno, rispetto allo 0,8% dei due decenni precedenti.
Ma alla base di questo balzo della produttività non ci furono solo le nuove tecnologie. Come sostenne Fazio, “con le nuove tecnologie sono state riorganizzate le attività aziendali con guadagni di efficienza nell’utilizzo del lavoro e in quello degli impianti. E’ stata fondamentale, in tale progresso, la possibilità di impiegare la mano d’opera con criteri di elevata flessibilità”. Da parte sua la BCE (Banca Centrale Europea) in un suo studio rilevava che “il maggior dinamismo dell’economia americana in questo decennio sarebbe dovuto non tanto ai maggiori investimenti, quanto al fattore lavoro, in particolare al maggior numero di ore lavorate”.
Difatti la ripresa dell’accumulazione negli anni 90 fu caratterizzata da una forte crescita del saggio di sfruttamento, che, come ammetteva il Sole 24 ore “finanziò, di fatto, gli investimenti tecnologici”.
In particolare, a questo proposito, si manifestarono in questi anni tre fenomeni strettamente connessi tra loro: la formazione di un articolato ed efficiente esercito industriale di riserva, la stagnazione dei salari e “il fenomeno delle lunghe ore di lavoro” (Sole 24 ore).
Anzitutto nel decennio vi fu un afflusso di circa tredici milioni d’immigrati e quindi di forza lavoro in più. Come scrisse Colajanni “l’espansione dell’occupazione americana si è realizzata attraverso la riduzione dei salari reali e l’utilizzazione di forza lavoro non qualificata, in buona parte proveniente dall’immigrazione”. Così se dal ‘91 al ‘99 si ebbero 19 milioni di posti di lavoro in più, l’occupazione crebbe nel lavoro precario e non garantito: tra il 90 e il 95 gli occupati a tempo pieno crebbero del 3%, quelli a tempo parziale del 15%; a fine anni 90 gli impieghi precari erano un terzo del totale, rispetto a un quarto negli anni 80. L’occupazione poi crebbe soprattutto nei servizi: tre quarti della crescita nel commercio al dettaglio e “altri servizi” in un contesto di minori garanzie, bassi salari e precarietà.
Nei settori industriali la ristrutturazione non si limitò al periodo della crisi del 90/91, ma diventa permanente: nel 94, quando ormai i profitti si erano ripresi, i posti di lavoro persi erano uguali al 91. Così prevalse una generale crescita dell’insicurezza del posto di lavoro. Negli anni 90 un lavoratore su venti aveva perso il posto, a fronte di uno su venticinque negli anni 80; così se nel 91 il 25% dei lavoratori temeva di perdere il posto di lavoro, nel 96 era il 46%, malgrado il tasso di disoccupazione più basso. Lo stesso Greenspan, nel 97, ammetteva che “ l’aumento dei salari è stato nettamente inferiore di quanto le relazioni storiche con le condizioni del mercato del lavoro avrebbero fatto prevedere (con un tasso di disoccupazione al 5-6% ci si sarebbe cioè aspettato una maggiore crescita dei salari). Un contenimento attivo nell’aumento delle retribuzioni è stato evidente da qualche anno a questa parte e sembra essere principalmente conseguenza dell’insicurezza dell’occupazione”; e in un altro intervento specificava che “ tale insicurezza è dovuta principalmente alla rapida evoluzione delle tecnologie. I mutamenti tecnologici hanno dato un importante impulso alle ristrutturazioni aziendali”.
Vi fu poi l’intervento dello Stato che con la riforma del welfare di metà anni 90 abbassò la soglia di sicurezza garantita, costringendo gli ex assistiti ad accettare lavori con salari molto bassi e ad esercitare pressione “sui 38 milioni di lavoratori poveri occupati”.
Così, in presenza di questo composito esercito industriale di riserva, comprendente oltre la forza lavoro immigrata un insieme di figure di lavoro precario e rafforzato dalla insicurezza del posto di lavoro generata dalla ristrutturazione permanente nell’industria,…a fine anni 90 i salari erano sotto il livello del 1973: in dollari costanti del 1982, la paga oraria media nel settore privato era nel 1973 di 8,54 dollari, nel 93 di 7,39, nel 99 di 7,86.
La riduzione dei salari spiega infine il “fenomeno delle lunghe ore di lavoro”: per mantenere il livello di vita del 1973 i lavoratori americani dovevano lavorare sei settimane in più l’anno. Così dalle 1882 ore annue lavorative del 1983 si passò alle 1952 del 1995, alle 1966 del 1997. Solo tra il 93 e il 99 le ore annue lavorative aumentarono in media di 50 unità.
Sempre allo scopo di una ripresa del saggio di profitto, le imprese americane misero in atto in questo decennio anche un’altra strategia: l’internazionalizzazione della produzione. A fine anni 90 un terzo dei profitti delle imprese americane veniva dalle loro filiali all’estero.
Gli investimenti diretti all’estero (IDE) americani presero due vie. La prima fu finalizzata alla ricerca di un maggior saggio di sfruttamento, dovuto sia alla più elevata intensità e durata del lavoro che ai livelli salariali più bassi, a fronte di una tecnologia e quindi di una produttività non molto distante da quella americana, che era possibile trovare nei paesi di nuova industrializzazione, quali il Messico (con cui viene avviato col NAFTA un processo di integrazione regionale) e, soprattutto, i paesi dell’Est Asiatico (Cina, Corea, ASEAN); un’area quest’ultima in cui le multinazionali americane trasformano e assemblano prodotti che poi vengono venduti in USA (più del 20% delle esportazioni di Cina, Corea, Filippine, era diretta in USA).

Come rilevò Greenspan “ci troviamo di fronte ad un fenomeno di outsourcing sempre più esteso a livello globale. Ciò che ci si aspetterebbe di vedere, e sta effettivamente accadendo, è la combinazione di un accrescimento del rendimento del capitale e della diminuzione del costo unitario della forza lavoro”.
Il secondo tipo di IDE era legato alla ricerca di una maggior scala di produzione e allo sfruttamento di nuovi mercati. Questi IDE erano originati dalla necessità da parte delle grandi imprese di accrescere la dimensione dell’attività produttiva per far fronte ai costi della ristrutturazione tecnologica, e di trovare alla crescita della capacità produttiva uno sbocco di mercato adeguato penetrando nei mercati altrui. Sempre Greenspan, nel 97 coglieva quest’aspetto dell’internazionalizzazione produttiva: “una quota crescente dell’attività produttiva compete sui mercati globali, permettendo quindi ai costi fissi di diffondersi in aree geografiche più vaste, promuovendo una maggior specializzazione ed efficienza…la possibilità di diversificare produzione e vendita in diversi continenti permette una riduzione dei costi unitari per le imprese e dunque sostiene i profitti”.
Questo tipo di IDE rappresenta in questa fase la percentuale più grande, ed è diretta per lo più verso gli altri poli della Triade, nel contesto di un più generale processo di centralizzazione del capitale a livello internazionale, interno alla Triade stessa.
Per sostenere il grande balzo dell’accumulazione degli anni 90 le imprese americane misero in atto anche un intenso processo di centralizzazione del capitale all’interno del loro stesso territorio. Le fusioni e acquisizioni sono state uno strumento essenziale del processo di ristrutturazione industriale. Come scrisse Deaglio, esse rispondevano “alla necessità di ridurre le spese fisse sotto l’assillo della concorrenza e di raggiungere una massa critica finanziaria per poter effettuare determinati investimenti”. L’introduzione delle nuove tecnologie risultava infatti redditizia per le imprese solo a partire da una certa dimensione, necessaria per ottenere economie di scala e “far fronte alle crescenti immobilizzazioni in alta tecnologia e capitale fisso”. Come scrisse Y. Doz “ le trasformazioni delle tecnologie di prodotto e di processo hanno accresciuto la dimensione minima di efficienza produttiva in settori come l’auto, la chimica, l’elettronica di consumo,i semiconduttori, gli impianti industriali”, cioè nei settori a più alta intensità di capitale.
Questo processo di centralizzazione delle imprese americane fu favorito, soprattutto nella seconda metà degli anni 90, da una crescita delle operazioni effettuate da imprese estere nei confronti d’imprese statunitensi. Nel 95, con la rivalutazione del dollaro concordata con Germania e Giappone, fu stimolato l’afflusso di capitali esteri. E proprio la rivalutazione del dollaro fu una delle cause scatenanti della crisi asiatica del 97, che generò una fuga di capitali da quell’area, orientandoli ancor più verso gli USA, dove finanziarono il boom degli investimenti di fine anni 90. Si è sostenuto così che il dollaro forte, insieme alla differenza dei tassi d’interesse americani e al più alto saggio di profitto (soprattutto rispetto a quello europeo), sia stato “uno dei principali motori dell’accumulazione americana”. In ogni caso l’accelerazione del processo d’accumulazione fu in gran parte finanziato, e quindi reso possibile, dall’ondata di IDE e di investimenti finanziari (in azioni e obbligazioni privati) in USA, per lo più provenienti dall’Europa (il Giappone investì soprattutto in titoli di Stato).
Più in generale, a fine anni 90 gli USA si accaparravano l’80% del risparmio mondiale, che finanziò il 40% dell’aumento dello stock di capitale americano. E se nel 95 il denaro straniero rappresentava solo l’8% degli investimenti totali americani (residenziali e aziendali), nel 99, arrivò al 25%.
Un fondamentale contributo a tali processi lo dette la nuova struttura del sistema finanziario USA.
Se la deregulation dei mercati finanziari e la promozione della libera circolazione dei capitali avviate negli anni 80 furono alla base dei processi di centralizzazione internazionale, consentendo agli USA di attingere al risparmio mondiale, sul piano interno negli anni 90 la ristrutturazione finanziaria fondata sulla finanza diretta favorì il crescente bisogno del sostegno delle istituzioni che centralizzano il capitale denaro (oltre alle banche, i Fondi comuni, i Fondi pensioni…) da parte del capitale industriale, per far fronte alla ristrutturazione permanente, con i suoi costi sempre più grandi in investimenti.
La politica monetaria della FED sostenne attivamente questi processi. Anzitutto con una politica che, a parte piccoli rialzi dei tassi a fine 96 inizio 97, fu espansiva. In secondo luogo favorendo il proseguimento del processo di deregolamentazione del sistema finanziario e quindi l’espansione del credito. La FED si mosse così basandosi sulla valutazione (come risulta chiaro anche dalle parole citate da Greenspan) che il crescente saggio di sfruttamento avrebbe tenuto a freno, almeno temporaneamente, le contraddizioni che la crescita della accumulazione portava con sé e quindi i potenziali effetti inflazionistici di una accelerazione artificiale di quest’ultima attraverso una politica monetaria e creditizia espansiva.
Questa politica favorì anzitutto l’indebitamento crescente delle imprese, tenendo basso il costo finanziario degli investimenti. La crescita dell’indebitamento delle imprese fu vorticosa: escluso il comparto finanziario, l’indebitamento delle aziende americane crebbe del 61% dal 95 al 2000. In secondo luogo la politica della FED permise anche l’indebitamento delle famiglie, al fine di sostenere il consumo e dare sbocco alla sovracapacità produttiva generata dalla crescita della produttività e dell’accumulazione. Vista la stagnazione dei salari e una crescita dell’occupazione limitata ai settori a bassi salari, solo il finanziamento artificioso del ceto medio-alto ha permesso di allungare i tempi in cui la sovracapacità produttiva si è manifestata. In particolare, la crescita della domanda della parte della popolazione a reddito più alto fu favorita da un “effetto ricchezza” legato all’aumento di ricchezza (di carta) mobiliare (azioni…) e quindi alle quotazioni di borsa. Si consumava più reddito perché cresceva la “ricchezza” finanziaria, virtuale! L’arricchimento in borsa permetteva di indebitarsi, aumentando i consumi a credito. Un consumo quindi drogato dalla crescita della borsa e dei redditi finanziari.
Dato questo crescente indebitamento d’imprese e famiglie la politica monetaria accomodante a fine anni 90 diventò sempre più decisiva e necessaria non solo per sostenere consumo e investimenti, ma per la stessa stabilità del sistema finanziario e bancario.
L’accresciuta attenzione della FED ai destini della Borsa, insieme all’afflusso di denaro da parte di capitali esteri e Fondi in Borsa, determinarono un crescente sviluppo del capitale fittizio e della speculazione, e l’eccezionale ascesa dei prezzi delle azioni (la bolla di Wall Street) di fine anni 90.
D’altra parte il forte indebitamento accentuò lo squilibrio della bilancia commerciale, visto che il consumo si rivolse in maniera crescente anche alle merci importate. E l’indebitamento di famiglie e imprese (e quindi i consumi e gli investimenti) fu finanziato facendo arrivare, come si è visto, risorse dall’estero. Così a fine anni 90 il deficit estero era al 5% del PIL e il debito estero al 20% del PIL (2000 miliardi di dollari). E’ stato possibile questo livello d’indebitamento solo perché, grazie al ruolo del dollaro quale valuta di cui sono composte le riserve mondiali, il debito estero americano è denominato nella valuta nazionale. Si tratta di un credito gratuito di cui finora godono solo gli USA. Le attività denominate in dollari (riserve delle Banche Centrali estere, depositi bancari stranieri in USA, titoli di Stato detenuti all’estero) costituiscono infatti sia la base monetaria dei traffici mondiali che il debito americano. Finché i fornitori esteri dell’economia americana accettano il dollaro, gli USA non devono reperire esternamente i mezzi finanziari per le loro spese estere: così gli USA possono finanziare i disavanzi commerciali senza rispettare il vincolo finanziario. In ultima analisi dunque il ruolo del dollaro come denaro mondiale ha giocato un ruolo decisivo in tutta questa fase di ripresa economica in USA.
Il risultato di questo rilancio del processo d’accumulazione del capitale americano, spinto da questo insieme di fattori, si manifestò sin da metà anni 90, in cui i profitti tornarono finalmente ad un livello vicino a quello degli anni d’oro, cioè all’8,4% del PIL; e a fine anni 90 il saggio di profitto era cresciuto del 10% rispetto ai valori di inizio decennio.
Nel 97 si ebbe però una svolta: il saggio di profitto cadde, preannunciando la crisi poi esplosa nel 2000.
Si tratta ora di vedere il perché di questa svolta.

2000: LA CRISI DELLA “NEW ECONOMY”
L’accelerazione progressiva del processo d’accumulazione delle imprese americane, sostenuta artificialmente dal credito, è stata finalizzata, come si è visto, ad una crescita continua della produttività del lavoro, nel quadro di una lotta dei singoli capitali per la sopravvivenza, all’interno di una acutizzazione della concorrenza interna e intratriadica, in un contesto in cui “ a fronte dell’incremento delle dimensioni minime di investimenti, chi non può permettersi tali investimenti è escluso e anche chi non riesce a distribuire i volumi generati dalle innovazioni rapidamente e in tutto il mondo”. Alla base di questa sfrenata competizione stavano le difficoltà di valorizzazione, per gli alti costi fissi e la sovracapacità produttiva, quindi la sovrapproduzione di capitale irrisolta dato il tipo di gestione della crisi scelta. Le soluzioni cercate a queste difficoltà non potevano però che renderle ancor più acute. Con la crescita dell’accumulazione infatti sono venuti alla luce i suoi costi non solo per i singoli capitali, ma per il capitale sociale nel suo insieme.
Vediamo cosa accadde.
I fattori determinanti nella crescita della produttività del lavoro negli anni 90 sono stati fondamentalmente due.
Una parte è stata generata dai cambiamenti nell’organizzazione della produzione, cioè “dalla migliore combinazione dei fattori produttivi, capitale e lavoro, resa possibile dalla digitalizzazione”; quindi “dalla maggiore efficienza del processo di produzione e dalla riorganizzazione delle imprese”, nonché, come la stessa BCE aveva rilevato, dalla crescita della intensità e durata del lavoro. Tutti elementi questi che non hanno richiesto un costo per il capitale.
Ma l’altro fattore determinante nella crescita della produttività è stata la crescita “dell’intensità di capitale” e quindi la sostituzione di macchinari a lavoro: e questo fattore non è affatto gratuito per il capitale.
Come si è visto, per ottenere guadagni di produttività sempre più forti si è investito molto e progressivamente sempre di più, soprattutto in nuove tecnologie infotelematiche. La crescita dell’intensità di capitale che quest’ondata d’investimenti ha implicato, era stata favorita dal ribasso del prezzo relativo dell’investimento, dovuto alla crescita della produttività negli stessi settori che producevano nuovi macchinari: in particolare, il prezzo relativo dei computer cadde del 20% l’anno dal 92 al 94 e del 35% l’anno dal 95 al 98. Per l’insieme delle TLC il ribasso fu del 6-7% l’anno dal 91 al 94 e del 12-13% l’anno dal 95 al 98 (P. Artus).
La crescita di più di cinque punti del tasso d’investimento in volume dal 92 al 2000 ha corrisposto così ad una crescita di tre punti del tasso d’investimento in valore. La forte svalorizzazione del capitale speso in macchinari informatici ha fatto quindi si che per tutta una fase della ripresa dell’accumulazione negli anni 90, la quantità di capitale fisso, cioè il valore del macchinario, in rapporto al prodotto non sia aumentata (quindi la produttività del capitale non si è ridotta) nonostante i massicci investimenti in volume.
La svalutazione del capitale speso in macchinari ha dato dunque un sostanziale contributo al fatto che il peso, in termini di costi per il capitale, della crescita dell’intensità di capitale, non si sia manifestato subito, favorendo così l’accumulazione per una buona parte degli anni 90.
D’altra parte, nel corso del decennio, spinte dalla costrizione della concorrenza, le imprese hanno intensificato oltre misura l’introduzione di nuove tecnologie e quindi la sostituzione di capitale fisso a lavoro.
Questa ondata d’investimenti ha implicato dei costi cresciuti molto rapidamente, finché il peso del macchinario si è infine accresciuto non solo in volume, ma anche in valore, ad un livello tale da generare una riduzione della produttività del capitale (vedi grafico 4).
Infatti, come già rilevava Marx, “il ribasso relativo dei costi dei mezzi di produzione determinato dalla crescita della produttività, non esclude che la somma assoluta del loro valore aumenti, poiché il saggio assoluto del loro impiego cresce enormemente con lo sviluppo della produttività stessa e con l’aumento, che vi si accompagna, della scala di produzione; la loro massa (volume) cioè cresce più rapidamente di quanto diminuisca il loro valore”.
Gli effetti dello sforzo d’investimenti tra il 95 e il 2001 sono riassunti in questi dati: il capitale produttivo è cresciuto in volume del 6% l’anno (il 3% negli anni 80); il rapporto capitale/ore lavorate è aumentato del 4% l’anno; la produttività del capitale è diminuita dell’1,75% l’anno.(P. Artus). In rapporto alla produzione è stato necessario sempre meno lavoro, ma ci sono volute sempre più macchine, con le conseguenze negative sul saggio di profitto che si manifestarono nel 97 (vedi grafico 5).
I costi della crescita dell’intensità del capitale non sono stati compensati dal contributo gratuito alla crescita della produttività dato dai miglioramenti nell’organizzazione della produzione e nella gestione delle imprese che le nuove tecnologie hanno permesso, né dalla crescita del saggio di sfruttamento dovuta all’aumento dell’intensità e durata del lavoro, che pure è stata, come si è visto, particolarmente significativa in USA negli anni 90.
D’altra parte vitale era dare uno sbocco alla “produzione di massa” frutto della crescita della produttività e della scala di produzione. Ma il consumo solvibile, per quanto sostenuto artificialmente, non era in grado di correre dietro alla crescita della capacità produttiva, della scala e dei volumi di produzione. Il tasso di utilizzo delle capacità produttive in USA non crebbe dal 94. Ciò in un contesto di sovracapacità produttiva a livello mondiale in tutte le produzioni: “lo scarto tra produzione potenziale e consumo atteso era di circa un terzo”; il divario tra produzione effettiva e capacità produttiva era valutato quasi più grande che durante la grande depressione degli anni 30. E così anche il secondo classico ostacolo insito nella natura stessa del rapporto di capitale (strettamente connesso al primo) dette il suo contributo alla caduta del saggio di profitto.
Di fronte alla svolta nel saggio di profitto del 97, la FED decise di sostenere ancora artificialmente l’accumulazione con una politica monetaria espansiva tesa sia a facilitare ulteriormente il finanziamento delle imprese, riducendo il costo dei nuovi investimenti, sia a sostenere i consumi, permettendo così un’estensione dei volumi di produzione. Si favorì quindi una crescita ancor più vorticosa dell’indebitamento d’imprese e famiglie, che dissimulò gli squilibri maturati all’interno del processo d’accumulazione venuti alla luce nel 97. Ne seguì un nuovo boom degli investimenti in tecnologie informatiche, con conseguente crescita della produttività. Così si rese però ancor più acuta la crisi, che si manifestò infine chiaramente nel 2000, quando proprio gli investimenti in TIC, traino dell’economia americana negli anni 90, diventarono l’elemento scatenante della crisi, riducendosi drasticamente.
La crescita fittizia della cosiddetta New Economy (internet…) di fine anni 90, alimentata dalla politica monetaria espansiva, aveva rappresentato infatti il maggior sbocco per le imprese produttrici di beni d’investimento in TIC (computer, server, software, chip…) incentivando una crescita degli investimenti in questo settore.
Ma quando, a causa degli alti costi fissi e dei prezzi tirati verso il basso dalla moltiplicazione di nuove imprese nel settore della New Economy, queste accumularono perdite, la comunità finanziaria prese atto della sopravvalutazione fatta al loro riguardo rifiutando di rifinanziarle e le più fragili di esse videro presto cadere attività e valore borsistico.
Si sgonfiò così però anche il boom d’investimenti in TIC di cui erano state protagoniste, con gravi conseguenze per i grandi produttori di TIC, che già peraltro risentivano del calo della domanda di queste tecnologie da parte dei settori tradizionali.
Col rallentamento dell’accumulazione nei settori che utilizzano beni d’investimento TIC si sono manifestati nel settore TIC stesso gli alti costi in macchinari della crescita della produttività e la sovracapacità produttiva.
Fanno testo le innumerevoli lagnanze dei manager del settore che parlavano di “una domanda debole in rapporto alla capacità produttiva e a costi fissi difficilmente comprimibili”, in concomitanza con una guerra dei prezzi dovuta all’estrema concorrenzialità. Che la crisi sia esplosa a partire dal settore TIC si spiega, in conclusione, sia per la sua funzione di produttore di macchinari informatici utilizzati negli investimenti in questa fase, sia perché è proprio in questo settore che più si erano manifestati i caratteri del processo di accumulazione degli anni 90. La crisi si è poi velocemente trasmessa al resto dei settori manifatturieri “con una decelerazione tanto più forte quanto più grossa era stata la sovraccumulazione precedente”.
Da quanto si è visto dovrebbe essere chiaro quanto sarebbe sbagliato leggere la crisi in cui è sfociato il processo d’accumulazione degli anni 90 a partire dalle contraddizioni generate dall’accumulazione abnorme di capitale fittizio, che pure si verificò. I processi di finanziarizzazione del capitale che caratterizzano in parte questi anni, avevano origine nelle funzioni da essi svolte a sostegno dei crescenti costi che la crescita dell’accumulazione implicava per il capitale industriale. E la bolla speculativa e il crollo della Borsa nel 2000, non furono che una manifestazione secondaria di una crisi che va cercata nella dinamica interna al capitale produttivo.
La crisi del 2000 produsse 2 milioni e 700.000 disoccupati da inizio 2001 a inizio 2003, fino ad allora un record dal dopoguerra. I profitti nel 2001 crollarono del 17%, la più grossa caduta dagli anni 30. In seguito alla riduzione del CLUP (costo del lavoro per unità di prodotto) del 2,5% nel 2002 e del 1,2% nel 2003, dovuta alla riduzione dei salari e ad una crescita della produttività quasi interamente ottenuta con una maggiore intensità del lavoro, i profitti si ripresero già nel 2002 crescendo del 17%. Un ruolo fondamentale però lo svolse lo Stato, che intervenne subito anzitutto con una riduzione del tasso d’interesse della FED dal 6,5% all’1,75% nel solo 2001, allo scopo sia di evitare un crollo ancor più pesante della Borsa e del credito, che avrebbe avuto effetti disastrosi per il finanziamento delle imprese e in generale sull’economia reale iperindebitata, sia per sostenere i consumi, unica via immediata per tenere sotto controllo la crisi produttiva. Le industrie tradizionali, auto e immobiliare in primis, grazie alla riduzione dei costi del credito al consumo e dei tassi sui mutui (legati al tasso FED), svolsero così un ruolo di ammortizzatori a fronte del generale ribasso della produzione delle imprese, sostenendo la congiuntura (gli investimenti in costruzioni crebbero del 16% nel 2001).
Oltre che con la politica monetaria lo Stato intervenne con una politica fiscale aggressiva. Il taglio delle tasse di 1.300 miliardi di dollari in 10 anni (leggi del 2001/02/03) sostenne i redditi medio-alti e il loro consumo. Ma soprattutto la spesa militare svolse un ruolo determinante, sin dall’autunno/inverno del 2001, con le guerre afgana e poi irakena come volano.
La crescita della spesa pubblica e il taglio delle tasse fece passare il bilancio pubblico da un attivo dell’1,3% del PIL nel 2000 ad un passivo del 4,8% nel 2003.
D’altra parte, con una graduale svalutazione del dollaro, a scapito soprattutto dell’euro (che da inizio 2002 ad inizio 2004 si rivalutò del 40%), si cercò di rivitalizzare l’industria americana aprendole nuovi sbocchi di mercato.
Questo massiccio intervento dello Stato, con modalità fino allora inedite dalla grande crisi del 29, riuscì effettivamente ad evitare l’aggravarsi della crisi finanziaria e reale, e portò ad una ripresa del PIL a ritmi più sostenuti da metà 2003. D’altra parte questo intervento non fece altro che rinviare, amplificandole, le contraddizioni all’origine della crisi, cosicché quest’ultima è riesplosa con molta più virulenza nel 2007. Come ha scritto Cipolletta (confindustria), “l’economia americana era già all’inizio di una recessione nel 2001…la recessione fu evitata (con misure eccezionali di sostegno all’economia, fiscali e monetarie), ma fu avviato anche un ciclo di espansione forzata durato fino ai nostri giorni”…”Il prezzo è stato uno squilibrio ancora più forte, da cui sono derivate le bolle speculative sul mercato immobiliare e poi su quello finanziario, che oggi ci fanno tanta paura”.
 

Grafico 4 - USA: produttività del capitale e crescita volume/valore capitale fisso 1985-2000

L’aumento della struttura del capitale; stock di capitale produttivo in rapporto al PIL (in %)

 

Grafico 5 - USA: erosione dei profitti dal 1997

Quota dei profitti delle imprese USA non finanziarie in percentuale del PIL corrente

 


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