SENZA CENSURA N. 30
novembre 2009
Sangue e petrolio
“Crisi umanitarie” e interessi imperialisti in Africa
Lo scorso agosto, Hillary 
Clinton è sbarcata nel continente africano, e nel suo breve viaggio ha toccato 
sette paesi. L’intenzione del segretario di Stato Usa (dopo la visita di Obama 
in Ghana nel mese di luglio) era quella di rafforzare la posizione americana in 
Africa, nel tentativo di ristabilire i legami con i paesi dell’area dopo i 
disastrosi otto anni diplomatici di George W. Bush. 
Ma il cambio di governo alla Casa Bianca non si è affatto tradotto in 
un’inversione di marcia della politica americana rispetto al fronte africano; 
nonostante gli intenti retoricamente dichiarati da Obama (“il futuro dell’Africa 
spetta agli africani”), il predominio in Africa rimane un obiettivo strategico 
importante, così come l’espansione della presenza militare rimane lo strumento 
principale per la difesa degli interessi economici statunitensi. 
Già durante la sua campagna elettorale, Obama auspicava infatti che le forze 
armate potessero fornire un supporto logistico maggiore agli sforzi di 
“peacekeeping” in Africa, dichiarandosi favorevole all’ipotesi di creare una 
“no-fly zone” in Darfur (proposta già lanciata da Bush e dall’allora primo 
ministro inglese Tony Blair). La Clinton si è spinta fino ad incontrare il 
presidente somalo Sharif Ahmed inserito, fino ad un anno fa, in quanto leader 
delle Corti islamiche, tra i leader sulla Lista Nera. Dietro il superamento 
dell’odio della dirigenza Usa verso alcuni leaders islamici, c’è la necessità di 
negoziazione allo scopo di isolare i settori più antimperialisti e radicali. 
Nell’incontro col presidente della Somalia ha annunciato infatti il raddoppio 
del quantitativo di armi Usa destinate all’esercito somalo per “contrastare 
l’avanzata delle milizie antigovernative che, forti del sostegno del terrorismo 
islamico internazionale, controllano gran parte del centro e sud del paese”. 
Gli Usa sono presenti in Africa con più di 30.000 soldati e stanno raddoppiando 
questa cifra grazie ai progetti Africom (l’organismo delle forze armate 
statunitensi che sovraintende alle operazioni di guerra nel continente africano), 
tra cui quelle in atto nei paesi dell’Unione Europea a sostegno delle operazioni 
di “peacekeeping”. 
Il Comitato Politico e di Sicurezza dell’UE continua a effettuare grossi 
investimenti nel campo della cooperazione militare, formando poliziotti e 
militari degli Stati africani per prevenire eventuali movimenti nazionalisti o 
di liberazione. L’ascesa di quello che in occidente viene chiamato “nazionalismo 
pan-africano”, va guardata in relazione con questo genere di decisioni che da 
anni vengono prese sul piano internazionale rispetto all’Africa: in primo luogo, 
con i piani statunitensi dell’Africom, con operazioni come l’intervento dell’ONU 
nel Congo o il blocco internazionale al governo dello Zimbabwe e le operazioni 
di varie potenze contro i paesi africani sotto il falso pretesto della lotta 
alla pirateria o al terrorismo. 
Come abbiamo già scritto rispetto al fronte africano, quella militare è l’unica 
chance degli Usa per cercare di recuperare terreno lì dove alcune potenze 
coloniali europee, ma soprattutto il “nuovo” grande concorrente imperialista, la 
Repubblica Popolare Cinese, hanno sviluppato un peso rilevante. 
Già nel 2004, dietro le massicce operazioni “antiterrorismo”, iniziate quando 
circa un migliaio di soldati americani sbarcò nella capitale della Mauritania 
con la motivazione ufficiale della lotta ai gruppi terroristici presenti 
nell’area (“una palude infestata da terroristi che deve essere prosciugata”), 
c’era la necessità degli Usa di sopperire al proprio bisogno energetico 
rafforzando la presenza in Africa e sfruttando la cooperazione con alcuni paesi 
attraverso la “lotta al terrorismo”, inaugurata nel 2005 con la nascita della 
Trans-Sahara Counter Terrorism Initiative e poi dell’Africom nel febbraio 2007, 
con l’obiettivo di riunire le attività di “intelligence” nel continente africano 
sotto il controllo di un unico comando militare. 
Il Pentagono si avvia quindi ad esportare, attraverso l’Africom, il modello (già 
sperimentato in America latina ed utilizzato per coprire la lotta contro le 
forze rivoluzionarie) della “war on drugs” anche nel continente africano; nella 
proposta di bilancio per l’anno 2010, il Dipartimento della Difesa ha chiesto di 
destinare in Africa 52 milioni di dollari nell’ambito dell’International 
Narcotics Control and Law Enforcement, il programma di Washington per 
“combattere il crimine transnazionale e le minacce ad esso collegato e sostenere 
lo sforzo contro le reti terroristiche che operano nel settore del traffico di 
droga e in altri affari illeciti”. 
A questi si aggiungeranno altri due milioni di dollari per “programmi anti-narcotici” 
proprio all’interno della “Trans-Sahara Counter Terrorism Partnership”. Una 
parte dei fondi saranno poi utilizzati per realizzare i “nuovi Centri di 
addestramento regionale alla sicurezza” in Nord Africa, Africa occidentale ed 
Africa centrale. Il paese che sarà il maggior beneficiario degli aiuti militari 
è il Sudan (geograficamente distante dalla rotta degli stupefacenti individuata 
in Africa occidentale) seguito dalla Liberia, uno dei pochissimi stati africani 
a dichiarare la propria disponibilità ad ospitare comandi, reparti e mezzi 
militari statunitensi. La lotta al terrorismo, alla droga e ai “pirati”, sono le 
bandiere dietro cui poter aumentare la presenza militare statunitense in Africa.
Europa e Africom
Il Pentagono ha insediato presso la Panzer Kaserne di Boeblingen in Germania, un 
nuovo quartier generale delle Forze del Corpo dei Marines: è il comando speciale, 
“MARFORAF” che ha il compito di pianificare e dirigere tutti gli interventi dei 
Marines USA in Africa ed opera congiuntamente con le autorità di Africom, 
entrato ufficialmente in servizio il primo ottobre 2008 nel complesso militare 
di Stoccarda. Il principale obiettivo strategico del nuovo comando dei marines 
sarà il “supporto alla lotta al terrorismo per ridurre la minaccia delle 
organizzazioni legate all’estremismo violento”. 
I marines hanno pianificato nei primi mesi del 2009 la conduzione di due grandi 
esercitazioni multinazionali, l’“African Lion” (condotta in Marocco dalla 173a 
brigata aviotrasportata di stanza a Vicenza) e la “Shared Accord”, condotta in 
Ghana e altri paesi dell’Africa occidentale. I marines opereranno in Africa 
organizzati in gruppi. Un piccolo gruppo si occuperà della “riforma della 
sicurezza” in Liberia; un altro addestrerà gli eserciti di sei paesi dell’Africa 
occidentale; un altro ancora, parteciperà al programma Acota, addestrando 
soldati e istruttori africani. 
Gli strateghi statunitensi stanno ora valutando dove trasferire entro due o tre 
anni il comando Africom; Marocco, Gibuti e Liberia hanno offerto la loro 
disponibilità, ma nel caso in cui motivi di sicurezza ne sconsigliassero il 
posizionamento sul campo africano, una delle due alternative europee sarebbe 
quella di Rota in Spagna. 
Le organizzazioni sociali andaluse e Izquierda Unida, in una dichiarazione del 
dicembre 2008 hanno però definito “gravissima” la scelta d’insediare il comando 
Africom a Rota: “E’ un’atrocità che il governo spagnolo permetta l’utilizzazione 
di una parte del nostro territorio per operazioni in Africa di natura 
sconosciuta”, ha affermato il parlamentare Ignacio García. Se Africom non 
venisse insediata in Spagna finirà quindi a Napoli, dove sono già operativi 
numerosi comandi delle forze aeree e navali degli Stati Uniti e della Nato. Il 
complesso navale di Napoli-Capodichino-Gaeta è già sede del Comando per le Forze 
Navali USA in Europa, il cui comandante in capo ha ora assunto il ruolo di 
“comandante per le operazioni navali in Africa”. Il Comando per le forze navali 
di Napoli parteciperà (con la dislocazione a tempo indeterminato di due velivoli 
da pattugliamento marittimo P-3 Orion) alla recente decisione di Africom di 
mobilitare uomini e mezzi per proteggere dalla pirateria l´industria turistica a 
cinque stelle delle Seychelles, che prevede il trasferimento di un numero 
imprecisato di velivoli “Reaper” nell´arcipelago. 
Per le autorità di governo la difesa del turismo di lusso, da cui il paese è 
totalmente dipendente, è fondamentale, anche perché già da un anno prima della 
“crisi” legata ai “pirati” somali, il tasso di occupazione del settore aveva 
subito una flessione del 60-65%. Per questo accolgono con favore l’iniziativa, 
anche a costo di accelerare la privatizzazione delle isole e dare il via alla 
militarizzazione USA dell´arcipelago. 
L’Italia vede già la sua partecipazione a progetti per la proiezione di Stati 
Uniti e alleati Nato in Africa ospitando dal 2005 nella città di Vicenza il 
principale centro di formazione strategica degli eserciti dei paesi africani, il 
CoESPU (Center of Excellence for Stability Police Units), sotto il comando 
dell’Arma dei Carabinieri. Obiettivo del centro è “favorire la creazione di 
forze del tipo Carabinieri/Gendarmerie, preparate ad intervenire rapidamente, 
con apparati logistici autonomi e la capacità di stabilire una forte presenza di 
polizia in territori ostili”, attraverso la formazione di almeno 3.000 militari 
africani e lo “sviluppo di dottrine e procedure operative per prendere parte al 
Network strategico mondiale, interagendo con organizzazioni internazionali, 
istituti accademici e centri di ricerca”. Nel 2009 sono stati inviati a Vicenza 
poliziotti e militari di nove paesi africani (Burkina Faso, Camerun, Egitto, 
Kenya, Mali, Marocco, Nigeria, Senegal e Sud Africa). La US Army Africa (nuovo 
nome della SETAF - Southern European Task Force, ossia forze terrestri di 
Africom) ha sede dal dicembre 2008 alla caserma Ederle, dove sono in corso da 
più di un anno imponenti lavori di ristrutturazione e ampliamento, con la 
riattivazione dei depositi e hangar sotterranei. 
La partecipazione italiana in supporto delle missioni Africom, si avvale anche 
dello scalo aereo di Aviano e della stazione aeronavale di Sigonella in Sicilia 
per le operazioni di rifornimento e carico dei velivoli diretti verso il 
continente africano. A questo si aggiunga che nel corso della riunione dei 
Ministri della Difesa della Nato di Cracovia (19 e 20 febbraio 2009) è stata 
formalizzata la scelta di Sigonella come “principale base operativa” dell’AGS 
(Alliance Ground Surveillance, sistema di sorveglianza terrestre della Nato) in 
cui saranno ospitati i sistemi di comando e di controllo che centralizzano le 
attività di raccolta d’informazioni, di comunicazioni, segnali e strumentazioni 
straniere; Sigonella si trasformerà in un “Grande Orecchio” capace di ascoltare 
un’area che si estende dai Balcani al Caucaso e dall’Africa al Golfo Persico.
Petrolio, gas… e sicurezza
Il continente africano, in cui il 40% della popolazione “vive” con meno di un 
dollaro al giorno e un numero molto maggiore “sopravvive” con meno di due, 
continua a subire l’aggressivo sfruttamento delle sue risorse energetiche. Le 
priorità della Nato, da quanto riferito dai suoi comandanti, sono appunto quelle 
di delineare piani che rendano sicure le strutture industriali del petrolio e 
del gas. 
Si presentano così strategiche tre aree dove sono situati massicci giacimenti di 
petrolio e di gas naturale non ancora del tutto sfruttate: il Golfo di Guinea in 
Africa, il Mar Nero e il Mar Caspio, il Golgo Persico. Il petrolio dell’Africa 
Occidentale presenta due importanti vantaggi per gli Stati Uniti: è un greggio 
di prima qualità e può essere trasportato mediante navi-cisterna direttamente 
attraverso l’Oceano Atlantico, evitando stretti o eventuali punti di controllo 
da parte di nazioni costiere. 
Dunque l’iniziativa in Africa e nei mari che la circondano, è del tutto 
vincolata all’espansione militare Usa e Nato; le potenze occidentali sotto 
comando Nato stanno dunque cercando di conservare il dominio sulle risorse 
energetiche e i corridoi del trasporto petrolifero ed espandere l’egemonia 
economica e politica mondiale. La preoccupazione delle potenze europee e 
statunitensi che temono di perdere la propria “riserva di caccia” in Africa, è 
aggravata, come dicevamo, dalla presenza incalzante della Cina. 
La Cina è il principale partner economico del Sudan (riceve il 75% delle sue 
esportazioni) e le tre principali compagnie petrolifere di stato cinesi, la Cnpc, 
la Cnooc e la Sinopec stanno guadagnando sempre più spazio nell’acquisizione di 
diritti per l’esplorazione e lo sfruttamento del greggio di questa regione 
dell’Africa. In aprile è stata formalizzata l’acquisizione da parte della China 
National Offshore Oil Corporation (Cnooc) del 45% della concessione di proprietà 
della South Atlantic Petroleum, che comprende importanti giacimenti offshore di 
petrolio e gas. La Cnpc è impegnata in prospezioni nel Ciad sud-orientale e 
nell’Etiopia occidentale (entrambe zone di confine con il gigante sudanese) e la 
Cnooc, già presente in Nigeria e in Angola (principale fornitore di greggio di 
Pechino, superando il Sudan), ha ottenuto anche in Kenya il diritto alla 
prospezione e l’eventuale trivellamento di uno dei tanti blocchi lungo la costa.
La strategia della Cina in Africa prevede nuovi accordi commerciali bilaterali o 
regionali per garantire la fornitura di materie prime, offrendo in cambio grandi 
progetti infrastrutturali (ma non solo subordinati allo scambio), la ricerca di 
“posizioni comuni sulle principali questioni internazionali e regionali” e 
l’intenzione “di portare avanti attivamente cooperazione e scambi tecnologici 
che riguardano la sfera militare”.
Negli ultimi anni, il comando Usa per l’Africa ha rafforzato la tendenza ad 
affidare ai contractors privati buona parte delle missioni più complesse e 
rischiose. Una parte consistente degli interventi coordinati da Africom nel 
quadro del “Bureau of African Affairs-Africa Peacekeeping Program (Africap), è 
infatti stata affidata ad aziende private del settore sicurezza. Questi 
contractors hanno coordinato il trasferimento di truppe di Benin, Mali e Nigeria 
in Liberia e Sierra Leone e di militari di Ruanda e Nigeria in Sudan, nonché la 
gestione dei campi per i rifugiati in Darfur; dal 2003 al 2007, più di due 
miliardi di dollari del Programma Africap sono stati destinati ad aziende 
private americane, prime fra tutte la DynCorp International (già operante in 
Iraq, Afghanistan e nelle campagne di fumigazione delle coltivazioni di coca 
nella selva colombiana ed ecuadoriana). DynCorp ha esordito nel 2005 in Nigeria, 
realizzando uno scalo aereo (i lavori dell’aeroporto sono in subappalto 
all’azienda siciliana Gitto), destinato alle compagnie petrolifere statunitensi 
che operano nel Delta del Niger, le cui dimensioni sproporzionate lasciano però 
immaginare un suo uso a fini militari. 
Tutto questo contesto di interessi, ha incrementato lo stravolgimento politico e 
sociale dell’Africa, senza alcun apporto di ricchezza o sviluppo per i paesi 
colonizzati economicamente. La politica del profitto per adesso ha ricompensato 
solo l’egoismo di quelle nazioni che, in cambio della promessa illusoria di 
sviluppo economico, hanno permesso che questo tipo di neocolonialismo politico-militare 
si instaurasse e si rafforzasse.
Propaganda in occidente e progetti 
umanitari
L’organizzazione “Salvare il Darfur” negli ultimi cinque anni ha prodotto una 
campagna mediatica miliardaria, grazie anche a varie rappresentanti del mondo 
spettacolo, per diffondere la spaventosa visione di una guerra etnica con ben 
400.000 morti. Uno scenario privo di spiegazioni storiche, politiche o di classe, 
composto dalla sola descrizione di un genocidio di tali proporzioni da rendere 
urgente e necessario un intervento. La rappresentazione di una ferocia 
collettiva priva di ambiguità, rispetto alla quale, senza alcuna riflessione 
politica, si fa appello all’azione di emergenza e al “costruttivo e risolutivo” 
intervento degli Stati Uniti e delle altre potenze imperialiste. 
Ma questa grande narrazione ingannevole della tragedia del Darfur sta cedendo 
piano piano anche a seguito dei racconti di giornalisti e inviati americani di 
ritorno negli USA; persino il governo britannico ha deciso che “Salvare il 
Darfur” non può usare la cifra di 400.000 morti che compare continuamente negli 
spot lanciati negli Stati Uniti, per il semplice motivo che non è vera.
Per quanto si possano considerare validi gli argomenti addotti per un intervento 
di assistenza emergenziale in Darfur, è palese che la politica con cui le 
organizzazioni umanitarie hanno condotto i propri affari nella zona è stata 
quantomeno sospetta e cinica. Nessuno sforzo è stato effettivamente svolto per 
evitare raddoppiamenti e sprechi, verso la creazione di progetti di sviluppo a 
lungo termine o di competenze che possano sostituire l’elemosina. In Darfur ci 
sono attualmente 108 (!) agenzie umanitarie; ogni agenzia ha la sua particolare 
nicchia di assistenza, i suoi consulenti, direttori, comunicati stampa, 
pubblicità televisive, automobili, uffici in ogni luogo del mondo, ed ognuna 
richiede permessi singoli per condurre le proprie attività. 
Questo ha prodotto il moltiplicarsi di innumerevoli pratiche burocratiche, anche 
se qualsiasi ritardo nell’emettere tali permessi si traduce subito in una 
protesta di livello internazionale, come è successo per la recente espulsione di 
sole dieci organizzazioni straniere e due nazionali (su 108) da parte delle 
autorità sudanesi, con l’accusa di essere spie ostili al governo.
Ciad Sudan Darfur
Il Ciad è tra i cinque paesi stimati come i più poveri al mondo (un reddito pro-capite 
annuo pari a 150 euro all’anno) a cui si aggiunge la desertificazione del paese 
e la riduzione delle acque, unica fonte di sostentamento (il lago Ciad è passato 
da un’estensione di 25 mila chilometri quadrati a poco più di 5 mila e solo il 
30% della popolazione può disporre di acqua potabile). 
La pioggia di dollari che sarebbe dovuta arrivare con l’oro nero (vedi progetti 
come il Chad-Cameroon Oil and Pipeline, conosciuto anche come “Doba oil”), non è 
mai arrivata. In realtà queste promesse hanno incrementato solo i flussi 
migratori e violazioni dei diritti umani, la confisca delle terre, gravi danni 
ambientali, malattie causate dallo smaltimento dei rifiuti tossici, il crollo 
dell’esportazione del cacao e del caffè e disoccupazione. 
Buona parte dei profitti derivanti dai prezzi del greggio sono arrivati alle 
casse del governo del generale-presidente Deby, che ha dilapidato centinaia di 
milioni di dollari per armare l’esercito e premiare la classe politica più 
accondiscendente (sono 36 i milioni di petrodollari ricevuti da Deby nel 2006 ed 
utilizzati per armare la guardia presidenziale, “vincere” le elezioni e colpire 
i ribelli). 
Deby, militare formatosi all’École de guerre di Parigi, arma da anni gruppi 
mercenari (giustificando il finanziamento con il rischio di una possibile 
invasione sudanese) ma resta al potere, soprattutto grazie alla forte protezione 
militare francese e quella politica degli USA, che con la EXXON sono il maggior 
acquirente del petrolio del Ciad. I tanti soprusi ai danni delle popolazioni del 
Sud, dapprima sotto il regime di Hissen Habré (si stima che siano state 40.000 
le persone torturate o giustiziate in otto anni) e poi durante il governo Deby 
dal 1990 a oggi, si affiancano all’impoverimento del Ciad. Nel gennaio scorso, 
otto movimenti del Ciad hanno deciso di unirsi per creare l’Unione delle forze 
della resistenza (Ufr), il cui obiettivo è liberare il popolo del Ciad e 
rovesciare la dittatura del Presidente Idriss Deby Itno.
Il conflitto in Darfur è spesso descritto come un affare interno al Sudan. E’ 
invece parte di uno scontro ben più ampio che coinvolge tutti i paesi confinanti 
col Sudan (Egitto, Libia, Ciad, Congo, Uganda, Etiopia, Eritrea, Somalia); la 
maggior parte dei cosiddetti “esperti geopolitici” europei raffigurano 
semplicisticamente lo scontro in atto, descrivendo i suoi protagonisti come dei 
fantocci ora degli Usa, ora della Cina. 
E’ ovviamente una rappresentazione che ha lo scopo di delegittimare le 
resistenze e le lotte che agiscono nei due paesi. Il conflitto in Darfur, paese 
che ha una popolazione largamente omogenea, non è tra “Arabi” ed “Africani” come 
continua ad essere venduto in Occidente in seguito alla demonizzazione della 
cultura araba ed islamica. 
Ciad, Sudan e Darfur sono in realtà una preziosa pedina dei poli imperialisti 
presenti in questa regione, l’Europa (principalmente la Francia) e gli USA che 
mirano, attraverso la spinta e la possibile vittoria di forze interne in loro 
appoggio, alla nascita di micro-stati come protettorati neocoloniali. 
Questo è il piano strategico delle potenze imperialiste in Sudan: lo 
smembramento dell’unità nazionale incrementando gli attriti interni, per 
realizzare il “divide et impera”, attraverso la strategia della guerra 
preventiva permanente. Non per niente, nel maggio 2005 la Nato iniziava la sua 
prima operazione ufficiale sul continente Africano con il trasporto di truppe 
nella regione del Darfur in Sudan, dando inizio all’intrusione militare 
Occidentale nel triangolo Repubblica del Centro Africa - Ciad - Sudan. Il 
recente tentativo di rovesciare il governo di Al-Bashir, attraverso un mandato 
di cattura internazionale per genocidio, ha l’obiettivo di fare pressione sul 
paese in modo che si arresti il commercio con la Cina e si torni a fare affari 
con l’Occidente. 
Per adesso l’azione del mandato di cattura non ha funzionato, poiché tutti i 
partiti (e varie mobilitazioni di piazza) hanno espresso l’opinione concorde che 
questo mandato d’arresto viola la sovranità del paese. Rimane comunque un 
segnale del potere internazionale per gli altri paesi. Il Sudan è un paese ricco, 
spesso paragonato all’Arabia Saudita per risorse petrolifere; ma è un paese 
ricco con povera gente, e con una borghesia locale gravemente corrotta. Questa 
borghesia ha dato prova di appoggiare la proposta Usa di risoluzione del 
conflitto che si attuerebbe attraverso il passaggio ad un confederalismo o 
federalismo. Non potendo negoziare lo sfruttamento di petrolio direttamente con 
il governo di Khartoum, si pensa di poterlo fare più liberamente con 
l’istituzione di regioni autonome. 
D’altra parte, anche il “vecchio” colonialismo britannico aveva prodotto in 
Sudan l’interessata divisione del paese in due parti, prima delle guerre civili 
del 1972 e del 1980 (quest’ultima, durata 25 anni): un Nord, in cui si 
salvaguardava l’arabo come lingua ufficiale e l’Islam come religione, e un Sud 
in cui venne imposto l’inglese e la conversione al protestantesimo. E per tutto 
il paese, l’introduzione di un capitalismo che ha prodotto l’emergere di una 
borghesia sudanese. 
Ma come accade per il Darfur, le guerre civili che hanno opposto le due parti 
del paese non hanno alla base principalmente motivi etnici o religiosi, ma la 
necessità di una redistribuzione equa della ricchezza. Per questo le potenze 
imperialiste occidentali mettono sotto pressione i governi africani che sfuggono 
al loro controllo, cercando di destabilizzarne i regimi, e sfruttano le crisi 
umanitarie per i propri interessi, mobilitando l’opinione pubblica 
internazionale. Probabilmente, se il governo sudanese smettesse di fare affari 
con la Cina, e i paesi imperialisti tornassero ad essere i principali attori e 
controllori del paese, probabilmente più nessuno parlerebbe di “crisi in Darfur”.
Fonti: 
www.michelcollon.info
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     In Nigeria, tutte le 
    speranze nella democrazia e nel benessere suscitate dall’indipendenza e 
    dalla scoperta del petrolio, sono naufragate tra le paludi del Delta del 
    fiume Niger, affondate dallo sfruttamento selvaggio di multinazionali come 
    la Shell, l’Agip, la Chevron e dai corrotti governi locali. All’ombra di un 
    cielo inquinato e di un mare senza pesci, «la gente ha cominciato a pensare: 
    “dobbiamo armarci se non vogliamo morire”. La violenza genera violenza. E 
    quando una persona perde la speranza, si sente devastata, e finisce per 
    dire: “O combatto o tanto vale che muoia”».  |