SENZA CENSURA N. 31

marzo 2010

 

Movimento di classe e sionismo

Riflessioni su un rapporto ancora non chiarito

 

Un intervento del Comitato Ricordare la Nakba in occasione del Convegno sul Sionismo organizzato a Roma il 28-29 Novembre ‘09.

 

Salutiamo la tenuta e la partecipazione a questo convegno, come un evento di quelli che possono lasciare un segno politico importante. Riportare la “Questione Sionista” al centro del dibattito sul conflitto mediorientale, è un arduo obiettivo che ci siamo posti da anni. A nostro giudizio rappresenta il vero nodo della guerra in quella parte del pianeta, connesso alla costituzione di una entità politico-statuale (stato d’Israele), che dalla metà del secolo scorso si è proposta, per suoi interessi specifici, di svolgere lo sporco lavoro di gendarme dell’imperialismo nell’area. Un “lavoro” atto a garantire la transizione dal vecchio colonialismo al neocolonialismo, ad annullare gli effetti della decolonizzazione araba dalle grinfie dei mandati europei e per facilitare la penetrazione imperialista nordamericana. Gli eventi storici degli ultimi 60 anni nella Palestina occupata, sono tutti lì a dimostrare la vocazione colonialista del sionismo. In questo solco di ragionamento ci preme contribuire con una riflessione che riguarda il sottovalutato rapporto tra il movimento di classe e quello sionista, non sempre cristallino ma contraddittorio, sebbene l’antagonismo che lo dovrebbe caratterizzare sia piuttosto evidente.

Nonostante le guerre, i massacri, il razzismo e la colonizzazione che lo stato israeliano ha scatenato, nel corso dei decenni, contro gli arabi, in primis palestinesi, tutto ciò non ha, infatti, impedito che settori importanti del movimento operaio e comunista prima, praticamente l’insieme della sinistra istituzionale occidentale poi – compresi ampi spezzoni di quella “extraparlamentare” -, si siano attestati su posizioni ambigue, se non addirittura conniventi con il sionismo, soprattutto con quello presunto “socialista”, che fu poi alla base della fondazione dello stato ebraico. Al punto di spingersi alla pretesa di prefigurare l’esistenza di un presunto sionismo “buono” distinto da un altro “cattivo”…

Eppure il più famoso “ebreo” della Storia, Karl Marx, già due secoli orsono, si era preoccupato di mettere in guardia il movimento rivoluzionario dalle mire politiche dell’ebraismo politico, svelando, attraverso il suo scritto “La questione ebraica”, che questo in quanto tale - sebbene non ancora declinato in sionismo -, non aspirava altro che a formalizzare in uno stato nazionale il suo storico egoismo empirico (economico). Ossia come formalizzazione di una porzione del capitale internazionale accumulato dalle comunità ebraiche sparse nel mondo, in un capitale “nazionale”, sionista, non a caso avviata nella fase storica in cui il capitalismo si stava trasformando in imperialismo.

Una contraddizione antagonistica, quella tra comunismo e sionismo che, nonostante lo sforzo di Marx, non è stata sedimentata a sufficienza nel movimento rivoluzionario, ma è stata soggetta ad avanzamenti ed arretramenti. Una dialettica con luci ed ombre, “complicata” dal fatto che alle origini del movimento di classe, a cavallo tra ’800 e ‘900, molti intellettuali di origini ebraiche vi confluirono, partecipando attivamente alle lotte operaie, conquistando prestigio, rilievo e rendendo oggettivamente difficile la distinzione tra le loro origini e le loro posizioni. Kamenev, Zinoviev, Trotsky, Rosa Luxemburg, Terracini, Emilio Sereni, sono solo alcuni dei dirigenti comunisti di origine ebraica che, nel bene o nel male, hanno partecipato a scrivere la storia del movimento proletario. Contribuendo a risolvere il pregiudizio razzista antiebraico, ma, oggettivamente, preparando il terreno alla ben programmata opera d’infiltrazione politico-ideologia che, anni più tardi, fu orchestrata dai più scaltri settori del sionismo di “sinistra”. Settori che istigati dalla promessa della Palestina di Balfour (1917) e, cinicamente, strumentalizzando i pogrom antiebraici dei nazi-fascisti in tutta Europa (1933-1945), seppero sfruttare l’ondata emotiva di sdegno sull’Olocausto ebraico, per insediare il loro stato nel cuore del mondo arabo (1948).

Uno degli esempi più limpidi di tale ambiguità, amministrata anche cavalcando il movimento antifascista, fu la Guerra di Spagna. Quel conflitto rappresentò per i sionisti, un importante laboratorio per la costruzione della propria forza militare, la formazione dei quadri combattenti e dell’ossatura di organizzazioni terroristiche antiarabe e antibritanniche come l’Irgun, la Haganah e la Banda Stern. Non è forse a tutti noto, ma circa il 10% della forza combattente delle Brigate Internazionali in Spagna era di origine ebraica, che battendosi con valore - va riconosciuto - al fianco dei partigiani comunisti, repubblicani ed anarchici, diffuse simpatia nei confronti della propria causa.

Nella II° Guerra Mondiale, poi, ancora più scaltramente, i sionisti giocarono un complesso triplo gioco, puntando su tutti i tavoli del conflitto.

Su un primo tavolo, infatti, il Lehi (più noto come Banda Stern) propose d’intervenire accanto alla Germania nazista in funzione antibritannica, per ottenere il suo aiuto nella cacciata di quest’ultima dalla Palestina sotto il suo Mandato e per offrirle assistenza nell’“evacuare” gli ebrei dell’Europa. In base all’argomento che “prendere parte attiva alla guerra dalla parte della Germania” in cambio del sostegno nazista per “l’instaurazione di uno storico Stato ebraico su una base nazionale e totalitaria, connesso a un trattato con il Reich germanico” (1).

Contemporaneamente, un altro tavolo di accordi fu instaurato con gli Alleati anglo-americani, attraverso la costituzione della Brigata Ebraica, inquadrata nell’VIII° Armata britannica, composta da tre battaglioni. Ne facevano parte circa 5.500 uomini, per lo più del Palestine Regiment, ma anche arruolatisi in Europa, e provenienti complessivamente da oltre cinquanta Paesi. La sua bandiera era costituita da una stella di David posta tra due strisce azzurre in campo bianco. Ossia l’attuale bandiera dello stato sionista.

Infine i sionisti andarono anche all’incasso sul tavolo della lotta di classe, sfruttando la fiducia seminata nel movimento comunista e antifascista, anche con la partecipazione di loro brigate alla resistenza partigiana in mezza Europa, Italia compresa, dove furono attive soprattutto nell’Appennino tosco-emiliano.

Un elaborato triplo gioco, dove il sionismo era alleato di tutti, contro tutti, intento nella tessitura della tela a garanzia del futuro stato d’Israele, da stabilire in terra di Palestina. E’ un fatto storico innegabile che, in un modo o nell’altro, i sionisti riuscirono nell’impresa d’ingannare anche il ComInform a guida sovietica. Un inganno realizzato grazie all’abilità dei dirigenti sionisti, che lasciarono credere al gigante sovietico che, a spese degli arabi, sarebbe stato possibile insediare un focolaio “socialista” nel medioriente, pronto a subentrare alla decolonizzazione e garantire nell’area il punto di vista del costituendo Patto di Varsavia.

Un errore di valutazione storica e strategica sull’essenza e la natura del Progetto Sionista, quella del movimento comunista dell’epoca, che portò al frettoloso riconoscimento dello Stato d’Israele (1948) da parte dell’Unione Sovietica, che lo aveva considerato una sorta di «cavallo di Troia per espugnare la fortezza mediorientale». Un riconoscimento talmente precipitoso che addirittura anticipò quello delle potenze imperialiste. Una incomprensione che, meccanicamente, riguardò anche il PCI, che tradì altrettanta impazienza con un articolo del 30 giugno 1946 apparso su l’Unità, in cui si parlava di «un movimento indipendentistico degli ebrei in Palestina che lottano per la liberazione del Paese dall’oppressione britannica». Una nascita, quella dello stato d’Israele, che venne salutata così favorevolmente dal PCI, al punto che Umberto Terracini, durante il dibattito sulla ratifica della NATO, biasimò il «ritardo con cui il governo italiano aveva riconosciuto il giovane Stato».

Un pasticcio storico, va sottolineato, dovuto ad una radicata concezione della lotta assolutamente eurocentrica, che non esitò a scaricare sulle spalle di milioni di arabi il fardello del colonialismo sionista. Che dal canto suo, molto più consapevole dei propri progetti, fu invece implacabile nel “dare il ben servito” alle suggestioni sull’esportazione del socialismo. Una sanzione ben rappresentata dalle prime votazioni che si tennero per l’elezione della Knesset (1949), che costituirono la prima cocente tappa della disillusione comunista verso lo Stato ebraico; sostanziata dall’irrimediabile emarginazione del Maki (Partito comunista israeliano) e del Mapam (Socialista di sinistra) e decretarono la vittoria del Mapai (di ispirazione laburista) di Ben Gurion. A cui, a scanso di equivoci, seguì l’annuncio di un mega prestito nordamericano ad Israele, che sancì la definitiva collocazione strategica dei sionisti nell’orbita dell’imperialismo anglo-americano. Con buona pace dell’URSS e del PCI, che solo allora, con colpevole ritardo, iniziarono a ripensare la propria posizione in termini antisionisti.

Una coscienza antisionista che nei decenni successivi si radicò sempre più nel movimento comunista ed antimperialista internazionale, forgiata dalla crisi del Canale di Suez (1956), dalla guerra dei Sei Giorni (1067), da quella dello Yom Kippur (1973) e che portò alla storica risoluzione n°3379 dell’ONU nel 1975, in cui l’Assemblea Generale determinò  “che il sionismo è una forma di razzismo e di discriminazione razziale”, riconoscendone l’intrinseco carattere colonialista di matrice imperialista.

Una conquista della coscienza progressista mondiale, avvenuta sotto la spinta dei paesi Non Allineati e del cosiddetto sistema socialista, che segnò anche un parziale risarcimento politico e diplomatico al mondo arabo, del torto impostogli dall’avventato riconoscimento dello stato dei sionisti.

L’invasione del Libano e il massacro di Sabra e Chatila (1982), la dura repressione della I° Intifada (1987) e le operazioni dei sicari del Mossad in giro per il mondo, non fecero altro che confermare la correttezza di quella condanna agli occhi delle masse popolari, rafforzando la solidarietà filopalestinese della pubblica opinione internazionale. Simpatia e sostegno che però non furono sufficienti ad impedire che la stessa ONU, asservita al Nuovo Ordine Mondiale imperialista scaturito dal tracollo del blocco sovietico (1989), annullasse sbrigativamente quella stessa risoluzione (1991), dando la stura al peggior revisionismo storico filosionista.

Un revisionismo che riscrive la storia, nel tentativo di far apparire i carnefici (sionisti) come le “vittime” e le vittime (arabo-palestinesi) come i “carnefici”. In questo gioco alla manipolazione, il ruolo più subdolo l’hanno giocato gli eredi dell’eurocomunismo, confluiti poi in quell’Internazionale Socialista che annovera tra i suoi massimi dirigenti gente come il guerrafondaio Peres, attuale presidente dello stato ebraico.

Per essere sicuri di avere nella sinistra italiana un’arma di penetrazione affilata, personaggi come Fassino (da segretario dei DS) e Napolitano (presidente della repubblica) hanno deciso di riesumare la vecchia “Sinistra per Israele” (2005), organizzazione fondata ad hoc all’indomani della Guerra dei Sei Giorni, proprio per contenere lo scollamento determinato “a sinistra” col movimento sionista. Su quest’onda revisionista, anche la sinistra radical-chic non ha esitato a schierarsi apertamente con i sionisti. Su tutto valga la famigerata proclamazione di Bertinotti al suo ultimo congresso da segretario di Rifondazione Comunista, che si dichiarò “ebreo” con un chiarissimo sottinteso “sionista”. Una dichiarazione che, tra le tante altre “bestialità” fatte e dette, ne consacrò il definitivo distacco dalla gran massa dei militanti del PRC.

Non può essere comunque sottaciuto che questo bilanciamento politico e culturale pro-Israele, fu favorito anche dall’arrendevolezza e dalla connivenza con l’imperialismo, della corrotta ANP derivata dagli Accordi di Oslo (1993), con cui la vulgata revisionista ha avuto buon gioco nella sua opera di manipolazione delle coscienze, arrivando a far equiparare - in quelle dei meno attrezzati sull’argomento -, i diritti dei colonizzati con quelli dei colonizzatori.

Il concetto dei “due popoli, due stati” ha rappresentato la formula attraverso cui è avvenuta questa manipolazione delle coscienze. Un concetto subdolo, che nella sua prospettiva di stati formati su base etnico-religiosa, nega il Diritto al Ritorno dei palestinesi e prevede la deportazione o la ebraicizzazione di quelli residenti nella Palestina Storica, riproducendo una matrice razzista e colonialista. Va registrato che in questa trappola di presunta realpolitik ci è scivolata anche una consistente parte di strutture, associazioni e comitati, genuinamente solidali col popolo palestinese. Paradossalmente, proprio mentre i sionisti, invocando quella stessa “pace”, reprimevano con ferocia la II°Intifada (2001), distruggevano interi villaggi considerati roccaforti degli insorti, radevano al suolo mezzo Libano (2006), incarceravano, torturavano e uccidevano centinaia di dirigenti palestinesi, trasformando la Striscia di Gaza nella più grande e popolosa prigione a cielo aperto della storia umana.

Per non cadere “in depressione”, va anche detto che in quegli anni cupi, a fare “fronte” per tentare di arginare la deriva dell’equivicinanza, si sono battute con tenacia un manipolo di piccole forze e realtà che, seppur in minoranza, hanno fatto dell’antisionismo la propria linea del fuoco politico-culturale. Una battaglia politica intransigente, di principio, con momenti di dialettica nel movimento di solidarietà anche aspri (manifestazione pro-Palestina 2006) che, in un modo o nell’altro, ha però pagato. Come dimostra il Convegno che stiamo tenendo in questi giorni. Ovviamente non solo per merito di chi l’ha condotta, ma anche perché ci hanno pensato gli stessi sionisti a tirarsi via la maschera, con il sabotaggio risultati delle legittime elezioni palestinesi (2006), con l’assedio di Gaza, cercando di distruggerla con azioni di guerra devastanti (2009), bombardando anche con armi chimiche la popolazione palestinese e, non ultimo, colonizzando su larga scala altre porzioni di Palestina.

Un quadro nel quale oggi solo gli stolti e quelli in malafede, possono credere praticabile la “soluzione” dei 2 popoli 2 stati.

In considerazione di tutto ciò, come abbiamo detto, rimane ancora sul tappeto la questione sionista che, come un cancro politico e ideologico, da decenni divora popoli e nazioni mediorientali, avendo molto a che fare con razzismo e colonialismo antiarabo, e senza la soluzione della quale non sarà possibile nessuna giusta pace nell’area mediorientale.

Una persuasione che si sta sempre più facendo largo nelle coscienze nel mondo occidentale, pur impregnate di un formidabile eurocentrismo. Di questo ne sono consapevoli anche i sionisti che cercano di porvi rimedio giocandosi una carta disperata, cercando di equiparare l’antisionismo all’antisemitismo, provando a far identificare il progressista col reazionario. L’ennesima manipolazione della realtà e delle coscienze, che la lobby sionista, ebraica e non, sta cercando di introdurre “per legge” (proposta da Fiamma Nirenstein), con l’intenzione di depotenziare e criminalizzare la solidarietà tra i popoli.

Un’operazione di guerra psicologica e ideologica, che va rispedita al mittente con forza, nella chiarezza e senza fare sconti a fantomatici sionisti “buoni”. Non abbiamo nulla da temere se non i nostri tentennamenti, in quanto come abbiamo cercato di dimostrare, l’origine ebraica di molti  appartenenti al movimento rivoluzionario e antimperialista, non è mai stata un ostacolo alla possibilità di contribuire alla causa del progresso umano. Così com’è alla nostra portata dimostrare l’assurdità di spacciare per antisemita chi si schiera con determinazione, al fianco delle legittime rivendicazioni antisioniste e antimperialiste dei popoli arabi che, detto per inciso, sono i semiti per antonomasia.

La battaglia antagonistica contro il sionismo nella metropoli imperialista sarà ancora lunga e dura, ma ciò non toglie che vada combattuta in linea di principio, tenendo a mente la lezione che così come il nazi-fascismo non era un problema che riguardava solo gli ebrei, la questione sionista non riguarda solo il popolo arabo-palestinese, ma è un vitale interesse di tutti i popoli amanti della giustizia e della pace.

 

Comitato Ricordare la Nakba

 

 

Note:

(1) Documentato è il fatto che nel 1940 lo sternista Naftali Lubenchik fu inviato a Beirut, dove incontrò il funzionario nazista Werner Otto von Hentig, che consegnò la lettera con la richiesta d’accordo all’ambasciata tedesca di Ankara, dove fu protocollato.



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