SENZA CENSURA N. 31

marzo 2010

 

Verità affondate negli abissi

Pirati, rifiuti e interessi imperialisti in Somalia

 

Nel 1990, il governo della Somalia crollò; il paese era martoriato dai conflitti, dalla carestia e dai saccheggi. Nel 1992, gli Stati Uniti, che proprio qualche anno prima avevano scoperto giacimenti di petrolio in Somalia, lanciarono l’operazione “Restore Hope”; per la prima volta i marines intervennero direttamente in Africa per tentare di acquisire il controllo del paese, dando così inizio ad una operazione militare chiamandola “missione umanitaria”.

Le vere ragioni di questa operazione erano strategiche: mantenere gli USA come unica e sola super-potenza mondiale dopo la caduta del blocco sovietico, occupando una posizione egemonica in Africa, molto ricca di materie prime. I soldati americani furono però battuti dalla resistenza nazionale somala; la politica americana diventò quella di mantenere la Somalia senza un vero governo con la volontà di “balcanizzarla”.

Da allora, molte forze del mondo occidentale hanno visto questo territorio come una grande opportunità per rubare riserve alimentari e per scaricare residui radioattivi nei mari. Navi europee cominciarono ad apparire al largo delle coste della Somalia e a scaricare grandi serbatoi nell’Oceano. La popolazione costiera iniziò ad ammalarsi e, dopo lo tsunami del 2005, centinaia dei barili si depositarono sulla spiaggia, riversando sulle coste somale una grande quantità di scorie. La popolazione somala iniziò a contrarre strane malattie causate dall’irradiamento, e a morire. L’Europa, al corrente di tutto ciò, ha chiuso gli occhi perché questa soluzione presentava vantaggi pratici ed economici per il trattamento dei residui nucleari.

Allo stesso tempo, altre navi europee hanno continuato a depredare i mari della Somalia della loro maggiore risorsa: il pesce. Oltre 300 milioni di dollari di valore di pesce vengono rubati ogni anno da grandi pescherecci che assalgono illegalmente i mari della Somalia. Le nazioni maggiormente coinvolte in queste operazioni sono la Francia, la Norvegia, la Spagna, l’Italia, la Grecia, la Gran Bretagna, ma anche la Russia e i Paesi asiatici come la Korea, Taiwan, le Filippine, la Cina. I pescatori locali hanno così perduto improvvisamente i loro mezzi di sussistenza e stanno soffrendo la fame.

Questo è il contesto nel quale sono emersi gli uomini che chiamiamo “pirati”; pescatori somali che al principio hanno preso i motoscafi per cercare di dissuadere i trasportatori ed i pescherecci, o almeno levare su di essi una “tassa”; si sono auto-nominati per questo “Guardia Costiera Volontaria della Somalia”, considerando come banditi del mare quelli che pescano e scaricano illegalmente.

Nelle linee di commercio del Golfo di Adén si trasportano settimanalmente migliaia di milioni di dollari in prodotti per la regione. Quasi niente di questi fondi si usa per il beneficio del paese somalo che sta soffrendo anche del sottosviluppo risultante dalla continua ingerenza statunitense nei suoi temi interni. Quando alcuni dei pescatori hanno reagito, scompigliando il corridoio di transito per il 20% del rifornimento petrolifero mondiale, l’occidente ha cominciato a strillare. La pirateria somala, però, gode del consenso popolare, intere cittadine sono solidali e collaborano con i pirati nell’unico business praticabile. Lo scorso anno, il sito di notizie somalo indipendente “WardherNews” ha condotto una ricerca scoprendo che il 70% “appoggiava fortemente la pirateria come una forma di difesa nazionale delle acque territoriali del paese”.

Dunque in Somalia esistono due piraterie: una è all’origine del problema, la pesca illegale da parte di imbarcazioni straniere, che mentre pescano assolvono anche al compito di scaricare scorie tossiche industriali (attività iniziata negli anni ’70 e continuata soprattutto con la nascita in Occidente di leggi ambientali molto più severe di prima).  L’altra “pirateria” è quella che ci raccontano i media, che riguarda un Paese poverissimo in cui i pescatori non avevano altra possibilità se non quella di reagire con la violenza contro le navi e le proprietà delle nazioni coinvolte nella depredazione dei mari e che ci viene raccontata senza alcun accenno alle responsabilità del “primo mondo”; le esigenze di questi popoli sono rimosse e le loro disgrazie diventano cibo per gli avvoltoi schierati sul fronte dello “scontro di civiltà”.

L’anno scorso sono iniziate le deportazioni in Kenya di decine di marinai somali sospettati di atti di pirateria: detenzioni “provvisorie” in navi da guerra trasformate in carceri galleggianti, grazie agli Stati Uniti d’America, che avevano individuato poi la possibilità di de-responsabilizzarsi da istruttorie penali e processi, consegnando al Kenya i “pirati” catturati nel Golfo di Aden, in modo che fossero le autorità locali ad emettere le sentenze e condanne.

Le deportazioni dell’US Navy hanno cercato legittimazione in un accordo bilaterale con il governo del paese africano, l’Unione Europea ha scelto invece la scorciatoia del carteggio segreto: sono bastate un paio di missive dirette a Nairobi. Le autorità di Nairobi hanno scelto di fare orecchie da mercante di fronte alle innumerevoli denunce per violazione dei diritti umani, presentate dalle maggiori organizzazioni internazionali. In questo paese, infatti, sono purtroppo ricorrenti gli abusi della polizia, le limitazioni della libertà politica dei cittadini, la mancata accoglienza di profughi e sfollati (in buona parte somali). La polizia keniota è stata più volte accusata di violare i diritti umani dei cittadini applicando la tortura e l’omicidio non giustificato. Arresti, detenzioni, maltrattamenti e trasferimenti forzati sarebbero stati eseguiti in assenza di accuse specifiche e accompagnati dalla violazione di diritti civili, in applicazione delle leggi speciali concepite dal governo keniota per la cosiddetta “guerra al terrorismo”.

La scelta di Washington di puntare anche all’utilizzo dei velivoli senza pilota nella guerra alla pirateria, è stata interpretata come una presa d’atto del fallimento delle operazioni navali dello scorso anno a largo della Somalia, i cui costi, tra l’altro, non sono più sostenibili a medio-lungo termine. Le imbarcazioni degli assalitori hanno accresciuto progressivamente il loro raggio di azione, e starebbero seguendo il traffico navale utilizzando i Sistemi d’identificazione automatica AIS; da ciò, l’occupazione manu militari dell’arcipelago da parte degli USA e dell’UE e la sperimentazione di nuovi sistemi d’intercettazione aerea (vedi scheda).

Secondo i dati pubblicati nell’ultimo rapporto sulla pirateria dall’International Marittime Bureau, nei primi nove mesi del 2009 si sono verificati nelle acque dell’Africa orientale 147 incursioni pirata (100 nel Golfo di Aden e 47 nell’Oceano Indiano occidentale), più del doppio di quanto verificatosi l’anno precedente (63). Proprio mentre scriviamo una nave cisterna che trasportava sostanze chimiche, battente bandiera di Singapore, è stata sequestrata da presunti pirati somali, sempre nel Golfo di Aden. Era diretta in India ed è stata sequestrata proprio in una zona pattugliata dalla missione antipirateria dell’Unione Europea.

Le potenze occidentali, che hanno una pesante responsabilità nello sviluppo della pirateria in Somalia, invece di ammetterla e risarcire per quello che hanno fatto, criminalizzano il fenomeno al fine di giustificare le loro posizioni nella regione. La posizione geografica della Somalia è una posizione strategica sia per l’imperialismo americano che per quello europeo. Se dovesse nascere in Somalia un governo stabile, potrebbe subito adottare una strategia indipendente dagli Stati Uniti e magari scegliere come partner commerciale la Cina (come sta accadendo in altri paesi africani). Per questo motivo le potenze occidentali non vogliono uno stato somalo forte e unito, ma mantengono l’ingerenza nel paese anche per poter controllare lo sviluppo economico delle potenze emergenti come India e Cina.

A tal proposito, e per svelare le menzogne sui cosiddetti “conflitti interetnici” e sulla pirateria, pubblichiamo qui di seguito, un estratto dell’intervista di Gregorie Lailieu e Michel Collon a Mohamed Hassan (“Somalia: ecco come le potenze coloniali mantengono il paese nel caos”), esperto di “geopolitica”, nato ad Addis Abeba e che ha partecipato al movimento degli studenti nella cornice della rivoluzione del 1974 nel suo paese. Diplomatico per l’Etiopia negli anni 90, ha lavorato a Washington, Pechino e Bruxelles. Coautore di “Irak sotto occupazione” (EPO 2003), ha collaborato alla stesura di opere sul nazionalismo arabo e i movimenti islamici, e sul nazionalismo fiammingo; è uno dei più grandi esperti contemporanei di mondo arabo e musulmano.

 

L’operazione “Ocean Shield”

 

Il 17 agosto 2009, la Nato si è mobilitata nel Golfo di Aden, dando il via all’operazione “Ocean Shield”. A capo del team di pianificazione di Ocean Shield, il generale italiano Maurizio Boni, che dal novembre del 2007 riveste l’incarico di capo della divisione piani e politiche militari del comando congiunto di Lisbona. In Ottobre, il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, ha visitato la fregata italiana Libeccio, che partecipa all’operazione, accompagnato dal Presidente del Comitato militare della Nato, l’ammiraglio Giampaolo di Paola e dal vice segretario generale, Claudio Bisogniero ed ha ringraziato con un breve discorso ”gli uomini e le donne che operano al servizio della sicurezza internazionale”. Nave Libeccio contribuisce nell’ambito del gruppo SNMG2 (Standing Nato Maritime Group 2), unitamente alle fregate Navarinon (Grecia), Gediz (Turchia), Cornwall (Regno Unito) ed al cacciatorpediniere Donald Cook (Usa). I vascelli impegnati appartengono a 16 nazioni, fra le quali Giappone, Cina, India ed Arabia Saudita, ma principalmente alle tre maggiori missioni: Nato con l’operazione ”Ocean Shield”, Unione Europea con la missione ”Operazione Atalanta” e la missione Combined Task Force 151, nell’ambito della Combined Maritime Force (costituita agli esordi dell’operazione ”Enduring Freedom”), allo scopo di focalizzarsi sulla “lotta alla pirateria”.

 

[…] Lei dice che gli Stati Uniti non desiderano un processo di riconciliazione nazionale per la Somalia. Ma quali sono le origini delle divisioni tra somali?

Per capire bene la situazione caotica, dobbiamo andare a ritroso nella storia della Somalia. Questo paese è stato diviso dagli eserciti coloniali. Nel 1959, la Somalia diventa indipendente con l’unione delle colonie italiane del sud e britanniche del nord. Ma ci sono molti somali che continuano a vivere in certe zone del Kenya, dell’Etiopia, di Djibouti. Il nuovo stato somalo adotta da quel momento come soggetto della sua bandiera una stella, le cui punte rappresentano ciascuna una parte della Somalia storica. Questo significa che due Somalie sono state riunite ma ne restano tre ancora colonizzate. Davanti alla legittimità di questa rivendicazione, lo stato britannico -che controllava il Kenya- organizzò un referendum nella regione del Kenya rivendicata dalla Somalia. L’87% della popolazione, essendo essenzialmente di etnia somala, si pronuncerà per l’unità della Somalia. Ma quando i risultati furono pubblicati, Jomo Keniatta, leader di un movimento nazionalista Keniota, minacciò che avrebbe espulso i coloni se avessero ceduto una parte di territorio alla Somalia. La gran-Bretagna decise quindi di non tenere conto del risultato elettorale, e oggi, ancora, un’importante comunità somala vive in Kenya. Bisogna capire bene che questa spartizione delle frontiere coloniali è stata una vera catastrofe per la Somalia. Infatti, da allora, questo problema è diventato oggetto di un importante dibattito sul continente africano.

 

Qual è la posta in gioco in questo dibattito?

Negli anni 60, allorché la maggioranza dei paesi africani divenne indipendente, nacque un dibattito che opponeva due diversi schieramenti: quello così detto di Monrovia e quello di Casablanca. Quest’ultimo, che comprendeva tra gli altri Marocco e Somalia, sosteneva la necessità di ridiscutere le frontiere ereditate dal colonialismo. Queste frontiere non avevano, infatti, nessuna legittimità ai loro occhi. Ma la maggioranza dei paesi africani e le loro frontiere sono frutto del colonialismo. Ad un certo punto l’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA), “antenato” dell’attuale Unione Africana, pone fine al dibattito sancendo che le frontiere sono indiscutibili: ritornare su queste decisioni provocherebbe una serie di guerre civili per tutto il continente. Più tardi, uno degli “architetti” dell’OUA, il tanzanese Julius Nyerere, confessò che quella presa era la migliore delle decisioni possibili ma che non era auspicabile per il caso somalo.

 

Qual è stato l’impatto dei confini coloniali sulla Somalia?

Essi continuano a creare tensioni con i paesi vicini. Negli anni in cui la Somalia reclamava la revisione delle frontiere, l’Etiopia è diventata un bastione dell’imperialismo USA che possedeva già basi militari in Kenya ed in Eritrea. É stato allora che la Somalia, giovane democrazia pastorale, sentì l’esigenza di dotarsi di un suo esercito. Innanzitutto, per non sembrare troppo debole agli occhi delle vicine armate, per sostenere i movimenti somali in Etiopia e per recuperare con la forza alcuni territori. Ma le potenze occidentali si opposero alla creazione di un’armata somala.

 

Quindi tra la Somalia e i suoi vicini i rapporti erano tesi. Non era quindi ragionevole opporsi a questo progetto per un’armata somala? Infatti, avrebbe potuto provocare delle guerre...

Ciò che preoccupava l’Occidente non erano le guerre tra paesi africani, ma i propri interessi. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna equipaggiavano e addestravano i militari di Kenya, Eritrea ed Etiopia, paesi che vivevano ancora sotto il giogo di sistemi feudali molto oppressivi. Si trattava di regimi neo-coloniali votati agli interessi degli occidentali. In Somalia, invece, il potere era più democratico e indipendente. L’Occidente non aveva nessun interesse ad armare un paese che poteva sfuggire al suo controllo. Conseguentemente la Somalia decise di rivolgersi all’Unione Sovietica. Ciò inquietò fortemente le potenze occidentali che desideravano impedire che la sfera d’influenza sovietica si estendesse in Africa. Queste fratture andranno sempre più ad accentuarsi con il colpo di stato del 1969.

 

Cosa vuol dire?

Le idee socialiste si erano diffuse per il paese. In effetti, una importante comunità somala viveva ad Aden nel sud dello Yemen e, proprio in questa città, la Gran Bretagna inviava abitualmente in esilio tutte quelle persone che considerava pericolose in India: comunisti, nazionalisti, ecc. Questi venivano tutti arrestati e condotti ad Aden dove si diffonderanno rapidamente le idee nazionaliste e rivoluzionarie che contamineranno più tardi gli Yemeniti ma anche i Somali. Grazie all’impulso dato dalle idee marxiste, un colpo di stato fu organizzato nel 1969 dai militari e Siad Barré prende il potere in Somalia.

 

Quali furono i presupposti che portarono al colpo di stato?

Il governo somalo era corrotto. D’altra parte aveva tutti gli ingredienti in mano per elevare il paese al rango di grande potenza: posizione strategica, una lingua unica, un’unica religione e molti altri elementi culturali comuni, cosa alquanto rara in Africa. Ma non riuscendo a realizzare lo sviluppo economico del paese, il governo creò le condizioni favorevoli allo scontro tra clan. Con il pretesto di fare politica, le élites somale si sono divise, ciascuna creando un suo partito ma senza un vero programma, reclutando ognuno il suo elettorato all’interno dei vari clan. Questa politica accentuò le divisioni rivelandosi totalmente inefficace. Una democrazia di tipo liberale, nei fatti, non era adatta alla Somalia: a un certo punto esistevano 63 partiti politici su una popolazione di tre milioni di abitanti! Il governo non fu neppure in grado di stabilire una scrittura ufficiale creando dei grossi problemi in seno all’amministrazione. Anche l’apparato educativo rimase debole. Si riuscì, malgrado tutto, a strutturare un sistema burocratico, una polizia, un esercito. Questi apparati giocheranno un ruolo fondamentale nel colpo di stato progressista.

 

Progressista! Con l’esercito?

L’esercito era l’unica istituzione organizzata, in Somalia. Ma più che apparato repressivo, il suo compito era quello di proteggere il “governo civile” e l’élite. Ma per molti Somali provenienti da famiglie e regioni diverse, l’esercito era anche un luogo di incontri e scambi nel quale non esistevano frontiere, tribalismi e divisioni in clans...è per questo che le idee marxiste ereditate ad Aden cominciarono a circolare in seno all’esercito. Il colpo di stato sarà portato avanti dagli ufficiali che erano principalmente nazionalisti e che pur non conoscendo perfettamente il socialismo, provavano simpatia per quelle idee. In più essi erano al corrente di ciò che stava accadendo in Vietnam e nutrivano sentimenti anti-capitalisti. I civili che conoscevano bene Marx e Lenin ma che non avevano partiti politici di massa, appoggiarono il colpo di stato e divennero consiglieri degli ufficiali dal momento che furono loro a prendere il potere.

 

Quale cambiamento ha portato il colpo di stato in Somalia?

Un aspetto positivo importante: il nuovo governo adotta rapidamente una scrittura ufficiale. In più Unione Sovietica e Cina aiutarono la Somalia. Gli studenti e la popolazione si mobilitarono. L’apparato educativo e le condizioni di vita migliorarono. Gli anni che seguirono il colpo di stato furono i migliori anni che la Somalia abbia mai conosciuto. Fino al 1977.

 

Che cosa è cambiato?

La Somalia, che era stata divisa dalle potenze coloniali, attaccò l’Etiopia per recuperare il territorio dell’Ogaden, in maggioranza abitato da Somali. A quell’epoca però anche l’Etiopia era a sua volta uno stato socialista sostenuto dai sovietici. Quel paese era stato governato per tanto tempo dall’imperatore Sélassié, ma durante gli anni settanta la mobilitazione fu abbastanza forte per rovesciarlo. Il movimento degli studenti -al quale anch’io ho partecipato-poneva quattro rivendicazioni principali. Per prima cosa: risolvere le tensioni con l’Eritrea in maniera pacifica e democratica. In secondo luogo, stabilire una riforma che ridistribuisse le terre ai contadini. Terzo: stabilire il principio di uguaglianza delle nazionalità: l’Etiopia era allora un paese multinazionale diretto da un’ élite non rappresentativa delle differenze. Quarto: abolire il sistema feudale e creare uno stato democratico. Tutto come in Somalia, l’esercito in Etiopia era l’unica istituzione organizzata, e i civili si unirono agli ufficiali per rovesciare Sélassié nel 1974.

 

Com’è possibile che due paesi, entrambi sostenuti dall’Unione Sovietica si siano fatti la guerra?

Dopo la rivoluzione etiope, una delegazione che comprendeva l’Unione Sovietica, Cuba e lo Yémen del sud organizzò una tavola rotonda in presenza di Etiopia e Somalia per risolvere le loro contrapposizioni. Castro si recò ad Addis Abeba e a Mogadiscio. Secondo lui le rivendicazioni somale erano più che giustificate. Finalmente la delegazione etiope accettò di analizzare seriamente la richiesta del suo vicino somalo e i due paesi firmarono un accordo secondo il quale non ci sarebbe stato alcun atto provocatorio nel periodo che sarebbe servito per prendere una decisione. Le cose sembravano dunque partire con il piede giusto, ma la Somalia non rispettò questo accordo... due giorni dopo che la delegazione etiope aveva fatto ritorno nel suo paese, Henry Kissinger, ministro durante la presidenza Nixon, sbarcò a Mogadiscio. Kissinger era rappresentante di una organizzazione ufficiale: il Safari club, che raggruppava l’Iran di Chan, il Congo di Mobutu, l’Arabia Saudita, il Marocco, i servizi segreti francese e pachistano. L’obiettivo di questa organizzazione era contrastare le infiltrazioni sovietiche nel golfo e in Africa. Sotto la pressione e le promesse di aiuti del Safari club, Siad Barré si accinse a autorizzare un disastro; fu un grave errore strategico invadere l’Etiopia.

 

Quali saranno le conseguenze di questa guerra?

I Sovietici abbandonarono la regione, e la Somalia, sempre presieduta da Siad Barré, si inserì nella rete neo-coloniale delle potenze imperialiste. Il paese fu seriamente danneggiato dal conflitto e la Banca Mondiale e il FMI furono incaricati della “ricostruzione”. Ciò andò ad aggravare le contraddizioni in seno alla borghesia somala. Ogni élite regionale voleva possedere la sua fetta di affari. In questo modo accentuarono i conflitti fra clan e contribuirono al progressivo smembramento del paese fino alla caduta di Siad Barré nel 1990. Da quel momento non c’è più stato nessun capo di stato a succedergli.

 

Ma dopo la guerra dell’Ogaden, lo scenario si ribalta: l’Etiopia verrà appoggiata dagli Stati Uniti per attaccare la Somalia....

Si, come ho già detto, dopo l’insuccesso dell’operazione Restore Hope, gli Stati Uniti preferirono mantenere la Somalia nel caos. Per questo, nel 2006, un movimento spontaneo si sviluppò sotto la bandiera dei tribunali islamici per combattere i signori della guerra locali e per ristabilire l’unità del paese. Nasce una sorta di intifada. Per contrastare questo movimento di ricomposizione della Somalia, gli Stati Uniti decisero bruscamente di appoggiare il governo di transizione somalo, che non avevano mai voluto riconoscere. In effetti si resero conto che il loro progetto di una Somalia senza stato effettivo non era più possibile e che un movimento, per di più islamico, stava per approdare a una riconciliazione nazionale. Con l’obiettivo di sabotare la riconciliazione nazionale decisero, quindi, di appoggiare il governo di transizione. Ma siccome questo governo non era provvisto né di una base sociale, né di un esercito, furono le truppe etiopi comandate da Washington che attaccarono Mogadiscio per annientare i tribunali islamici.

 

Ciò ha pagato?

No, l’armata etiope è stata sconfitta e ha dovuto lasciare la Somalia. I tribunali islamici si sono divisi in diversi movimenti che ancora oggi controllano buona parte del paese. Quanto al governo di transizione di Abdullah Yussuf, è crollato e gli Stati Uniti l’hanno rimpiazzato con Sheik Sharrif, ex portavoce dei tribunali islamici.

 

Sheik Sharrif è dunque passato “dall’altra parte”?

Egli occupava il ruolo di portavoce dei tribunali islamici, perché è un buon oratore. Ma non ha preparazione politica. Non ha nessuna idea di che cosa sono l’imperialismo e il nazionalismo; è per questo che le potenze occidentali l’anno riciclato. Era l’anello debole dei tribunali islamici. Oggi presiede un falso governo creato a Djibuti, che non ha alcuna base sociale o autorità in Somalia. Esiste solo per la rappresentanza internazionale e perché le potenze imperialiste lo sostengono.

 

In Afganistan, gli Stati Uniti si dicono pronti a negoziare con i Talebani. Perché non cercano di dialogare anche con i gruppi islamici in Somalia?

Perché questi gruppi vogliono sbarazzarsi dell’occupante straniero e favorire una riconciliazione nazionale del popolo somalo. In questo momento, gli Stati Uniti vogliono frantumare questi gruppi, perché una riconciliazione -che sia attraverso i movimenti islamici o il governo di transizione- non è negli interessi delle forze capitaliste. Esse vogliono appunto il caos. Il problema è che questo caos si estende anche all’Etiopia, molto fragile dopo l’aggressione del 2007. Un movimento di lotta nazionale è nato contro il governo imperialista di Addis-Abeba. Con la loro teoria del caos, gli Stati Uniti hanno, quindi, creato problemi in tutta la regione. In questo momento si stanno interessando anche dell’Eritrea.

 

Come mai?

Questo piccolo paese porta avanti una sua politica indipendente. L’Eritrea infatti ha un progetto per tutta la regione: il Corno d’ Africa non ha bisogno dell’ingerenza delle potenze straniere, le sue ricchezze devono permettergli di stabilire nuove relazioni economiche,  basate sul mutuo rispetto. Per l’Eritrea dev’essere questa regione ad interessarsi di se stessa e i suoi membri devono poter discutere dei loro problemi. Ovviamente, questa politica spaventa gli Stati Uniti che temono che altri paesi seguano questo esempio. Allora stanno accusando l’Eritrea di inviare armi in Somalia e di stare incentivando la formazione di truppe in Etiopia.

 

Secondo lei l’Eritrea invia armi in Somalia?

Ma neanche una cartuccia...si tratta di pura propaganda come quella che hanno tirato fuori contro la Siria a proposito della resistenza irachena. La prospettiva eritrea vuole realizzare la rivoluzione dell’Oceano indiano di cui parlavamo prima. Le potenze occidentali non vogliono questo e continuano a considerare l’Eritrea tra gli Stati neo-coloniali che si trovano sotto il loro controllo, come il Kenja, l’Etiopia, l’Uganda.

 

Ci sono dei terroristi in Somalia?

Le potenze occidentali presentano sempre i popoli in lotta per i loro diritti come terroristi. Gli irlandesi erano dei terroristi fino a che non hanno siglato un accordo. Abbas era un terrorista. Ora è un amico.

 

Però si parla di una presenza di Al Qaeda?

Al Qaeda è ovunque, dal Belgio all’Australia! Questa Al Qaeda e un logo invisibile destinato a giustificare davanti all’opinione pubblica tutte le operazioni militari. Se gli Stati uniti dicono ai loro cittadini e ai loro soldati “ Noi mandiamo le truppe nell’Oceano Indiano per contrastare la Cina” le persone avrebbero paura di credere alle loro orecchie. Ma se essi dicono che serve per combattere i pirati e Al Qaeda, ciò non pone problemi. In realtà la verità è tutta un’altra. Consiste nel continuare a dislocare forze nell’Oceano indiano, che sarà teatro, l’anno prossimo, dei peggiori conflitti...

 

[Intervista completa a Mohamed Hassan: www.senzacensura.org]

 

Fonti: www.pane-rose.it, www.resistenze.org 

 

I velivoli UAV “MQ-9 Reaper”

Come accennavamo nello scorso numero di Senza Censura, AFRICOM (comando delle forze armate USA per le operazioni nel continente africano) sta intervenendo direttamente contro la pirateria navale nel Golfo di Aden, grazie anche all’uso dei nuovi velivoli senza pilota UAV “MQ-9 Reaper”, dislocati nell’aeroporto internazionale Mahé delle isole Seychelles. Lunghi 20 metri, “MQ-9 Reaper” possono volare per 30 ore consecutive ad una velocità di oltre 440 chilometri all’ora e un raggio operativo di 4.800 chilometri. Sono dotati di sofisticate telecamere e sensori per captare qualsiasi oggetto si muova nell’oceano e sono guidati a distanza da stazioni terrestri e satellitari. In Afghanistan vengono utilizzati per missioni di attacco con missili “Wingspan” e bombe a caduta libera.. La forza navale statunitense nel Golfo di Aden ha utilizzato sino ad oggi, per intercettare le imbarcazioni utilizzate dai pirati per gli assalti, un UAV molto più piccolo del “Reaper”, lo “ScanEagle”; con il debutto di AFRICOM nella crociata per la “libertà dei mari africani”, le forze armate USA possono dunque estendere il loro bacino operativo con dispositivi di guerra a tecnologia più avanzata. L’installazione degli UAV alle Seychelles apre inquietanti scenari per ciò che riguarda la lotta scatenata dal Pentagono contro le organizzazioni islamiche radicali in territorio somalo. Secondo quanto rivelato dal EastAfrican, citando “fonti ufficiali del Comando AFRICOM di Stoccarda”, gli aerei senza pilota potrebbero essere utilizzati, infatti, “per cacciare e attaccare i militanti islamici all’interno della Somalia”, sfruttando il mandato delle Nazioni Unite che autorizza le operazioni “anti-pirateria” anche a terra. Il 14 settembre 2009, le forze armate USA hanno effettuato un raid nei pressi del villaggio di Barawe, 155 miglia a sud di Mogadiscio, uccidendo un imprecisato numero di militanti del gruppo islamico al-Shabab. Secondo quanto rivelato dal New York Times, l’attacco sarebbe stato sferrato utilizzando alcuni elicotteri dell’US Army dotati da cannoni di 50 mm, congiuntamente all’intervento degli uomini dell’US Joint Special Operations Command e dei reparti d’assalto del Navy SEAL e l’operazione avrebbe preso il via dopo un ordine firmato direttamente dal presidente Barack Obama. Secondo uno studio della New America Foundation, negli ultimi dieci mesi l’amministrazione USA ha ordinato 41 incursioni aeree con i “Predator”, contro le 34 registrate nell’ultimo anno di presidenza di Gorge Bush; dal 2006 sino ad oggi, le operazioni dei “Predator” avrebbero causato in Pakistan un migliaio di morti.



http://www.senzacensura.org/