SENZA CENSURA N. 30
novembre 2009
Dalla lunga crisi alla grande crisi
Seconda parte
Pubblichiamo la parte conclusiva del lavoro di
analisi sull’evoluzione della crisi negli Usa. La prima parte, che prende in
considerazione il periodo storico dagli anni ‘60 al 2000, è reperibile sul
numero scorso. Pensiamo che questo contributo possa essere un utile strumento
per una più chiara comprensione della situazione con la quale ci confrontiamo
oggi.
2003/2006 - Sfruttamento Globale e
Credito a Go-Go per rilanciare i profitti
Dal punto di vista dell’economia reale, non essendosi verificata alcuna
significativa eliminazione di capitali in eccesso, l’unico elemento
relativamente nuovo alla base della ripresa dell’accumulazione post crisi in USA
fu una ancor più accentuata deflazione salariale (per il periodo 2000-2007 la
crescita del salario mediano è stata solo dello 0,1%, mentre il reddito mediano
della famiglia diminuiva dello 0,3% all’anno in termini reali. La parte della
remunerazione del lavoro nel reddito nazionale scese al 51,6% nel 2006 dal 54,9%
nel 2000), e più in generale una crescita del tasso di sfruttamento, favoriti da
una maggiore precarietà del lavoro all’interno e da un grande processo di
delocalizzazione produttiva da parte delle imprese americane (e non solo!) verso
i paesi di nuova industrializzazione, Cina in testa. E’ questa realtà che,
sostenendo il saggio di profitto, rese possibile una ripresa “forzosa”
dell’accumulazione senza correre il rischio che la non risolta sovrapproduzione
alimentasse un processo inflazionistico come negli anni ’70. Di questo erano ben
consapevoli i massimi responsabili nella gestione della crisi, come appare
chiaro da quanto scrive Greenspan:” col nuovo millennio i segnali di questa
tendenza (alla disinflazione) si sono fatti più evidenti…oltre alla
globalizzazione si erano sviluppate alcune forze di grande portata il cui
significato stava emergendo solo nel 2004”. Il crollo dell’Est e la scelta della
Cina e di altri paesi di nuova industrializzazione come l’India di aprirsi al
mercato globale, infatti avevano fatto sì che “più di un miliardo di lavoratori,
fra cui molti altamente qualificati, tutti con retribuzioni bassissime, hanno
iniziato a trasferirsi verso il mercato competitivo mondiale da economie che
erano state quasi del tutto…isolate dalla concorrenza globale”…”La Cina dà di
gran lunga il contributo più importante a questa tendenza ”…”Tali movimenti di
lavoratori sul mercato hanno ridotto il livello mondiale di stipendi,
l’inflazione, le aspettative inflazionistiche e i tassi d’interesse,
contribuendo così alla crescita dell’economia internazionale. Anche se il libro
paga collettivo della forza lavoro con una nuova collocazione è solo una minima
frazione di quello dei paesi sviluppati, ha un impatto considerevole. Non solo
le importazioni a basso costo hanno soppiantato la produzione e, di conseguenza,
la forza lavoro nelle nazioni sviluppate, ma l’effetto competitivo dei
lavoratori soppiantati in cerca di nuova occupazione ha anche ridotto gli
stipendi di quelli non direttamente coinvolti dalle importazioni a basso costo”.
In questo contesto, che allontanava almeno a breve termine il rischio
inflazionistico, la FED e il governo USA, a fronte di un processo di
accumulazione ancora debole e precario nel dopo crisi, accentuarono la loro
politica di intervento attivo, incentrata sulla spesa militare, che negli otto
anni di Bush crescerà del 30% con ricadute soprattutto sui settori hi tech, e
sul sostegno ai settori tradizionali, auto e immobiliare in primis, favorendo il
consumo a credito. Come ha ben detto un ex banchiere centrale europeo infatti,
“in un modello a bassi salari come era quello americano, il sostegno al consumo
poteva venire solo in un modo: con il credito”.
Al fine di incentivare il consumo le famiglie furono quindi incentivate ad
indebitarsi sempre di più: nel 2007 il rapporto tra debito e reddito aveva
raggiunto il 130%, il 30% in più rispetto a dieci anni prima. D’altra parte il
consumo raggiunse effettivamente un record storico passando dal 68% del PIL nel
2000 al 72% nel 2007.
A questo risultato contribuì in particolare il credito straordinario concesso
per l’acquisto di case, causa prima di indebitamento delle famiglie. Queste
infatti prendevano a prestito denaro sia per acquistare case, sia perché le
usavano come garanzia per ottenere altri fondi dalle banche. E questo in
crescendo, man mano che l’elevata domanda di case faceva lievitare i prezzi. E
dal 2000 al 2005 il valore di mercato delle case crebbe oltre il 50%. Così
anzitutto si innescò un grande boom del settore immobiliare, tanto che ad
esempio secondo Merril Lynch “circa la metà della crescita del PIL americano
nella prima parte del 2005 era imputata alla crescita del mercato immobiliare,
sia direttamente attraverso la costruzione e acquisto di immobili, sia
indirettamente attraverso la spesa resa possibile da cash flow rifinanziati”.
Dal 2001 in poi più della metà dei nuovi posti di lavoro erano legati alle
attività connesse al settore immobiliare.
Usando le case come garanzia per ottenere prestiti si alimentò più in generale
il consumo a credito in altri settori importanti, quale l’auto.
Questa straordinaria estensione del credito fu resa possibile dalla messa in
piedi di un sistema finanziario sempre più sofisticato e non regolamentato,
favorito dalla FED e dal governo americano, sulla scia del processo di
liberalizzazione finanziaria avviato sin dagli anni 80. Secondo un’ inchiesta
del New York Times, nel 2003 la FED e il governo scelsero consapevolmente di
rilanciare l’economia “privilegiando la promozione di innovazioni finanziarie e
l’aumento del numero di case di proprietà, a scapito della stabilità del mercato
immobiliare”.
Scopo dell’innovazione finanziaria era, nel contesto di una persistente
difficoltà di valorizzazione del capitale produttivo che generava una pletora di
capitale denaro inattivo, di concentrare tale capitale, attraendolo in parte
anche dall’estero, al fine di alimentare il credito. Due furono le fonti di
capitale denaro sfruttate, ambedue frutto degli effetti della stessa politica
americana di gestione della crisi del 2000.
La prima fonte fu l’incremento dei profitti delle imprese dei paesi
industrializzati, queste ultime investirono nella produzione meno di quanto
guadagnato, riversando il resto sui mercati finanziari: “l’investimento nominale
delle società in attività reali (scorte, impianti, macchinari, ecc…), è stato
ridotto, soprattutto in rapporto alle quantità che avrebbero potuto essere
garantite dalla elevata crescita della produttività negli ultimi anni, e una
quota maggiore di risparmi (profitti) aziendali è stata invece investita in
attività finanziarie. Ciò perché alcuni settori potrebbero avere investito
troppo durante il boom tecnologico ed essere ancora in fase di ammortamento di
questi investimenti”. (Rajan ex FMI).
In altri termini, perché continuava ad incidere negativamente il peso dei costi
in macchinari infotelematici, accumulati negli anni 90, sul processo di
accumulazione del capitale produttivo; e, più in generale, per il permanere
della sovrapproduzione dato il tipo di gestione della crisi fatta.
L’altra fonte si originava dal deficit estero americano, che stava inondando il
mondo di dollari: dal ’97 al 2006 la moneta mondiale, rilevabile dalle riserve
ufficiali delle Banche Centrali, era cresciuta da 830 a 3300 miliardi di
dollari. Il deficit estero era cresciuto soprattutto rispetto ai paesi asiatici,
Cina in testa, sia per la politica americana di incentivazione del consumo, che
in parte si rivolgeva all’estero, sia per la stessa delocalizzazione delle
multinazionali americane che importavano in USA i prodotti da loro fabbricati in
Asia Orientale e soprattutto in Cina.
Il denaro così accumulato nella regione asiatica, invece di essere reinvestito
in loco, ha ripreso la strada degli Stati Uniti.
Infatti, soprattutto Cina e Giappone avevano interesse a far acquistare dollari
dalle loro Banche Centrali per impedire una rivalutazione delle loro monete
(rispetto al dollaro stesso), che avrebbe causato una caduta delle loro
esportazioni in USA. Per sostenere il valore del dollaro questi paesi hanno
creato in questi anni un legame monetario, da alcuni definito” sistema informale
di Bretton Woods 2”, in cui le loro monete in qualche modo sono ancorate al
dollaro. Se negli anni ’70 erano soprattutto l’Arabia Saudita e i paesi del
Golfo a riciclare in dollari i proventi del petrolio acquistando titoli del
tesoro americani, quale contributo ai costi della sicurezza strategica garantita
ai loro governi dalla flotta americana, dal 2000 la Cina (soprattutto) mette in
moto la stessa politica per garantire la stabilità dei cambi col dollaro. Nel
marzo 2008 la Cina deteneva 1590 miliardi di dollari di riserva generati dal suo
surplus con l’estero, che si aggiungevano ai circa 2000 dell’Arabia Saudita e
del Golfo persico. Questi dollari in riserva delle Banche Centrali sono tornati
in USA sotto forma di investimenti finanziari. A fine 2008 due terzi delle
riserve valutarie cinesi, arrivate a 1800 miliardi di dollari, erano investite
in USA: 520 miliardi in titoli di Stato e altrettanti in operazioni più o meno
rischiose (tipo FREDDIE MAC e FARNIE MAE, due mega finanziarie specializzate nei
mutui immobiliari di cui si tornerà a parlare). Solo la Cina deteneva il 10% del
debito totale americano. Più in generale, a fine 2004 gli investitori esteri
coprivano il 13% delle azioni, il 24% delle obbligazioni e il 43% dei titoli del
tesoro americani. Se nei primi anni 90 i titoli del tesoro in mano a stranieri
erano il 18% del totale, nel 2007/08 erano arrivati al 52%. Nel 2009 i titoli
del tesoro in mano a stranieri erano 3100 miliardi di dollari, di cui 730 in
mano ai cinesi.
Questi dati ci danno un’idea del ruolo svolto dal capitale estero, e in
particolare da quello cinese, nel finanziamento sia della crescita della spesa
militare sia del boom immobiliare e quindi del credito al consumo, dunque in
generale dell’accumulazione del capitale americano nel dopo crisi. I dollari in
riserva delle Banche Centrali tornati sotto forma di investimenti finanziari
“hanno inflazionato i prezzi delle case, i titoli di Stato, i bond delle imprese
e, anche se meno, le azioni” L’”eccesso di liquidità” (la pletora di capitale
inattivo), che si accumulava nelle imprese e nei paesi con la bilancia
commerciale in attivo, è stata attratta e concentrata a sostegno
dell’accumulazione americana in particolare attraverso la creazione ad hoc di
nuovi “prodotti finanziari” messi a disposizione dal sistema finanziario
americano, con la copertura della FED e del governo. Vediamo dunque quali erano
le caratteristiche di questi nuovi “prodotti”.
Le banche “invece di tenere iscritti sui bilanci i mutui ipotecari, i prestiti
ad aziende, i prestiti ad alto rendimento per operazioni di Takeover (scalate,
acquisizioni di imprese), i prestiti concessi per investimenti sui mercati
emergenti e simili, hanno iniziato a farne dei pacchetti, chiamati CDO, che
potevano essere venduti ad altri investitori. Così potevano continuare a
guadagnare bene sui prestiti, mettendo a rischio poco o nulla del loro
capitale”. Hanno creato cioè obbligazioni dai flussi generati da una base
sottostante di altre obbligazioni, prestiti bancari, ecc… vendendoli ad
operatori non regolati (fondi, assicurazioni, società finanziarie, hedge fund,
SIV e altre banche) che erano a caccia di rendimenti più elevati di quelli
offerti dai prodotti tradizionali: un CDO (che sono cartolarizzazioni di
cartolarizzazioni) infatti rende più di una semplice cartolarizzazione, che
rende più di un titolo di Stato. Gli acquirenti di questi titoli derivati si
proteggevano a loro volta con altri derivati detti CDS (una assicurazione per
proteggersi dal rischio di default); questi CDS che nel 99 non esistevano
ancora, nel 2001 ammontavano a 630 miliardi di dollari, nel 2007 a 62000.
Gli acquirenti di questa massa di carta hanno fatto anche largo uso della “leva
finanziaria”: usando una proporzione minima di capitale proprio, come garanzia,
prendevano a prestito un capitale molte volte superiore: 20% di capitale proprio
e 80% di indebitamento era la norma.
L’abbondanza di denaro a disposizione e i bassi tassi d’interesse, tenendo basso
i costi della leva finanziaria, hanno moltiplicato le dimensioni
dell’indebitamento e spinto a investimenti sempre più redditizi e rischiosi
(come i CDO).
L’innovazione finanziaria, riducendo il rischio corso dai prestatori, che lo
potevano trasferire ad altri e polverizzarlo, ha aperto il mercato del credito a
nuove categorie di debitori prima escluse. E questo era lo scopo per cui è stata
favorita dal governo e dalla FED.
Come sostiene il nostro ex banchiere centrale europeo, “per l’amministrazione
Bush, le cartolarizzazioni rappresentavano una sorta di quadratura del cerchio,
perché permettevano di aumentare il credito senza mettere a rischio le banche,
le quali non avevano più incentivi per essere selettive con i debitori”.
Una delle basi di questi castelli di carta sono stati i mutui immobiliari,
permettendo di allargare enormemente quelli che si sono potuti indebitare per
acquistare case. I mutui infine sono stati elargiti a compratori anche senza
chiederne il reddito: gli ormai famosi subprime. I prestiti subprime aumentarono
dai 145 miliardi di dollari del 2001 ai 625 del 2005.
Questi mutui subprime sono stati quasi tutti cartolarizzati: le banche cioè per
trasferire e disperdere il rischio li hanno impacchettati in obbligazioni (ABS)
che sono state vendute ad altri investitori. Queste ABS a loro volta sono state
poi rimpacchettate (insieme ad altri titoli diversi dai subprime) da altre
banche in altre obbligazioni (CDO) e…vendute in tutto il mondo. Così come
sottolinea il nostro ex banchiere centrale, “oltre ad esternalizzare il rischio,
l’America riusciva a finanziare i propri consumi con i capitali delle banche e
degli investitori stranieri”.
Pochi mutui (i subprime) sono stati dunque impacchettati così tante volte che
hanno dato vita ad un mercato obbligazionario enorme. Così il rischio però
invece di sparpagliarsi si è moltiplicato. Questo castello infatti poteva
reggere finché il flusso dei pagamenti da parte degli indebitati “finali” fosse
continuato.
Ma ancora una volta sono state proprio le contraddizioni dell’economia reale a
determinare un nuovo scenario.
Dal giugno 2004 la FED aveva avviato un lento ma persistente rialzo dei tassi
d’interesse: con 17 rialzi in due anni il tasso FED passò dall’1% al 5,25%. Si
temeva infatti che la ripresa forzata dell’accumulazione dopo la crisi del 2000
potesse ad un certo punto innescare un processo inflazionistico, essendo rimaste
intatte le contraddizioni di fondo che si erano manifestate nella crisi stessa.
L’aumento dei tassi fu comunque assai graduale, sia per non far correre rischi
al sistema bancario, data l’impalcatura finanziaria messa in piedi, che doveva
peraltro continuare a svolgere il ruolo che gli era stato affidato, sia perché
nel 2004/05 il rischio inflazionistico era ancora basso per la lenta ripresa
degli investimenti produttivi e la crescita del tasso di sfruttamento che
abbiamo visto caratterizzare questi anni.
I nodi vennero al pettine però nel 2006. Anzitutto, infatti, come lucidamente
rilevava all’epoca Greenspan, “una volta completata la transizione della forza
lavoro precedentemente sottoposta a pianificazione centrale, desiderosa (!) e
capace di essere competitiva sui mercati mondiali, la tendenza al ribasso di
stipendi e prezzi delle economie sviluppate, almeno sulla base di queste fonti
globali, si arresterà… Il momento peggiore per il panorama economico mondiale e
per i politici non sarà quello in cui il fenomeno dei lavoratori in transizione
giungerà al termine, ma quello in cui il suo tasso di incremento comincerà a
rallentare… Quando il flusso di lavoratori raggiungerà l’apice, gli effetti
disinflazionistici cominceranno a diminuire, innescando una maggiore tendenza
inflazionistica. Che questo processo sia in corso è dimostrato, tra l'altro ,
dai sempre più numerosi segnali provenienti dalla finanza globale, in base ai
quali si potrebbe fissare la data della svolta del mercato di qui a tre anni o
meno”. Così “si arriverà a un punto in cui le Banche Centrali si ritroveranno di
nuovo sotto pressione per contenere le tendenze inflazionistiche”.
In effetti l’internazionalizzazione della produzione nel 2006 stava mostrando le
prime crepe: con lo sviluppo accelerato dell’accumulazione che la nuova
divisione internazionale del lavoro aveva stimolato in Asia (Cina e India in
primis) il rischio di sovrapproduzione si era esteso a quella area, dove si era
ingenerato anche un aumento del costo del lavoro.
Per farsi un’idea dei processi in atto, nel I trimestre del 2008, prima che la
crisi si facesse sentire, i salari in Cina crebbero dell’11,2% rispetto alla
media del 2007; e nell’area asiatica la crescita dei salari prevista nel 2008
era del 12% (del 14% in Cina).
Il CLUP (costo del lavoro per unità di prodotto) in Cina era cresciuto del 4,8%,
mitigato dalla crescita della produttività. I profitti si erano ridimensionati,
e l’inflazione aveva preso il volo.
Inoltre, già nel 2006, la crescita industriale di questi paesi stava generando
un aumento dei costi delle materie prime e degli alimentari a livello mondiale.
Anche sul piano interno, nel 2006 si manifestarono in USA i primi significativi
segnali che il processo di accumulazione stava nuovamente toccando i suoi
limiti. Come disse Bernanke (nuovo presidente della FED), “i tassi di utilizzo
delle capacità produttive (capitale e lavoro) si avvicinano ai massimi livelli
sostenibili”. La disoccupazione si era ridotta “pericolosamente” e la
produttività del lavoro crebbe nel 2006 solo dell’1%, a fronte di una media
annuale del 3,2% dal 2000 al 2004, e ciò per il “venir meno della forza
innovatrice degli investimenti in TIC” (Sole 24 ore)
Il CLUP nel IV trimestre crebbe del 6,6% (3,2% in media nel 2006), la più forte
crescita dal 2000; la crescita dei profitti aziendali calò nel IV trimestre e
gli investimenti si erano bloccati. Infine, il rialzo dei tassi FED cominciò nel
2006 ad incidere sulle vendite di nuove case e sui loro prezzi; tra gli
obiettivi della FED c’era effettivamente anche quello di moderare la bolla dei
prezzi immobiliari prima che scoppiasse, ma il rallentamento del settore
edilizio che ne seguì fu una delle cause di una crescita del PIL calata dal 3%
del 2005 al 2% del 2006.
La frenata dell’economia e il rallentamento del mercato immobiliare resero
infine milioni di americanoi incapaci di pagare i mutui. I clienti subprime
iniziarono a non rimborsare le rate sui mutui: nel IV trimestre 2006 i subprime
in difficoltà erano cresciuti del 13,3%, un record in 5 anni. Di qui prese avvio
la crisi finanziaria.
2007 - LA CRISI FINANZIARIA
La crisi, partita dai subprime, dal 2007 si è propagata sulle obbligazioni
garantite dagli stessi mutui, ed è poi deflagrata sugli investitori che più
utilizzavano l’effetto leva, fino ad esplodere tra le banche.
I titoli (ABS e CDO) in cui erano stati dispersi i mutui attraverso la
cartolarizzazione, diventano a questo punto carta di scarso valore. E nessuno sa
in quante ABS e CDO sia finito il rischio subprime. Questa incertezza manda in
breve tempo in tilt il mercato delle cartolarizzazioni, anche di quelle non
legate ai subprime. Nessuno le vuole più comprare e i prezzi crollano anche più
dell’80%. Congelato il mercato delle cartolarizzazioni la crisi si propaga a
tutte le obbligazioni.
Le banche sono le prime a soffrire perché sono state tra i principali acquirenti
di titoli spazzatura: hanno il 24,9% del totale di CDO, 746 miliardi di dollari
(gli altri li hanno i Fondi, le assicurazioni, gli Hedge Funds).
Molte banche hanno comprato CDO anche attraverso speciali società veicolo fuori
bilancio (SIV), che hanno acquistato CDO usando un forte effetto leva,
indebitandosi molto. Le banche così sono dovute intervenire per salvarli
inglobando nei propri bilanci le loro perdite.
Il crollo delle cartolarizzazioni e i salvataggi dei SIV causano quindi pesanti
perdite per le banche.
La crisi arriva ai CDS, di cui le banche erano i principali venditori (43% del
mercato); di qui il timore che non fossero in grado di farsi carico di eventuali
perdite di obbligazioni in default, dato il loro stato di crisi. Infine la crisi
esplode anche in Borsa, per la corsa degli investitori a racimolare denaro
liquido.
La crisi di fiducia creata dalle difficoltà delle istituzioni finanziarie ha
fatto sì che le banche non si fidassero più l’una dell’altra: così non si
prestano più denaro sul mercato interbancario, e casomai a prezzi altissimi. E
l’interbancario “è il mercato dei mercati, il grande fluidificatore della vita
finanziaria globale”, la cui paralisi rischiava di bloccare l’intero sistema
finanziario. Si crea quindi presto una crisi di liquidità pesante a partire
dalle banche più esposte. A marzo la banca d’investimento BEAR STEARNS crolla.
Ed essendo i CDO stati venduti a mezzo mondo la crisi finanziaria investe anche
diverse banche in Europa.
La conseguenza finale della diffidenza che c’è nel mercato interbancario e della
quasi impossibilità di collocare cartolarizzazioni è che il denaro alle banche e
di conseguenza a coloro ai quali lo prestano, costa di più e il credito diventa
più selettivo, con conseguenze pesanti per l’economia reale.
Lo Stato è intervenuto massicciamente fin da subito (agosto 2007) tramite
l’intervento delle Banche Centrali che hanno fronteggiato la crisi del mercato
interbancario rifornendo di liquidità con enormi finanziamenti le banche,
cercando di garantire la stabilità del sistema finanziario nel suo complesso.
Nel marzo 2008 la FED interviene direttamente nel salvataggio di BEAR STEARNS
con una garanzia di 30 miliardi.
Dal settembre 2007 poi la FED inizia anche una manovra di riduzione del tasso
d’interesse, non solo per sostenere le banche, ma anche l’economia reale. Il
settore immobiliare infatti cadeva del 9,7% nel 2007 e del 15,3% nel 2008 e il
calo dei prezzi delle case incideva sulla spesa dei consumatori sin da fine
2007.
Nel febbraio 2008 anche il governo interviene avviando un piano di incentivi
fiscali di ben 168 miliardi.
La politica monetaria ultraespansiva non era comunque indolore per gli USA: in
un contesto di inflazione al 4,1% nel 2007, ai massimi degli ultimi 16 anni,
c’era il rischio di innescare un processo inflazionistico; a luglio 2008
l’inflazione era già al 5,6%. Anche il dollaro era a rischio;: da quando
nell’agosto 2007 la FED aveva cambiato impostazione di politica monetaria il
dollaro era precipitato rispetto all’euro e ad aprile 2008 si scambierà con
l’euro a 1,57, battendo di molto il record di 1,45 euro registrato sul marco
nell’aprile 95. Dal 2000 l’euro si era rivalutato sul dollaro dell’80%. E la
flessione del dollaro aveva coinvolto tutte le valute. Se dopo il 2001 era stata
favorita una svalutazione controllata del dollaro, in seguito alle conseguenze
della crisi finanziaria vi era dunque il rischio che la perdita di valore della
moneta americana diventasse incontrollata.
La riduzione dei tassi FED rendeva infatti meno appetibile i prodotti finanziari
americani. Come sostenne la People’s Bank of China, “il dollaro sta perdendo il
suo ruolo di valuta globale e il merito di credito degli asset nominati nella
moneta americana si sta riducendo”. La riduzione dei tassi FED, più in generale,
non coincideva con gli interessi della Cina e dei paesi petroliferi (i pilastri
del sistema monetario informale detto “Bretton Woods 2”), che per continuare ad
investire in dollari hanno bisogno di una valuta affidabile sui cambi; se si
svalorizza il dollaro infatti perdono valore le loro riserve.
Così, secondo Mundell, nel 2008 era in corso un lento trasferimento sull’euro di
circa 1000 dei 6000 miliardi di riserve in dollari sparsi per il mondo. Inoltre
molte Banche Centrali stavano acquistando oro: nel 2008 era “in corso una
ricomposizione delle riserve di molte Banche centrali e in questa occasione
l’oro torna ad avere un ruolo monetario” (Brunet). Così a marzo del 2008 l’oro
superava i 1000 dollari l’oncia, dai 739 del settembre 2007 e dai 520 del
dicembre 2005.
Nella primavera-estate del 2008 la svalutazione del dollaro fu anche una delle
cause principali dell’aumento dei prezzi delle materie prime, petrolio in testa,
e degli alimentari. Il petrolio arrivò a 147 dollari al barile. Questa impennata
dei prezzi fu dovuta soprattutto allo spostamento di denaro da parte degli
investitori finanziari dai titoli ormai svalorizzati, dalla finanza di carta, a
queste merci reali, il cui valore era ritenuto in crescita per la domanda in
continuo rialzo dei paesi di nuova industrializzazione, Cina e India in primis.
Questo aumento delle materie prime e degli alimentari fece impennare i prezzi in
USA ed Europa (oltre che nel resto del mondo!), con ulteriori rischi per
l’economia reale.
Quest’ultimo aspetto della crisi, generato in ultima analisi dalla politica
della FED, pur conservando una grossa rilevanza in prospettiva, è passato
momentaneamente in secondo ordine (il petrolio è precipitato a 40 dollari al
barile) con il precipitare della crisi finanziaria nel settembre 2008 e con la
sua trasmissione all’economia reale.
Anche l’inflazione e la svalutazione del dollaro si sono bloccate per la
medesima ragione; ma come vedremo questi sintomi della crisi sono destinati a
ripresentarsi non appena vi sarà una qualche ripresa.
SETTEMBRE 2008: la crisi precipita
Nel mese di settembre 2008 si ha una svolta nella crisi: il 7/9 si dovettero
nazionalizzare le due megafinanziarie che dominano il mercato americano dei
mutui (FREDDIE MAC e FANNIE MAE), a cui il mercato rifiutava di fare credito a
fronte del loro elevatissimo indebitamento. Era in gioco per di più la stessa
credibilità finanziaria degli USA, dato che i loro bond erano offerti sui
mercati internazionali con la garanzia implicita del tesoro, e tra gli
acquirenti c’era la Cina (per più di 300 miliardi di dollari).
Ma la vera svolta si ha il 14/9, quando il tesoro rifiuta di sostenere la banca
d’affari LEHMAN che va in bancarotta sommersa dai debiti e dai titoli
inaffidabili del mercato immobiliare. Il 16/9 in compenso viene salvata e di
fatto nazionalizzata la più grande assicurazione americana (AIG), rovinata dai
CDS. Anche qui pesa la sua presenza all’estero, specie in Cina.
Il 19/9 il tesoro annuncia un mega salvataggio (detto TARP I) delle banche del
valore di 700 miliardi di dollari, un fondo per acquistare i titoli illiquidi (CDO,
ecc) delle banche per liberarle dai crediti inesigibili e rianimare i prestiti.
Di fronte al crollo della Lehman e alle difficoltà incontrate a far passare il
mega piano al Congresso, il 29/9 crolla la Borsa dell’8,7%: “è la giornata più
convulsa degli ultimi 20 anni a Wall Street” La settimana dal 6 al 10/10 poi “
un vero tsunami investe tutte le borse” mondiali, per Wall Street è la peggiore
dal 1933.
Come scrive Spaventa,. “la crisi ha avuto una improvvisa accelerazione,
estendendosi all’Europa e minacciando la stabilità dell’intero settore
finanziario. Si è dovuto riconoscere che solo un massiccio intervento degli
Stati avrebbe potuto offrire una risposta adeguata”.
L’8/10 con un’iniziativa senza precedenti le sei maggiori Banche Centrali del
mondo industrializzato riducono insieme il costo del denaro.
Il 10/10 al G7 vengono concordati interventi dei governi per salvare le banche
in crisi. Questi interventi, disposti sia in Usa che in Europa “perseguono due
direttrici: un’ampia garanzia pubblica sulle passività delle banche, per
impedire episodi di panico; una ricapitalizzazione degli istituti in sofferenza
con partecipazioni assunte dallo Stato ove ciò sia necessario per assicurare
l’adeguatezza patrimoniale” (Spaventa).
Ma ormai le trasmissione della crisi alla economia reale era inevitabile: “
quando il processo di deleveraging si accelera e si trasmette dall’una all’altra
istituzione finanziaria, divengono inevitabili conseguenze pesanti sull’economia
reale delle imprese e delle famiglie”…l’unica via aperta alle banche infatti è “
quella di ridurre il valore del proprio attivo tagliando il credito a imprese e
famiglie. Le conseguenze quali già oggi si manifestano, possono essere pesanti.
Mancando il normale affidamento creditizio, imprese anche sane si possono
trovare in situazione di insolvenza verso i fornitori,; certamente devono
rinunciare agli investimenti progettati. Si riduce la provvista di mutui
fondiari alle famiglie. Le difficoltà delle famiglie e soprattutto delle imprese
si ripercuotono sulle banche, aumentandone le sofferenze” (Spaventa).
Le ricadute della crisi finanziaria danno dunque il colpo di grazia ad una
economia reale la cui crisi come sappiamo era già all’opera ed era all’origine
del crollo stesso del castello di carta.
Quasi tutte le principali economie avanzate hanno registrato contrazioni del
prodotto a partire dal III trimestre 2008, con una accelerazione dal IV
trimestre.
In USA il PIL del III trimestre è caduto dello 0,5% per la forte discesa dei
consumi privati (-3,8%), il netto allentamento dell’export e il persistente
ripiegamento degli investimenti residenziali. Il PIL del IV trimestre è caduto
del 6,2%, la contrazione più pronunciata dal I trimestre del 1982. La spesa al
consumo cade del 4,3%, il massimo in 28 anni. Per la prima volta dal 1947 i
consumi sono diminuiti di oltre il 3% per due trimestri consecutivi. Gli
investimenti aziendali sono scivolati del 28,8%, la peggiore performance dal
1958. L’export è caduto del 23,6%, le importazioni del 16%. L’inflazione è scesa
dal 5,6% di luglio allo 0,1% di dicembre, facendo temere la deflazione.
Dal dicembre 2007 al marzo 2008 si sono persi più di 5 milioni di posti di
lavoro. Nel 2008 sono diminuiti di 2,6 milioni, ciò che non accadeva dalla fine
della seconda guerra (1945). E più di due milioni solo da dicembre 2008 a marzo
2009, con un ritmo mensile tale che “occorre risalire al 1948 per trovare
sbandamenti occupazionali di queste proporzioni”. Il tasso di disoccupazione,
che era al 4,7% nel 2007, a fine 2008 era al 7,2% (a marzo 2009 era già
all’8,5%). I lavori a termine sono stati i primi ad essere eliminati; tenendo
conto poi dei lavoratori marginali, il tasso allargato di disoccupazione è
salito al 13,9%: 11,6 milioni di disoccupati e 7,8 milioni di “forzati del
part-time”.
I salari sono cresciuti di solo 0,3% a dicembre 2008 (+3,7% nel 2008, con una
inflazione del 4,2%!). Il costo del lavoro nel 2008 è cresciuto del 2,6%, il più
contratto dal 1982 (ma nel IV trimestre è addirittura sceso dello 0,5%). Questi
dati, secondo il Sole 24 Ore, “permettono alla Fed di continuare la politica dei
tassi zero!” tanto più che la produttività del lavoro è cresciuta nel IV
trimestre del 3,5%, risultato di una maggiore intensità del lavoro.
Ed è solo l’inizio, considerando quel che “silenziosamente” sta avvenendo
all’interno dei luoghi di produzione. A titolo d’esempio, le condizioni poste
per aiuti statali alla GM e Ford per “salvare l’azienda” sono oltre al drastico
taglio dei posti di lavoro, che la produttività, le norme di lavoro e i salari
vengano allineati sui livelli molto meno favorevoli delle fabbriche del Sud Est
in mano a stranieri e prive di sindacato. E poiché gli accordi della GM e Ford
sono di riferimento su scala nazionale, ciò condurrà “ad una netta diminuzione
dei redditi dell’insieme dei lavoratori dell’industria” (Le Monde Diplomatique).
Tutti i settori sono stati colpiti dalla crisi. Ma in particolare, oltre
all’immobiliare, il più colpito è quello dell’auto. Occorre chiedersi il perché
di una caduta verticale così veloce in questo settore. Va ricordato anzitutto
che (non solo in USA peraltro) l’auto (come l’immobiliare) “ha praticamente
saltato una recessione: per questo il tonfo è più pesante”. Infatti nel 2001 gli
incentivi e il sostegno al credito al consumo avevano gonfiato in modo
artificiale la domanda,permettendo alle imprese di tirare avanti a dispetto
della crisi. Ma la crisi finanziaria ha prosciugato il flusso di credito che
permetteva il grosso delle vendite di auto. Di qui il crollo della domanda, che
in USA da 16,1 milioni di auto vendute nel 2007 è passata alle 13,2 del 2008.
Questo in un settore dove la sovracapacità produttiva è superiore al 10%. Ma
questo fattore non spiega ancora i buchi così profondi nei conti delle aziende
che si sono verificati in breve tempo. Per dirla con le parole di un investitore
finanziario, l’auto “è un business a forte intensità di capitale, così se le
vendite si arrestano il conto economico va subito in perdita, dato che i margini
(i profitti) medi industriali sono al 4-5 %” (e da cinque anni in effetti,
nonostante gli stimoli, i profitti non salivano). Il settore dell’auto è insomma
“caratterizzato da enormi costi fissi e gli investimenti per stabilimenti,
attrezzature e nuovi modelli vanno sostenuti indipendentemente da quante auto
sono vendute. Dati questi costi ogni costruttore ha un certo volume di vendite
in corrispondenza del quale è in pareggio, cioè i ricavi coprono i costi fissi
più quelli variabili. Sotto il punto di pareggio, la perdita cresce rapidamente
al crollo dei ricavi: GM e FORD nel solo III trimestre 2008 hanno perso 6-7
miliardi di dollari”.
Sappiamo già dall’analisi della crisi del 2000 che il settore dell’auto non è
certo il solo ad essere afflitto da questa contraddizione, che anzi rappresenta
la causa principale della crisi che colpisce il capitale dagli anni 60 in poi.
Da qui la velocità con cui anche gli altri settori sono stati investiti dalla
crisi. Il settore dell’auto ha la sola caratteristica di “ aver saltato una
recessione” e dunque di essere stato quello più esposto di fronte alle ricadute
della crisi finanziaria.
Avendo l’economia americana svolto la funzione di perno nella divisione
internazionale del lavoro che ha caratterizzato il ciclo d’accumulazione del
capitale a livello mondiale in questa fase, la sua crisi ha investito la catena
del sistema produttivo globale trasmettendosi velocemente a tutto il mondo.
L’Europa è entrata in recessione sin dal III trimestre 2008.
Colpita in particolare la Germania, che ha
sofferto per il calo delle esportazioni, data una specializzazione in beni
durevoli e macchine utensili, vendute soprattutto ai paesi di nuova
industrializzazione. A febbraio 2009 gli ordini di macchinari utensili sono
calati del 49% annuo, il peggior risultato dal 1958.
Da settembre 2008 a febbraio 2009 nella UE si sono persi più di due milioni di
posti di lavoro. A parere di un pool di 200 manager e consiglieri
d’amministrazione, per le imprese europee “ si apre la prospettiva di un nuovo
ciclo di ristrutturazione che deve essere affrontato al più presto agendo sul
perimetro delle aziende e sui costi, attraverso la leva occupazionale e la
riduzione dei costi”.
Colpita anche l’Asia, il cui sistema produttivo è strettamente legato all’export
in crisi e molto interdipendente al suo interno. L’Asia Orientale infatti
esporta materie prime e semilavorati, e il Giappone tecnologia avanzata, in
Cina; che a sua volta realizza la parte finale della produzione e spedisce i
manufatti completi all’estero, USA in primis.
In Cina l’export rappresenta il 37% del PIL; il 60% di questo export è gestito
dalle multinazionali estere che hanno delocalizzato sul suo territorio; il 20% è
diretto in USA. La caduta dell’export in seguito alla crisi globale, ha messo in
evidenza la forte sovracapacità produttiva nell’economia cinese (in cui il
consumo interno vale solo il 40% del PIL) e ha messo in crisi le fabbriche
manifatturiere, provocando così nel 2008 la perdita di ben 20 milioni di posti
di lavoro.
Il PIL del IV trimestre è cresciuto del 6,8% (9% nel III trimestre).
L’inflazione tra luglio e agosto 2008 è caduta dal 6,3 al 4,9%.
Lo Stato è intervenuto sia attraverso la Banca Centrale, che per la prima volta
in sei anni ha ridotto i tassi d’interesse (5 tagli in tre mesi) e che ha
abbassato la riserva obbligatoria, sia con un mega piano di 590 miliardi di
dollari per il prossimo biennio, con programmi d’investimento in infrastrutture
e servizi sociali, per sostenere la domanda interna.
Essendosi ridotte anche le importazioni cinesi, tutta l’Asia Orientale ne ha
risentito. Quanto al Giappone, che ha nella Cina il più importante partner
commerciale oltre ad essere in generale dipendente dall’export globale, è in
recessione dal 2008, per il crollo dell’export (-35% nel solo dicembre 2008) e
la flessione degli investimenti privati produttivi. La produzione è caduta del
9,6%; la disoccupazione è passata al 4,4% dal 3,9%. Quasi tutti i lavoratori a
termine sono stati licenziati.
Infine, tutte le economie emergenti sono state investite dalla crisi attraverso
il deflusso di capitali esteri e la riduzione dell’export. La crisi ha fatto
crollare poi i prezzi delle materie prime, con ricadute pesanti sui paesi
produttori.
Di fronte al crollo dell’economia reale si sono moltiplicati i piani di sostegno
statale in tutto il mondo, raggiungendo la cifra complessiva di 23000 miliardi
di dollari (fino a marzo 2009), più della metà dei quali generati dai piani
straordinari messi in atto dalla FED e dal governo americano.
Il 16/12/08 la FED decide di creare denaro illimitatamente per un certo periodo
portando il tasso d’interesse tra lo 0 e lo 0,25%. Inoltre decide di acquistare
sia titoli finanziari garantiti da mutui per sostenere il mercato immobiliare,
sia titoli di Stato a lungo termine. La fed passa dunque a misure di
monetizzazione del debito pubblico, come nell’economia di guerra (1942/51), pur
essendosi opposta da un quarto di secolo ormai alla monetizzazione dei deficit.
Non potendo più operare sul costo del denaro la FED opera sulla sua quantità. Lo
scopo è abbassare i tassi di mercato a lunga e fare così ripartire il credito a
imprese e famiglie, ad un basso costo.
Il governo americano per parte sua vara due mega piani: il primo prevede quasi
2000 miliardi di sostegno alle banche (il cosiddetto TARP II); il secondo, un
piano di quasi 800 miliardi, prevede sgravi fiscali e investimenti in energia,
istruzione, infrastrutture, sanità e aiuti a poveri e disoccupati.
In totale, dall’inizio della crisi, lo Stato americano ha messo a disposizione
circa 12-13000 miliardi di dollari (il PIL USA è di 14000!); la seconda guerra
ne costò, al valore di oggi, 3600- Di questi ne sono già stati impiegati 3800,
di cui 500 effettivi (gli altri teoricamente potrebbero rientrare in futuro in
base al valore del collaterale o dei titoli azionari avuti in cambio).
2009…
quali prospettive?
Quale sarà a questo punto l’evoluzione di questa crisi e quali effetti avranno
su di essa i mega piani statali avviati?
Qualcuno si chiede già “se le stesse politiche che sono state la causa del
crollo del sistema ne possano essere la soluzione”…per altri,più drastici, “gli
interventi prolungheranno la crisi”. Cominciamo col dire che nella dinamica del
capitale la crisi svolge classicamente alcune fondamentali funzioni.
Vediamole in breve.
Anzitutto vi si opera una parziale distruzione di capitale, per l’ammontare di
valore dell’intero capitale addizionale sovraprodotto o almeno di parte di esso:
quindi non solo una svalorizzazione del capitale fittizio, ma anche una
distruzione di mezzi di produzione, una svalorizzazione di macchinari e materie
prime e delle merci in genere.
In secondo luogo l’acutizzazione della concorrenza sprona ogni singolo capitale
a cercare una maggiore produttività del lavoro sia mediante nuovi macchinari e
tecnologie sia rivoluzionando l’organizzazione del lavoro.
In terzo luogo nella crisi si ricostituisce un adeguato esercito industriale di
riserva, che preme sulla forza lavoro occupata e la costringe ad accettare una
crescita dell’intensità e durata del lavoro e salari più bassi. Si accresce
quindi il saggio di sfruttamento.
In sintesi, funzione della crisi è ristabilire “un adeguato rapporto tra
profitto e capitale” e aprire la via ad una nuova ripresa del processo
d’accumulazione.
Il grado in cui questi elementi agiranno nella grande crisi del 2007…dipenderà
dagli effetti che riusciranno ad avere i mega piani di salvataggio messi in
piedi. Se essi falliranno potrà anche verificarsi una depressione tipo anni
trenta.
Le altre due ipotesi prospettate sono una lunga stagnazione (del tipo di quella
che ha afflitto il Giappone per tutti gli anni 90) e una crisi intensa ma breve
che manterrà sostanzialmente intatta la capacità produttiva esistente.
L’esperienza storica degli anni trenta ci dice che in ogni caso la crisi non fu
risolta né dalla depressione né dal New Deal, bensì dalla guerra, che distrusse
forze produttive a sufficienza per permettere la successiva “età d’oro” del
capitale (1945/65).
Ciò premesso, se i mega piani attuali riuscissero ad avere un qualche effetto,
questo sarà comunque di mettere un freno alla distruzione e svalorizzazione del
capitale e di impedire un ridimensionamento della capacità produttiva, lasciando
ancora una volta irrisolta la sovrapproduzione di capitale.
D’altra parte la “ripresa” produttiva avverrà in un contesto in cui comunque il
ruolo del credito sarà ridimensionato, sia per il lungo periodo occorrente per
il riassesto del sistema bancario, sia per la, per quanto blanda, prevista
regolamentazione del sistema finanziario, tesa a ristabilire un minimo di
controllo centralizzato sulle sue dinamiche spontanee, portatrici di ulteriori
contraddizioni in un contesto già caratterizzato dalle difficoltà di
valorizzazione del capitale produttivo. Ma minor credito vorrà dire, come si sa,
una pressione ancora maggiore che nel passato sulle imprese per una
ristrutturazione del sistema produttivo, quindi crescita della produttività e
dei suoi costi e ricerca di un più alto saggio di sfruttamento per compensarli.
Quindi sarà necessario un più efficiente esercito industriale di riserva e
riforme strutturali del mercato del lavoro. Non solo. Infatti, come vedremo
meglio subito, gli attuali mega piani, generando un elevato debito pubblico e
un’immensa iniezione di denaro nella circolazione, non appena vi saranno segni
di ripresa produrranno inflazione. In assenza ormai di qualsiasi meccanismo di
“scala mobile”, i salari reali saranno falciati ed ogni richiesta salariale sarà
ostacolata con la motivazione che porterebbe il processo inflazionistico fuori
controllo. Inoltre per ripagare il debito pubblico sarà ridotta la spesa, quella
sociale (il welfare) in primis. Così piuttosto che aprire la strada ad un nuovo
New Deal la crisi l’aprirà per un ruolo più forte dello Stato nella difesa
dell’ordine pubblico!
Questi elementi saranno aggravati dagli effetti che la crisi e i mega piani,
soprattutto quello americano, produrranno sul modo in cui si era strutturato il
ciclo di riproduzione del capitale a livello globale, che vedeva al centro gli
USA nel ruolo di importatori mondiali e l’Asia Orientale, Cina in testa, nel
ruolo di fabbrica del mondo e, insieme di fornitore di capitali agli USA per
alimentarne il consumo. Il probabile progressivo venir meno di questo meccanismo
che ha alimentato l’accumulazione del capitale a livello mondiale in questa
fase, non potrà che accentuare la competizione tra le grandi aree
capitalistiche, con gli Stati di ciascuna macroregione schierati a sostegno
delle proprie imprese alla disperata ricerca di sbocchi esterni per far fronte
alla sovrapproduzione. E dunque non potrà che accentuare i processi di
ristrutturazione e di pressione sulla forza lavoro.
Particolare rilievo nella determinazione di un tale nuovo scenario l’avranno le
conseguenze dei piani statali anticrisi americani. Vediamole.
La politica del credito praticata (soprattutto) a partire dagli anni 80 (vedi
grafico 6) in USA, ha generato un debito totale privato (escluso quello
federale) che è passato dal 150% del PIL nel 1980 al 350% di oggi; 50.000
miliardi di dollari, di cui il 20/30% è inesigibile perché il collaterale
(immobili, titoli, ecc) che reggeva tale debito ha perso valore, con una perdita
quindi del 70/100% del PIL (10-14.000 miliardi di dollari) suddivisa tra banche,
assicurazioni, fondi pensione, creditori esteri e altri. Se non verranno
coinvolti obbligazionisti e azionisti, se ne dovrà fare carico lo Stato. La
crisi finanziaria rischia quindi di trasferirsi dal settore finanziario al
settore pubblico. Già ora, come si è visto, lo Stato USA tra soldi spesi,
prestati o garantiti, ha messo in campo ben 12.800 miliardi di dollari: il
debito pubblico è così salito dai circa 9.000 miliardi a fine 2007 (66,8% del
PIL) agli 11.000 miliardi di marzo 2009 (77%del PIL). Lo Stato USA è costretto
così ad emettere tonnellate di titoli di stato: nel solo 2009 le emissioni
raggiungeranno i 2.500 miliardi di dollari; tre volte quelle del 2008.
Finora solo la FED, con una svolta che ricorda i tempi della seconda guerra, si
è resa disponibile a comprare titoli di Stato a lungo termine per 300 miliardi
di dollari nei sei mesi successivi al marzo 2009.
Questa politica della FED di finanziamento monetario del debito pubblico, unita
a quella a sostegno del sistema bancario (acquisto di titoli privati in cambio
di denaro liquido), è portatrice di futura inflazione: quando il credito si
sbloccherà e la domanda globale ripartirà, l’estensione della base monetaria,
già raddoppiata in meno di sei mesi con un ulteriore raddoppio previsto per fine
2009, si tradurrà in una crescita abnorme del denaro in circolazione e quindi in
inflazione. Per evitarla la FED dovrebbe vendere ai primi segni di ripresa
titoli per 3000 miliardi di dollari, con conseguenze pericolose per il sistema
finanziario e produttivo.
Per alcuni questo “aumento formidabile della base
monetaria sembra indicare che il debito pubblico verrà eroso con un processo di
inflazione controllata” e sono in molti in USA ad auspicare “una moderata
inflazione per ridurre il peso del debito reale”.
D’altra parte, i tassi d’interesse più bassi su tutte le scadenze e la
prospettiva dell’inflazione, generati da questa politica della FED, peseranno
inevitabilmente sul dollaro. Non a caso il solo annuncio della FED di
disponibilità a finanziare il tesoro stampando moneta è stato sufficiente a far
cadere il dollaro del 3,6% sull’euro in un solo giorno (il maggior calo
giornaliero di sempre). Alcuni sostengono che anche questo sia un obiettivo non
detto della FED, perché un dollaro debole rende più conveniente esportare (e più
caro importare) e quindi sostiene la ripresa americana: si tratterebbe insomma
di una vera e propria svalutazione competitiva a scapito dei partner
commerciali. Con essa la crisi e l’indebitamento verrebbero scaricati sul resto
del mondo. L’inflazione e la svalutazione, come ammette candidamente un
finanziere americano, implicano cioè che “almeno in parte faremo pagare a chi
detiene dollari all’estero il riassorbimento della nostra fragile posizione sul
fronte del debito”. Non è una novità:già nel 1971 gli USA cercarono di ridurre
il peso dei propri debiti stampando moneta ed esportando inflazione, abusando
del ruolo del dollaro quale valuta dominante. Ma il contesto attuale è molto
diverso dal 71. Come sappiamo infatti non solo il debito privato ma anche quello
pubblico è in gran parte finanziato dall’estero: i titoli del tesoro in mano a
stranieri superano il 50%. Se fino al 2008 gli investitori stranieri hanno
aumentato l’acquisto di titoli di Stato USA, considerandoli un porto sicuro
rispetto agli altri titoli indeboliti dalla crisi, gli ultimi dati del tesoro
dicono che gli acquisti di titoli di stato USA da parte degli investitori
stranieri sono calati dai 15 miliardi di dollari a dicembre 2008 ai 10,7 di
marzo 2009. E la FED, come si è visto, ha disponibilità a comprarne solo per 300
miliardi di dollari, contro i 2.500 in emissione previsti nel solo 2009.
Se finora quindi i titoli di stato USA sono stati considerati, in un contesto di
crisi mondiale, un rifugio sicuro per gli investitori finanziari,
l’indebolimento del dollaro li renderà sempre meno appetibili; tanto più in un
contesto mondiale in cui tutti gli Stati capitalisti si stanno indebitando, con
la conseguenza che i titoli di stato sul mercato mondiale nel 2009 saranno il
doppio del 2008. Non a caso i costi dei CDS (assicurazioni contro il default di
titoli) per rischio default del tesoro USA sono cresciuti; e l’oro, merce reale
in grado di incarnare la ricchezza astratta nei momenti di crisi acuta, è
risalito a 1.000 dollari l’oncia a marzo 2009: un chiaro segno di sfiducia nel
dollaro. Il rischio comunque più che nel default, sta per gli USA nel fatto che
“non il ritiro, ma la semplice cessazione di acquisto del proprio debito sarebbe
sufficiente a causare uno shock economico enorme”. Infatti sarebbe necessario un
rialzo dei tassi d’interesse americani per attrarre i capitali esteri di cui
abbisogna il loro debito, con conseguenze disastrose per la propria economia.
In questa situazione quindi, aggravata dal più generale contesto di crescente
perdita di fiducia e credibilità nell’apparato finanziario e bancario americano,
dagli anni 80 gigantesca calamita per gli investitori stranieri, la dipendenza
finanziaria dall’estero diventa per gli USA un grosso problema e rischio.
Molto a questo punto dipenderà dalle scelte dei paesi asiatici, Giappone e Cina
in testa, e dei paesi petroliferi del Golfo, i maggiori detentori di titoli di
stato USA.
Il primo ministro cinese ha assicurato che la Cina ha interesse a stabilizzare
il mercato dei titoli del tesoro per aumentare la fiducia e superare la crisi
finanziaria: “la Cina collaborerà perché il rischio è il default USA e per
evitare le perdite che deriverebbero dal cambio del dollaro,visto che di questa
valuta sono piene le sue riserve” (Sole 24 Ore). Inoltre, sostenere il consumo
americano, per la Cina è ancora vitale per evitare sovracapacità e taglio
dell’export. D’altra parte come ha detto ancora Wen Yabao, “abbiamo prestato
molto denaro agli Stati Uniti. E’ naturale quindi che ora siamo preoccupati per
la sicurezza dei nostri investimenti”. Il rischio è che con la prospettiva
dell’inflazione e la svalutazione del dollaro, il massiccio investimento cinese
in USA finirebbe comunque per svalutarsi. Come ha sostenuto un rappresentante
istituzionale cinese “gli USA sono indebitati fino al collo e ora vogliono fare
pagare il costo dei loro errori a tutto il mondo”.
Passata la crisi e tornato il controllo dei propri crediti verso gli USA, quindi
“la Cina non se ne dimenticherà e non si esclude una revisione della strategia
d’investimento delle riserve valutarie” (Sole 24 ore)
Non a caso gli USA sono già preoccupati (De Benedetti sul Sole 24 Ore) per il
piano interno cinese di 600 miliardi di dollari a sostegno dell’economia, perché
temono uno spostamento dei capitali cinesi in Cina e nella sua area regionale.
Infatti la Cina sta già rafforzando il rapporto economico con l’area asiatica,
con l’intenzione di costruire un nuovo blocco politico, economico e finanziario
in Asia. E’ già stata avviata un’area di libero scambio con ASEAN e Giappone,
con la prospettiva di creare un’area monetaria dominata da Yen e Yuan, che
sostituisca il dollaro negli scambi interasiatici e poi nel commercio con i
paesi non asiatici, che potrebbe saldarsi con l’area del Golfo (che ha in vista
una sua unione monetaria) e l’Africa.
A rischio è dunque il sistema monetario informale detto “Bretton Woods II” che,
come si è visto, ha svolto un ruolo fondamentale in questa fase. Rispetto a
Bretton Woods I la differenza è sostanziale, perché “mentre allora gli USA
avevano tutto il denaro del mondo e i paesi periferici avevano bisogno di
aderire al sistema per prendere in prestito, col BW II gli USA sono il maggior
mutuatario del mondo e con una valuta debole, mentre i paesi della “periferia”
hanno in mano il denaro”.
Se questi paesi decidono di limitare l’accumulo di attività in dollari, la
prospettiva di una crisi valutaria che metta in discussione il ruolo del dollaro
come moneta dominante è forte. Come scrive il Sole 24 Ore “il fattore cruciale è
che il cambio del dollaro è determinato da domanda e offerta di valuta, motivata
per scambi di beni e servizi o per movimenti di capitali. Dato che da tempo i
primi stanno ai secondi nel rapporto di uno a trenta, si capisce come nel mondo
gli stock di attività finanziarie in dollari siano enormemente superiori ai
flussi legati agli scambi reali. Dal che deriva una inquietante possibilità:
anche piccole variazioni nella composizione desiderata dei portafogli
internazionali (ad es. una riduzione di due o tre punti della quota di riserve e
impieghi finanziari in dollari) getterebbe sul mercato una immensa offerta di
dollari, innescando un deprezzamento che va molto al di là di quel che sarebbe
necessario per raddrizzare gli squilibri reali (cioè il deficit e debito
estero)”.
Privilegiando i fattori interni, abusando del ruolo del dollaro, gli USA stanno
rischiando quindi di rendere l’uso del dollaro non più conveniente né sul piano
delle transazioni commerciali né su quello degli strumenti finanziari, e di
mettere quindi in discussione il dollaro come moneta mondiale. Nel momento in
cui il dollaro, ormai puro denaro di credito (sganciato da ogni riferimento ad
una merce reale, l’oro) fondato sulla fiducia, perde valore in modo eccessivo e
incontrollato,
la sua legittimità si troverebbe in difficoltà.
La gravità di una tale delegittimazione è evidente se abbiamo presente che l’uso
così attivo della politica monetaria e creditizia a sostegno dell’accumulazione
del proprio capitale, gli USA lo hanno potuto praticare per la funzione che il
dollaro svolge come moneta mondiale, che ha permesso di non pagare il costo
degli squilibri in termini di deficit e debito estero che quella politica non
poteva non generare. In discussione più in generale è il ruolo di importatore
globale degli USA e la divisione internazionale del lavoro che su questi
squilibri si erano basati.
Con questa crisi dunque, come mai in questi ultimi
quaranta anni, l’egemonia USA a livello globale è a rischio. Tanto più che il
contesto in cui gli USA stanno tentando di scaricare la crisi sul resto del
mondo non è più quello dei primi anni 70.
Da un lato la regione asiatica, con la Cina ormai effettiva potenza regionale
emergente, sta costruendo un polo tendenzialmente autonomo, meno dipendente dal
consumo americano e quindi anche meno disposto a continuare a finanziare la
crescita artificiale dell’economia americana, ponendosi anzi in competizione con
essa sui mercati globali; e a tal fine sta costruendo attorno a se una rete di
relazioni privilegiate con parti importanti dell’Africa e dell’America Latina. E
come dice Arrighi, “il punto non è neanche tanto se Asia e Sud continueranno ad
usare il dollaro, ma se continueranno a investire l’avanzo delle loro bilance
dei pagamenti attraverso le istituzioni finanziarie controllate dagli USA,
consentendo così che queste ne facciano uno strumento di dominio del Nord,
invece di impiegarlo loro stessi”, per uno sviluppo competitivo del Sud (e Est)
del mondo.
D’altra parte anche l’Europa, seppur ancora legata sul piano politico e militare
al carro americano, con la moneta unica e la profonda ristrutturazione
produttiva con essa innescata, e con l’integrazione dell’Est Europa all’interno
del proprio ciclo produttivo, si pone ormai come attore forte sul terreno
economico, destinato a competere sul mercato mondiale su posizioni autonome con
gli stessi USA.
Più che subire le politiche americane queste due macroregioni quindi non solo
stanno affermando una loro autonoma iniziativa nella gestione della crisi, ma
coglieranno certamente quest’occasione per favorire l’indebolimento
dell’egemonia assoluta americana. Non solo mega piani statali, ma anche
svalutazioni competitive, protezionismo, ecc…saranno le armi di una guerra
economica tutta da giocare.
La risposta americana alla perdita d’egemonia non potrà che essere una
accentuazione di quella che si è già delineata nel corso di questo quarantennio,
cioè la determinazione ad impedire il sorgere di potenze regionali emergenti e
ad indebolire strategicamente i maggiori competitori non solo con strumenti
economici ma anche politico militari. Una strategia che si è dispiegata negli
ultimi anni nelle guerre irakene, nei Balcani, in Afghanistan, in Medio Oriente,
in Asia Centrale (Caspio), e che nella crisi attuale e nell’era post crisi
altamente competitiva che si va prospettando, troverà nuova linfa.
Anzitutto la strategia americana continuerà a proiettarsi sull’area
Mediorientale e centrasiatica (Iran compreso) per il controllo delle risorse
strategiche, a partire dal petrolio, che tengono in moto la base produttiva del
mondo. Come sostiene Harvey “ quale migliore sistema per gli USA di eliminare la
concorrenza mostrando la propria posizione egemonica, che arrivare al controllo
dei prezzi e delle condizioni di fornitura della risorsa fondamentale così
necessaria a tutti i loro avversari commerciali?”…”avendo nelle loro mani il
rubinetto petrolifero globale potrebbero sperare di mantenere ancora per mezzo
secolo il controllo di fatto dell’economia globale”.
Un’altra direzione su cui si proietterà la strategia americana sarà una politica
di contenimento di Cina e Russia. Gli USA cercheranno di approfittare delle
inevitabili rivalità tra le potenze asiatiche (Cina, Giappone, India, Russia)
mettendole l’una contro l’altra, in una lotta per la supremazia nell’area. Le
attenzioni in particolare si concentreranno sulla Cina, con la quale, secondo
quanto diversi esperti si spingono a sostenere, “se non sarà una grande
guerra…., sarà una serie di confronti tipo guerra fredda destinata a prolungarsi
per anni e forse per decenni”. Gli eventi in Georgia nell’agosto 2008 ci dicono
d’altra parte fino a che punto gli USA sono disposti a spingersi per tenere
sotto pressione la Russia.
Oltre a contenere le potenze asiatiche emergenti queste strategie di guerra
fredda costringono l’Europa a mantenere il suo rapporto privilegiato con gli USA
e ad impegnarsi al suo fianco nelle avventure NATO, come oggi in Afghanistan.
Non bisogna dunque farsi ingannare dagli abbracci che contraddistinguono i
meeting globali tipo G20, tesi per lo più a non far crollare ancor più i mercati
finanziari. La crisi di fatto sta già cambiando i rapporti di forza tra i poli
capitalisti strutturati attorno alle tre macroregioni, acutizzando la
competizione e innescando nuove contraddizioni dagli esiti imprevedibili.
CONCLUSIONI
Quel che si è voluto in qualche modo dimostrare ripercorrendo la lunga crisi
esplosa nel 2008, è il suo carattere necessario e strutturale. Essa non è
generata dall’eccessiva finanziarizzazione del capitale, né da una mera carenza
di domanda né tanto meno da errate politiche neoliberiste o dal venir meno del
ruolo regolatore dello Stato, peraltro quanto mai attivo nella gestione della
crisi in questi decenni. Queste tesi non sono in grado di cogliere la natura
delle contraddizioni che caratterizzano questa fase e la dinamica che esse
creano. Tutt’al più colgono alcuni aspetti, non cause ma riflesso
dell’evoluzione della crisi del capitale produttivo, crisi che investe quindi il
cuore del rapporto di produzione capitalistico.
Il gran valore della marxiana legge della caduta tendenziale del saggio di
profitto sta proprio nel riuscire invece a darci la chiave per comprendere la
dinamica strutturale del capitale. Essa ci dice che all’interno del rapporto di
capitale la crescita continua della produttività è necessaria; che la crescita
dei costi di essa è necessaria; che la crescita del saggio di sfruttamento per
contenerli è necessaria, seppur mai sufficiente a compensarli; che il fatto che
il mercato sia incapace di tenere il ritmo della crescita della produttività è
anch’esso una necessità.
Ci dice quindi che nella dinamica del processo di accumulazione si afferma la
natura più profonda del capitale: si rivela il carattere antagonista
dell’accumulazione capitalistica, in quanto processo di sfruttamento ed
espropriazione della forza lavoro, processo di sussunzione del lavoro vivo sotto
il dominio del capitale in forma sempre più intensa ed estesa.
Ci dice che ai “limiti” del capitale e alla dinamica antagonista della sua
accumulazione non c’è scampo restando all’interno di questi rapporti di
produzione. E che su questa base maturano anche necessariamente in misura
crescente competizione e guerra tra gli Stati a difesa dei propri capitali.
D’altra parte Marx rileva anche che questa stessa dinamica genera le condizioni
materiali per un possibile superamento del rapporto di capitale. Il grande
sviluppo della produttività del lavoro raggiunto sulla base dell’applicazione
della scienza alla produzione, infatti, se risulta insostenibile per il rapporto
di capitale che l’ha generato, d’altro lato getta le basi per un rapporto di
produzione in cui metro della ricchezza non sia più il tempo di lavoro
espropriato, il grado di sfruttamento della forza lavoro; in cui il grado
elevato raggiunto dalle conoscenze scientifiche e dalla tecnologia, dunque dalla
produttività, sia la base per la creazione di tempo disponibile per lo sviluppo
della totalità delle facoltà dell’individuo sociale; in cui quindi metro della
ricchezza sia “il libero sviluppo dell’individualità, e dunque non la riduzione
del tempo di lavoro necessario per creare lavoro eccedente, ma in generale la
riduzione a un minimo del lavoro necessario della società a cui poi corrisponde
la formazione artistica, scientifica, ecc…degli individui grazie al tempo
divenuto libero e ai mezzi creati per essi tutti”. (Marx)
D’altra parte anche la mondializzazione del rapporto di produzione
capitalistico, generando un proletariato mondiale ne ha unificato gli interessi
e ha creato le condizioni per l’abbattimento “delle barriere e dei pregiudizi
nazionali” e per uno sviluppo universale delle relazioni sociali e delle forze
produttive su basi realmente egualitarie.
L’attuale crisi rappresenta in conclusione per la classe non solo una fonte di
maggior sfruttamento, ma anche, questa si, una grande opportunità: la lotta di
classe oggi non solo può resistere alla crescita continua dello sfruttamento e
del dominio del capitale sul lavoro, ma può dare soluzione definitiva ed
emancipatrice alla contraddizione connaturata al capitale; a condizione però di
riattualizzare i due mezzi storicamente necessari a questo scopo:
l’appropriazione sociale delle forze produttive e la rottura rivoluzionaria per
conseguirla.
Questa è una via certamente meno utopica del riformismo imperante nella sinistra
odierna, in quanto rappresenta oltre un rifiuto dei costi inevitabili che il
rapporto di capitale implica, una realistica presa d’atto delle condizioni
finalmente createsi per un suo definitivo superamento.
Centro documentazione “Wakatanca”
Milano
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