SENZA CENSURA N. 30
novembre 2009
editoriale
Vorremmo provare, con questo 
editoriale, a ragionare ancora sulla crisi.
Questo sia perché è un fenomeno che sta incidendo pesantemente sulle condizioni 
di vita e di lavoro di tante persone, sia perché su questo argomento continuiamo 
a sentire e a leggere su buona parte dei media una marea di mistificazioni.
Non è nostra intenzione approfondire qui quali siano le reali origini di questa 
crisi e qual’è la sua natura. Per questo rimandiamo tra l’altro alla lettura 
dell’interessante analisi di cui, in questo numero, pubblichiamo la seconda 
parte.
Né spenderemo parole per raccontare le innumerevoli ingiustizie, i soprusi, le 
tragedie che stanno avvenendo quotidianamente con l’alibi della crisi. Del resto 
ognuno di noi ne ha piena conoscenza, direttamente o indirettamente (i più 
fortunati…).
Tenteremo invece, come al solito, di sviluppare una traccia di riflessione che 
ci auguriamo possa esser utile per la comprensione del quadro più generale.
Capitalismo e crisi
Innanzitutto ci sembra comunque doveroso sgomberare il campo da un’ambiguità di 
fondo: la crisi non è una calamità naturale e possiamo tranquillamente affermare 
che da quando esiste il capitalismo esiste pure la crisi. E da sempre esistono, 
conseguentemente, delle strategie di gestione adeguate alle diverse fasi messe 
in campo dagli imprenditori e dai governi che, attraverso le diverse politiche 
economiche, cercano di volta in volta di scaricare i costi della crisi stessa 
sulle categorie subordinate, locali o lontane che siano. Anche per definire 
queste categorie una volta era più semplice, bastava dire “proletari” e ci si 
capiva senza troppa fatica; ora dovremmo parlare di operai, dipendenti, precari, 
disoccupati, consumatori, utenti, immigrati, ecc.
Queste strategie, quando non passano per la guerra, definiscono da sempre dei 
processi di ristrutturazione del sistema produttivo che ovviamente hanno 
ripercussioni pesanti sia sulle cosiddette relazioni industriali sia sul sistema 
sociale nel suo complesso.
Se pensiamo agli ultimi trent’anni, ne abbiamo un limpido esempio: abbiamo 
assistito ad una radicale trasformazione che ha segnato la fine di una fase 
durata fino a circa la fine degli anni settanta e che gli economisti hanno 
definito il “welfare state”, cioé, semplificando, l’insieme delle politiche di 
intervento da parte dello stato a sostegno del sociale attraverso i cosiddetti 
ammortizzatori sociali.
La trasformazione è stata violenta, profonda e radicale, e si è sviluppata senza 
esclusione di colpi su più fronti che qui riepiloghiamo sommariamente: da quello 
sindacale (l’attacco allo statuto dei lavoratori, la svolta dell’Eur) a quello 
istituzionale (mani pulite, il passaggio alla seconda repubblica), da quello 
industriale (l’esplosione dei processi di decentramento e di delocalizzazione) a 
quello del mercato del lavoro (sviluppo delle agenzie interinali, mobilità, 
legislazione sul lavoro). E, naturalmente, in questo processo ha auto un ruolo 
fondamentale l’attacco alle soggettività rivoluzionarie, l’evoluzione 
dell’apparato giudiziario e legislativo e la criminalizzazione costante di ogni 
forma di organizzazione o di iniziativa rivolta alla difesa degli interessi di 
classe.
Un lucido massacro
Analizzando la realtà attuale, possiamo affermare che questa trasformazione può 
dirsi ormai completa ed è arrivata ad un risultato tale che probabilmente 
nemmeno i più fanatici sostenitori del liberismo si sarebbero immaginati di 
poter raggiungere.
In questo percorso si è andata consolidando anche un’adeguata classe dirigente, 
arrogante e volgare, di cui oggi Berlusconi non a caso è la degna sintesi.
Una volta c’era un modo per rappresentare ironicamente il padrone: era la 
caricatura di un maiale, grasso, disgustoso, insaziabile, riverito dai suoi 
servi…
E’ proprio questa classe dirigente, sono questi padroni, che da una parte stanno 
utilizzando in pieno questa crisi per ottimizzare le proprie strategie 
economiche e aziendali e dall’altra si riempiono la bocca con discorsi sulla 
“lotta alla crisi”.
La realtà è che a fronte di un processo oggettivo di crisi, si evidenzia una 
scelta di governo (soggettiva) che non ha come obiettivo la definizione di una 
politica economica e di un conseguente sistema di relazioni, ma che sceglie 
lucidamente lo sciacallaggio, il massacro.
E questo peraltro non pensiamo sia nemmeno imputabile alla particolare 
“cattiveria” di questa classe dirigente, ma lo interpretiamo come un 
comportamento strutturale, risultato proprio dell’attuale grado di “sviluppo” 
del sistema del capitale nel suo complesso.
Questa soggettività infatti affronta la crisi col monopolio della forza e senza 
nemmeno preoccuparsi di mascherarlo. E’ così evidente che a volte le scelte di 
“gestione” della crisi sono palesemente in contraddizione con ogni “ragionevole” 
ottimizzazione del sistema economico o con il concetto di produttività stessa.
Sta di fatto che sulla classe non si riversa solo la violenza della crisi 
economica, ma anche la conseguente opera di sciacallaggio da parte di padroni, 
palazzinari e compagnia bella. 
Non si tratta qui invece di “difendere” o sostenere la produzione.
Il punto infatti non è gestire una crisi oggettiva e cercare di limitare i danni, 
ma viceversa non dare sempre per scontata la crisi: la crisi è anche soggettiva, 
c’è perche il capitale oggi fa il gioco più sporco che mai.
Si tratta, in sintesi, di affermare con chiarezza che c’è qualcuno che con 
l’alibi della crisi non si accontenta più solamente di distruggere i “rami 
secchi” ma attacca e distrugge risorse che ci riguardano direttamente.
Ora basta!
Che sia sul terreno del lavoro o su quello della salute e dell’ambiente, 
riconoscere che non c’è più alcuna ragionevole giustificazione ai soprusi e alla 
devastazione, che non c’è più alcun margine di mediazione con una controparte 
che con totale arroganza persegue i propri interessi personali, può essere 
origine e innesco di forme di autoorganizzazione e di lotta oggettivamente 
interessanti e diverse dalle classiche esperienze di “resistenza” su cui per 
anni si è sopravvissuti.
Probabilmente non sarà il piano ideologico, almeno a nostro avviso, a costituire 
oggi il volano per la ricomposizione degli spezzoni di classe più attivi, ma la 
crescente consapevolezza che ormai da una parte non esiste più la possibilità di 
avere un soggetto-padrone con cui confrontarsi e dall’altra che l’azione del 
potere mette definitivamente in discussione la condizione materiale e la qualità 
della nostra esistenza e di quella dei nostri figli.
Le forme di lotta “estreme” a cui abbiamo assistito negli ultimi mesi, in Italia 
come in altri paesi europei, non vanno a nostro avviso interpretate (e a volte 
liquidate) come frutto della disperazione. In esse forse è possibile intravedere 
un riconoscimento del piano reale dello scontro in atto in questa fase e la 
ricerca, quindi, delle forme di lotta più adeguate a sostenerlo.
Certo, nella totale assenza di una più complessiva prospettiva politica di 
classe, spesso queste “manifestazioni” restano parziali o isolate. Ma ciò non ne 
riduce il valore perché, come spesso ci è capitato di ripetere in questi ultimi 
anni, determinano comunque dei salti in avanti nella coscienza e nell’esperienza 
collettiva della classe dai quali è difficile tornare indietro.
Guru mediatici
Un’ultima considerazione.
A fronte del progressivo e naturale processo di delegittimazione delle ipotesi 
riformiste (altro aspetto da noi ampiamente trattato in precedenza), ma anche a 
fronte di una sensazione di tracollo, di smarrimento, quasi di incredulità che 
si percepisce nelle discussioni (o nel silenzio) di molti militanti nell’area 
antagonista, sta acquistando sempre più rilevanza in questa fase dello scontro 
il piano della comunicazione. Purtroppo è proprio questo piano a diventare 
sempre più di frequente il luogo dove questo tipo di contraddizioni sociali si “formalizzano”, 
consentendo così a nostro avviso una loro ricollocazione in forme e modalità 
compatibili. Pensiamo all’enorme seguito che hanno guru mediatici come Santoro o 
Grillo, e a come le loro invettive contro le mostruosità del sistema politico ed 
economico diventino nella maggior parte dei casi il riferimento di un’ulteriore 
qualunquistica delega dei propri pensieri e dei propri bisogni.
Individuare i responsabili
E’ sul territorio, invece, che questa “indignazione” deve riuscire a 
trasformarsi in capacità di azione concreta, in capacità organizzativa e di 
difesa collettiva, in critica radicale e denuncia di un sistema che vorrebbe far 
passare questa crisi come una calamità “oggettiva” che colpisce tutti e a cui 
tutti devono cercare soluzioni. 
E’ necessario individuare le responsabilità concrete di chi, nel perseguimento 
sfrontato e vergognoso dei propri interessi soggettivi, la crisi più che subirla 
la fa pagare cara, e cioé quelli che una volta venivano semplicemente 
classificati come “padroni” e che oggi sono più che mai identificabili e 
riconoscibili.