SENZA CENSURA N. 31

marzo 2010

 

editoriale

 

Nei numeri scorsi abbiamo affrontato il tema della crisi, con la pubblicazione in due parti di un contributo che, nell’analizzarne le origini, proponeva una lettura oggettiva delle cause e dell’andamento di quest’ultima dagli anni 60 fino ai giorni nostri. Nei corrispondenti editoriali abbiamo cercato di mettere a fuoco le ricadute che la crisi produce sulla classe proletaria, ripercussioni che in modo sempre più evidente balzano agli occhi talvolta attraverso le immagini crude delle guerre che a tutte le latitudini sconvolgono la vita di intere comunità, altre volte generando contraddizioni che emergono a livello meno ampio ma riguardano comunque significative porzioni di proletari in contesti urbani e rurali. La gestione di queste contraddizioni ogni tanto incontra sacche di resistenza che intralciano i progetti di ristrutturazione e allineamento degli organismi sovranazionali deputati a contenere la pressione delle fasce sociali maggiormente colpite dalla crisi; se guardiamo all’Europa, un esempio concreto è dato dall’impasse che si è creata sul programma di sostegno finanziario alla Grecia, dove ogni eventuale prestito è strettamente vincolato al rispetto di misure rigorose atte a colmare il disavanzo pubblico. Ma la politica dei sacrifici deve fare i conti con le aspettative del proletariato greco che proprio in questi giorni, con scioperi di massa in tutti i settori, sta letteralmente paralizzando la nazione, per di più sul neo governo socialista pende la spada di Damocle delle recenti manifestazioni di piazza che in occasione dell’anniversario per la morte di Alexis hanno infiammato le principali città elleniche. Indipendentemente dalle questioni di principio (leggi interesse) circa il soggetto che si deve far carico del sostegno (asse franco-tedesco, FMI, altri paesi…) è un dato di fatto che all’inevitabile prezzo dei sacrifici sta opponendosi un movimento di resistenza che non sembra così disposto a subirne passivamente gli effetti sotto forma di tagli, chiusure, privatizzazioni. In Italia, le ricadute della crisi hanno prodotto una reazione decisamente meno omogenea, ma qualitativamente interessante: è il caso delle fabbriche (metalmeccaniche ma non solo) in cui gli operai, di fronte alle minacce di chiusura hanno innescato momenti di resistenza anche estrema che si è rivelata spesso vincente e comunque difficilmente gestibile e incanalabile nei tranquilli corridoi della concertazione sindacale, sempre più angusti per la classe lavoratrice. Ma non si tratta di un meccanicistico rapporto di causa-effetto del tipo le ricadute della crisi automaticamente generano una situazione di resistenza, anzi in moltissimi casi a prevalere è un senso di rassegnazione, un tiriamo a campare fatto di buoneuscite, cassaintegrazioni, e altre pezze che di fatto non fanno che prolungare una lenta quanto cer­ta agonia. Laddove si è cercato e tut­t’ora si cerca di ribaltare questo clima da sconfitta inevitabile, dagli scioperi selvaggi nei trasporti ai tetti delle fabbriche, dai picchetti ai cancelli ai blocchi di autostrade e tangenziali, la radicalità e la qualità espresse nelle lotte sono il frutto dell’attività quotidiana di piccoli gruppi (a volte singoli) di lavoratori, che soggettivamente consapevoli di non aver comunque nulla da perdere e dell’impossibilità di una qualche soluzione "reale" in chiave riformista, mettono al centro nella lora iniziativa politica i reali interessi dei lavoratori stessi nelle singole realtà e si muovono con determinazione in loro difesa. Questa soggettività nei fatti riesce ad essere trainante all’interno dei luoghi di lavoro, e a parità di condizioni disperate da luogo di lavoro a luogo di lavoro risulta essere la variabile dipendente in relazione alla possibilità di vincere una battaglia, anche solo per la mera sopravvivenza; non viene messo in discussione questo sistema di produzione, ma l’importanza è data proprio dall’esempio, da un modello che dimostra di essere vincente dando vita ad altrettanti episodi di resistenza più o meno diffusi a seconda delle aree territoriali, scollegati tra di loro ma con il comune denominatore dell’incisività con cui viene condotta la lotta. La capacità di tenuta di un tessuto sociale che si forma nelle lotte ci sembra un fattore determinante per individuare quelle situazioni che a livello territoriale esprimono delle vittorie anche se parziali. I rigidi meccanismi attraverso cui migliaia di proletari sono espulsi dal ciclo produttivo non risparmiano a maggior ragione le fasce più deboli ed esposte: le rivolte dei braccianti immigrati, in particolare quella più recente di Rosarno se da una parte sono la logica conseguenza di un’esasperazione crescente arrivata al culmine, da un’altra svelano aldilà della pietà mediatica la ricomposizione di un tessuto sociale ma in chiave reazionaria il cui epilogo è la deportazione dei rivoltosi, il loro rimpatrio previo internamento nei cie, oppure i centri di accoglienza o la fuga disperata nelle metropoli. In un contesto come quello attuale condizionato oltretutto da lavaggi del cervello mediatici e da un revisionismo sempre più spinto, i frequenti episodi di rivolta spontanea esprimono un protagonismo evidente all'interno dello scontro di classe, ma talvolta, in mancanza di luoghi di ricomposizione e profondamente identitari rappresentati in passato dalla fabbrica, invece di divenire momento di assunzione di queste istanze da parte dei vari spezzoni di classe, provocano fratture all'interno delle stesse relazioni sociali tra proletari. E' sicuramente questo un terreno su cui saremo chiamati sempre più a misurarci negli anni a venire nella nostra iniziativa di massa Non è un caso che proprio su un piano esterno rispetto ai luoghi di lavoro si siano dati i momenti di resistenza più forti, che hanno coinvolto e unito una porzione consistente del tessuto proletario del territorio: gli esempi sotto i nostri occhi dell’opposizione alla tav, alla base nato di vicenza, alle discariche e agli inceneritori in campania costituiscono un riferimento per una massa critica che aldilà della valenza territoriale della lotta ne assume il carattere di resistenza alle politiche capitaliste ed imperialiste. Il processo di esecutivizzazione dello stato che rapidamente va realizzandosi in termini pratici è il piano concreto che tende a dare la misura del confronto con le istanze portate avanti dai soggetti che all’interno o all’esterno del processo produttivo si adoperano per respingere al mittente le ricadute della crisi che si tratti di devastazioni ambientali, tagli del personale o peggiori condizioni di sfruttamento. La costruzione di nuove carceri e cie, l’aumento del controllo tecnologico, la militarizzazione di corpi e strutture civili, l’utilizzo dell’esercito in contesti urbani,l’appoggio e il finanziamento a gruppi e associazioni neofasciste, sono la spina dorsale e l’humus attorno a cui cresce e si sviluppa il corpo sociale in senso reazionario. Secondo noi sarebbe necessario adoperarsi per riuscire a mettere in relazione le istanze che provengono da queste situazioni con i movimenti esterni, ponendo l’attenzione attraverso l’analisi e la presenza fisica in quegli ambiti che sono maggiormente interessati da queste dinamiche.



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