SENZA CENSURA N. 32

giugno 2010

 

eurocrack!

La crisi nell'eurozona

 

Europa: fine di un’illusione

Con questo contributo cerchiamo di continuare il lavoro di analisi sulla crisi economica che inevitabilmente da alcuni numeri è al centro delle riflessioni della rivista.

I recenti sviluppi, dalla crisi del debito sovrano di Dubai dell’autunno scorso, passando per la Grecia e giungendo all’eurozona, hanno messo in evidenza alcuni aspetti delle dinamiche di questo sistema, in particolar modo riguardanti il blocco sociale dominante in Europa.

La fragilità dell’illusione della costruzione di un polo politico-economico europeo sta crollando sotto la pressione della finanzia made in USA e a causa delle contraddizioni tra i gruppi di potere nazionali, sempre in bilico tra “fughe in avanti” unilaterali, azioni concertate a livello europeo e iniziative prese insieme alle istituzioni politico-finanziarie internazionali; ed infine, ed è probabilmente la causa principale, per le dinamiche economiche intrinseche dell’eurozona.

Ciò che tutti gli analisti evidenziano è la mancanza di una “regia europea”, e la “scommessa perduta” dell’Euro, ma andando più a fondo nell’indagine, e prendendo a prestito le parole di S.Amin, si può affermare che: «l’euro è stato creato in assenza di uno stato europeo, che sostituisse gli stati nazionali, le cui principali funzioni di gestori degli interessi generali dei capitali erano esse stesse in via di abolizione. Il dogma di una moneta “indipendente” dallo stato esprime questa assurdità. L’”Europa” politica non esiste. Nonostante si immagini ingenuamente di superare il principio di sovranità, gli stati nazionali restano gli unici legittimi. Non c’è la maturità politica che farebbe accettare al popolo di una qualsiasi delle nazioni storiche che costituiscono l’Europa il risultato di un “voto europeo”». [1] Certamente le varie borghesie nazionali possono, per salvarsi, legare a sé porzioni sociali consistenti in chiave sciovinista e anti-europeista.

La vacuità di questo aspirante polo politico è stata messa in luce negli ultimi anni almeno tre volte. Nel momento più caldo della crisi nell’autunno 2008 e di maggior confusione a Washington (Obama non era ancora presidente), dopo il G20 convocato a Londra da G.Brown, l’incipit di una possibile triangolazione Londra-Berlino-Parigi s’è arrestata presto, le opzioni di uscita dal crisi proposte dai paesi di questo ipotetico asse sono state differenti, e l’ America ha ripreso presto a considerarsi come l’unico paese in grado di elaborare una strategia di uscita dalla grande crisi, varando tra l’altro il maxipiano di rilancio della crescita proposto da Obama nel gennaio 2009.

Nella primavera-estate del 2009, l’establishment cinese ha rivolto accuse sempre più esplicite all’America dal punto di vista della sua gestione del deficit pubblico, finanziato lautamente dalla Cina. Considerato dal paese asiatico come una “fabbrica d’inflazione futura” destinata a distruggere il valore dei crediti cinesi verso gli USA, la Cina comincia a insistere in tutte le sedi multilaterali per rimettere in discussione il ruolo del dollaro come unica moneta universale, sostenendo a ragione, come altri politici ed economisti europei prima di lei, che tutti gli squilibri dell’economia americana sono destinati a dilatarsi su scala mondiale.

Già la Francia di De Gaulle negli anni sessanta accusava l’America di Johnson di farsi finanziare la guerra del Vietnam dagli europei, stampando dollari esportando inflazione.

Ma la prospettiva di una nuova cornice monetaria mondiale con l’Euro (il renminbi/yuan  - la valuta cinese - non è ancora convertibile) al centro è velocemente sfumata, tanto che nel marzo 2010 Hu Jintao s’è fatto strappare la promessa di una futura rivalutazione della moneta cinese (attuata poi a metà di giugno), che sarebbe una boccata d’ossigeno per l’export americano.

Tali deficit di politica monetaria appare ancora più significativo alla luce dello sviluppo della macro-regione economica asiatica di libero scambio, l’Asean, a cui ha recentemente aderito la Cina, di cui l’Europa è il principale partner commerciale.

Il terzo caso, più noto alle cronache è stata la crisi greca, in cui i governi europei si sono comportati come gli strozzini di fronte ad un creditore in agonia, in cui i nuovi “aiuti” paventati e poi elargiti sono solo un nodo più stretto al cappio tenuto dal “cravattaro”: nonostante l’esposizione delle banche europee (soprattutto francesi) e la chiara prospettiva di un effetto domino, la Germania non ha mollato la presa e il bail-out è avvenuto solo al punto più al alto della speculazione dei mercati finanziari sul debito “greco”, senza che fosse arrestata la dinamica speculativa e le malevoci su Spagna, Portogallo e Italia.

Completa il quadro il fatto che questa primavera mentre l’Europa pensava se e come dovesse intervenire a sostenere la Grecia, cioè il suo debito pubblico comprato dalle banche europee riuscendo a specularci a dovere, la Cina concedeva un consistente prestito al Venezuela a condizioni che Chavez stesso affermava essere molto diverse dalle modalità di pagamento imposte ai paesi debitori dal FMI.

Con tutte le differenze del caso, per capire meglio la pluralità degli attori e delle strategie in campo da tempo, viene in mente una tappa fondamentale dello sviluppo della finanza islamica. Nel pieno della crisi dei mercati asiatici, a fine anni novanta, l’allora primo ministro malese Mohamad Mahathir rifiuta l’intervento del fondo monetario internazionale, attacca il comportamento delle borse occidentali che speculano al ribasso sulle valute asiatiche e accusa la finanza occidentale di voler indebolire il suo paese. Inaspettatamente, decide di trasformare la finanza nazionale in un sistema alternativo ispirato alla Svaria. Inizia così l’islamizzazione delle banche malesi. Per assicurare un adeguato sostegno economico Mahathir si rivolge ai fratelli mussulmani del golfo. Attira i capitali attraverso la prodotti finanziari conformi alla Svaria, primi fra tutti i sukuk, i buoni del tesoro islamici. La formula funziona e quello malese diventa il primo caso di salvataggio finanziario islamico…

 

Tra imitazione e repulsione: le manovre economiche europee

Le manovre economiche attuate a livello centrale e dai singoli stati non fanno altro che rimandare il problema esacerbandolo.

Se da un lato il “salvataggio” concertato con FMI dell’economia europea crea l’illusione di una boccata d’ossigeno per i mercati, non inverte il processo che ha portato a questa situazione.

Oltre alle disposizioni per aumentare la trasparenza dei mercati e il controllo delle singole istituzioni competenti, le misure adottate sono un bel mix di ingigantimento del rischio e stregoneria economica.

Parte di queste decisioni sono una semplice fotocopia di ciò che le istituzioni finanziarie statunitensi hanno fatto con le banche USA, trasferendo il rischio ad un piano più elevato, che non riguarda più solo le singole banche nazionali, per quanto intrecciate tra di loro, ma la BCE, diventando “prestatrice di ultima istanza”, acquista possibili “titoli spazzatura” degli stati (junk bond nella vulgata economica).

Con la formazione del European Financial Stability Facility (Efsf) si crea un’istituzione ex-novo garantita dai versamenti dei 16 singoli stati della UE, in proporzione alla propria quota nella BCE più il 20%, che “indebitandosi” avrebbe la possibilità di intervenire in caso di un elevato rischio di default per uno stato, emettendo bond con tripla A per raccogliere fondi dal dirottare al paese in difficoltà fino a 440 miliardi di euro: per fare fronte a problemi di debito, ci si indebita ulteriormente…

Il pacchetto salva Eurolandia, varato insieme al FMI, è più ingente e supera la ragguardevole cifra di 700 miliardi di Euro, 110 solo per la Grecia.

Per garantire che non ci siano crisi di liquidità ma un flusso di denaro costante, le misure di “sterilizzazione” dell’eccedenza di Euro a buon mercato per impedire che cresca l’inflazione, non sono altro che altri esempi di “finanza creativa” con il fiato corto.

Le altre manovre di governance economica proposte e in parte attuate dai singoli stati, sono invece parte dell’abbozzata reazione alla guerra finanziaria di alcuni strumenti e modalità di speculazione finanziaria.

Questa timida contro-offensiva riguarda quella particolare tipologia di derivati finanziari chiamati Credit default swap, una sorta di assicurazione contro il rischio che diventa a sua volta uno strumento di speculazione finanziaria tra i più lucrosi. Emersi alla conoscenza degli stessi analisti finanziari con la crisi dei mutui subprime, sono tra i veicoli privilegiati della finanza strutturata.

Inoltre nel mirino dell’UE ci sono anche i fondi di investimento, gli hedge funds dei banchieri che dominano Wall street, che hanno eletto la city a propria capitale esentasse d’eccezione, e le “loro” agenzie di rating, oligopoli della valutazione del valore finanziario.

Per ultimo la pratica del short selling, vero gioco di prestigio finanziario, che consiste nel prendere a prestito qualcosa per rivenderlo ad un prezzo maggiore di quello a cui a sua volta lo si riacquista prima di doverlo pagare formalmente, giocando “al ribasso” su un titolo fino ad abissarlo.

Dall’altro canto le varie politiche di austerity promosse a catena dai vari esecutivi contribuiscono a delegittimare l’operato dei singoli governi, così come le spinte di integrazione europea nonostante le nuove adesioni proposte. Si potrebbe sviluppare un interessante movimento sociale a livello europeo, così come una ancora più marcata deriva xenofoba, o esplosioni sociali che per quanto intense ed estese difficilmente pongono la prospettiva di una trasformazione sociale e gli strumenti per realizzarla mettendo in discussione radicalmente i rapporti di potere tra le classi.

È certo comunque che si riducono i margini di decisione di politica-economica per gli stati “più deboli”, anche se la definizione è impropria, di Eurolandia, fino ad arrivare a forme, come in Grecia, di neo-protettorato, con i cosiddetti aiuti vincolati alla verifica costante di paesi prestatori dell’UE e dell’FMI: è come inchiodare il piede sull’acceleratore di una macchina che si dirige verso uno strapiombo con il volante bloccato e i freni inutilizzabili …

E qui che si gioca la partita, o si è in grado di defilarsi da questo ruolo di crash test dummies che la politica europea ha riservato per noi, o siamo solo all’inizio.

 

Islanda prima, Europa dell’est poi…

Il problema della sovra-esposizione degli istituti europei occidentali in Europa orientale è del tutto rilevante.

Ripropone ad un livello assai più esteso parte di ciò che è già successo in Islanda, dove le tre banche principali, operavano con una esposizione di 11 volte più grande del pil di questo paese a causa dell’afflusso di denaro dal mercato globale per finanziare debito pubblico, azioni e obbligazioni islandesi. In particolare risultava conveniente a fini speculativi contrarre prestiti, ad esempio, in Giappone (dove il costo del denaro è molto vicino allo zero!) e reinvestirli In Islanda: il meccanismo si chiama carry trade, lo si vedrà più avanti come si è sviluppato a livello europeo, ha funzionato per una decina d’anni ma poi s’è inceppato con lo scoppio della crisi USA, lasciando esposte le banche di Londra e dell’Aja.Gran Bretagna e Olanda hanno infatti anticipato gli indennizzi per i loro 400mila correntisti danneggiati dal fallimento, perchè lo scorso marzo il 93,5% degli islandesi hanno respinto le condizioni del negoziato che prevedeva un rimborso totale entro il 2024 dei 3,9 miliardi erogati da Londra e L’Aja per indennizzare i loro risparmiatori, in pratica 100 euro al mese per 14 anni per ogni abitante dell’Islanda.

Detto per inciso, un referendum ha confermato con un plebiscito la decisione governativa di non volere ripagare il debito contratto con operatori esteri.

Ma torniamo all’Europa dell’est.

A inizio anni novanta le banche europee hanno acquistato a buon mercato le banche dei paesi divenuti indipendenti, successivamente l’ondata di fusioni e acquisizioni di istituti di credito tra le varie banche europee ha complicato ulteriormente la faccenda.

Il basso costo del denaro ha reso possibile lo sviluppo del credito facile con investimenti ad “alto rischio” oltre confine, sostenendo i mutui ipotecari sulla casa espressi in una valuta diversa da quella del paese dell’est in cui il mutuo veniva contratto, per esempio in Polonia il 60% dei mutui ipotecari è in franchi svizzeri.

È un film già visto, anche da noi, finché la congiuntura economica è stata positiva, il denaro a buon mercato e la possibilità di fornire un minimo di garanzia per l’accesso ad un prestito ipotecario è andato tutto liscio: i prezzi delle case salivano, i tassi del mutuo erano bassi, ma quando dall’autunno del 2008 la forbice ha incominciato ad invertirsi e la situazione di stagnazione economica si è fatta più grave, il giocattolo s’è rotto.

La BERS ha stimato che l’Europa dell’Est ha bisogno di almeno 400 miliardi di euro di aiuti per coprire i prestiti e sostenere il sistema creditizio: più o meno la stessa cifra disponibile dal maxi-fondo di salvataggio europeo creato ex-novo.

Scriveva nel marzo di quest’anno F. W. Engdahi:« i governi europei stanno peggiorando le cose. Alcuni di loro stanno facendo pressioni sulle loro banche per fare marcia indietro, vendendo sottocosto le loro consociate nell’Europa Orientale. Atene ha ordinato alle banche greche di ritirarsi di Balcani. Le somme necessarie vanno oltre i limiti del FMI, che ha già tirato fuori dai guai Ungheria, Ucraina, Lettonia, Bielorussia, Islanda e Pakistan – e prossimamente la Turchia – e sta rapidamente esaurendo la sua riserva da 155 miliardi di euro, obbligando a vendere le proprie riserve d’oro per aumentare la liquidità. Il recente salvataggio del FMI da 16 miliardi di dollari in Ucraina si è districato. Il paese – che sta subendo una contrazione del 12 per cento del Pil dopo il crollo dei prezzi dell’acciaio – si sta avviando verso l’insolvenza, lasciando Unicredit, Raffeisen e ING di fronte al disastro. Il governatore della banca centrale della Lettonia ha dichiarato la sua economia “clinicamente morta” dopo essere diminuita del 10,5 per cento nel quarto trimestre. I manifestanti hanno causato danni al Tesoro e preso d’assalto il parlamento». [2]

 

Il nano europeo e il gigante americano?

Il Fondo Monetario Internazionale quindi, prima della crisi in Grecia, stava già dettando le condizioni per le riforme strutturali ad alcuni paesi della periferia europea, limitando di fatto la possibilità di un intervento economico autonomo nelle zone d’espansione naturale dell’integrazione di Eurolandia.

L’incapacità di gestire autonomamente le politiche di governance economica nell’eurozona si traducono di fatto in una maggiore subordinazione agli USA anche da parte dei singoli esecutivi nazionali, e quindi anche in una minore capacità di determinare un piano di intervento proprio, o solamente più concertato, in alcune zone d’influenza che sarebbero o per tradizione coloniale, o per collocazione geo-politica, terreno proprio per la politica estera europea, come alcune parti dell’Africa, il Medio-Oriente o alcuni ex Stati dell’URSS.

Tra l’altro, le recenti prese di posizione piuttosto neutrali dopo il massacro israeliano dei membri degli equipaggi della Freedom Flottiglia ne sono un esempio…

L’attuale crisi ha visto svanire il tentativo propagandistico di far apparire la Grecia una sorta di mela marcia dove politici corrotti truccavano i conti, la popolazione viveva sopra le sue possibilità in un contesto di inspiegabili privilegi, unico bersaglio facile di un capitale finanziario predatorio in grado di farle sfiorare più volte il default.

Le manovre di austerity, 4 in poco tempo varate da un esecutivo blindato ad Atene, sono state solo le prime ad essere attuate in Europa, che si scopre malata più o meno degli stessi mali…

L’intreccio tra il sistema bancario europeo e i singoli stati e tutti questi tra l’oro, la sostanziale identità di creazione di ricchezza fittizia attraverso giochi finanziari che hanno permesso contestualmente l’estendersi del credito al consumo e della bolla immobiliare: questo ha svelato la crisi, con buona pace di quella sinistra “riformista” che ha creduto in un Europa con un profilo politico-economico diverso, e si è impegnata a fare ingoiare una dopo l’altra varie politiche di sacrifici.

Ci sono alcune differenze sostanziali tra la potenza tra USA e l’ Europa, che la sbornia filo-europeista sviluppatasi per legittimare i sacrifici dovuti al processo di integrazione europea ha temporaneamente rimosso: il dollaro è la moneta in cui viene valutato e soprattutto scambiato il petrolio, linfa vitale di questo sistema e martirio per il nostro ecosistema, i depositi valutari delle banche al mondo sono in dollari, il debito pubblico americano finanziato dai treasures (i bond statunitensi); titoli di investimento per eccellenza, servono per le operazioni di salvataggio dell’economia americana e il finanziamento del Pentagono: 700 miliardi di dollari, di cui 400 miliardi solo per rivitalizzare il mercato interbancario, altri 700 per la difesa nell’autunno del 2008, tanto per dare due cifre…

È certo che anche l’indebitamento nord-americano, come vedremo tra poco, schizzato negli ultimi anni non può continuare così.

Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio.

 

La Grecia è ovunque

«Sul piano internazionale, si stima che negli ultimi tre anni il debito sovrano nell’insieme dei paesi del mondo sia aumentato di 5 mila miliardi di dollari. Secondo le valutazioni del Fondo monetario internazionale, il debito pubblico, che nel 2001 si aggirava sul 58% del pil mondiale, ha raggiunto il 120% nel 2009» [3].

 

L’indebitamento è un problema mondiale, non riguarda solamente alcuni paesi ma il sistema economico nel suo complesso ed è strettamente collegato con la cosiddetta “finanziarizzazione” dell’economia e il rilevante ruolo economico che lo stato attualmente riveste.

Le crisi che si sono succedute da più di un decennio sono state “arginate” attraverso una sempre maggiore utilizzazione della leva finanziaria, cioè dell’indebitamento, in una sistema in cui l’economia “reale” è divenuta una mera appendice del Capitale fittizio, ma in cui l’arrestarsi del finanziamento al sistema produttivo è stato il punto di svolta per comprenderne le reali potenzialità distruttive della crisi e le sue conseguenze sul corpo sociale.

Ecco come viene brillantemente descritto questo aspetto nel momento del picco della crisi negli USA del 2008: «Il mercato delle commercial papers, cioè le cambiali senza garanzia emesse dalle grandi società contro entrate future e usate per operazioni a breve termine dall’industria, è tra i primi a paralizzarsi. Nessuna banca è disposta ad anticipare il loro valore e chi lo fa chiede tassi proibitivi. In meno di un mese, a fine settembre 2008, le banche statunitensi ritirano da questo mercato più di 200 miliardi di dollari e le assicurazioni contro l’insolvenza di chi le emette passano da 87 miliardi di dollari a metà agosto a 143 a settembre. La liquidità del settore produttivo americano scompare e l’industria ne risente. L’indice della produzione industriale a settembre 2008 scende del 43 per cento, a ottobre si contrae ulteriormente e a novembre più di mezzo milione di americani perde il lavoro: cifre così non si vedevano dai tempi della grande depressione» [4].

Basta guardare alla (s)proporzione tra PIL mondiale e quel particolare tipo di titoli derivati, i credit default swaps, definiti giustamente da uno dei maggiori speculatori finanziari planetari W.Buffet “armi di distruzione di massa”, per avere un quadro del peso reale dell’economia fittizia.

Fondi di investimento delle grande banche Usa che si contano sulle dita di una mano, in accordo con le agenzie di rating che detengono il monopolio della valutazione finanziaria, hanno speculato su tutto: prodotti finanziari derivati dai mutui sub-prime, future di mais, grano, riso, CDS sui bond di stati sovrani, con effetti devastanti.

Ma questo oligopolio finanziario made in USA, ha negli stati e nelle banche europei dei fedeli discepoli nella creazione di ricchezza fittizia.

I “Pigs in muck” a cui si riferiva il Financial Times, coniando un acronimo divenuto di senso comune nella stampa finanziaria per definire Portogallo, Italia, Grecia e Spagna, sono in realtà ben più di questi paesi europei: i maiali nel fango sono ovunque da Washington, a Berlino, passando per Tokio...

Qualche cifra fornita da una elaborazione del Sole 24 Ore del 17 maggio su dati Ue: nel 2009 il paese maggiormente indebitato al mondo è il Giappone 189,2% rispetto al suo Pil, in USA il rapporto tra debito e Pil è 84,5% (era 62,2% nel 2007), in Italia il 115,8% (103,5% nel 2007), in Francia 77,6% (63,8 nel 2007), in Gran Bretagna il 68,1% (era 44,7% nel 2007 !), Germania il 73,2% (era 65% nel 2007)... Venendo ai “pigs” a parte l’Italia, la Spagna è passata dal 36,2% al 53,2%, il Portogallo dal 63% al 76%, la Grecia da 95,7% a 115,1% mentre il debito è praticamente triplicato in Irlanda in soli tre anni arrivando al 74% nel 2009!

Negli soli Stati Uniti, la California, in cui la crisi del mercato finanziario ha bruciato dal 40% al 50% dei risparmi o comunque del capitale accumulato dalle famiglie di mezza età e che si è distinta per le politiche d’austerity approvate, ha dovuto accettare i 51 dei 787 miliardi di dollari del pacchetto offerto da Washington ai singoli governatori statali, facendo dichiarare al governator repubblicano A. Schwarzenegger nel corso di una intervista televisiva all’abc: «Il governatore Sanford dice che non vuole prendere quei soldi… E io gli dico: li prendo io. Sono più che felice di prendere i suoi soldi o quelli che altri governatori di questo paese non vogliono toccare».

È proprio il caso di dire: pecunia non olet…

Nella stessa Germania, dove il boom immobiliare si è sviluppato nel corso degli anni Novanta, la crisi del credito ha lasciato il segno: le banche ipotecarie e le Landesbanken, le banche centrali dei Länder hanno investito qualcosa come 400 miliardi di Euro nel mercato Usa dei mutui subprime, grazie ai buoni uffici delle banche d’investimento inglesi e americane e al prolungamento di cinque anni, negoziato tra lo stato tedesco e il commissario europeo alla concorrenza, professor Monti, di una garanzia statale che, alla fine, è costata cara al contribuente tedesco.

Le banche speculavano prendendo in prestito soldi presso la Banca Centrale Europea a tassi bassi (1%), compravano titoli di Stato a tassi più elevati, infarcendo i bilanci bancari di titoli di stato, il giochino si chiama carry trade. Gli istituti europei, hanno infatti in pancia 1.500 miliardi di euro, gli istituti più attivi nell’acquistare titoli di stato, in termini relativi, sono stati Portogallo, Spagna e Grecia, i più bisognosi di credito, mentre anche gli istituti italiani hanno fatto la loro parte aumentando il valore di titoli di stato in portafoglio da 180 miliardi di euro nel settembre 2008 ai 227 miliardi nel marzo 2010. Gran parte della liquidità immessa dalla BCE sul mercato tra l’agosto del 2008 e il gennaio del 2010 è stata usata per comprare titoli di stato. Una cifra su tutte sulla situazione contabile consolidata dell’Eurosistema: più di un terzo dell’attività svolta è stato indirizzato ai rifinanziamenti a favore di istituzione creditizie.

Dal crack di Lehman a oggi i titoli di stato nel portafoglio degli istituti sono notevolmente aumentati con una media europea del + 29%, per un totale di 1.552 miliardi di euro.

Gli istituti francesi sono quelli che possiedono più bond 371 miliardi di Euro (+6%), quelli tedeschi 283 (+21%), poi viene l’Italia, la Spagna con 173 (+86%), Irlanda, Grecia e Portogallo con 20 miliardi di euro (+233!)…

Gli stati hanno “salvato” le banche fianziandole e a finanziare gli stati sono state le banche stesse: la somma tra debiti pubblici e privati delle banche è oltre i 40.000 miliardi di euro, cioè ben 3 volte il valore del Pil, tutti collegati tra loro.

Gli istituti creditizi hanno in EIRE attivi 3 volte più grandi del Pil, in Spagna lo stesso, in Portogallo 2 volte, in Italia una volta e mezzo: si parla sempre di qualcosa come 3.700 miliardi di crediti, titoli e derivati… In poche parole le banche pesano più degli stati.

L’incentivazione del credito al consumo è stato più una conseguenza che una causa dell’indebitamento bancario che si è sviluppato grazie al business dei derivati, delle cartolizzazioni e delle obbligazioni. Così, di anno in anno, sono “ingrassate”.

Nel 2000 i loro attivi totali nell’area euro ammontavano a 15.600 miliardi di euro: oggi superano i 31mila miliardi. Anche il Pil è raddoppiato, certo, ma in parte è stato alimentato proprio dal debito e dalla bolla immobiliare.

 

Tutti “truccano” i conti, soprattutto i mass media

Come ammette candidamente Sergio Rossi sull’ultimo quaderno speciale di Limes: «Per la verità, le pratiche di cosmesi contabile al fine di rispettare i parametri di Maastricht, in particolare nel campo della finanza pubblica, non sono una prerogativa della Grecia; oltre al Belgio,anche la Francia, l’Italia e l’apparentemente virtuosa Germania hanno cercato di presentare una situazione contabile migliore della realtà per il settore pubblico nazionale.»

Che dire poi delle previsioni interessate delle tre agenzie di rating che pochissimo prima della bancarotta di Lehman davano al titolo il massimo della valutazione, equiparandolo alla sicurezza d’investimento nei buoni del tesoro statunitensi, o che hanno nuovamente “sbagliato” il proprio giudizio non prevedendo il crollo del debito sovrano di Dubai, salvato dai propri vicini.

Le tendenze dell’economia greca evidenziate dai media dall’autunno scorso, quando non si tratta di pure e semplici falsità, sono dinamiche di lungo periodo, funzionali alla divisione internazionale del lavoro, all’integrazione dell’elité politico-economica greca nella borghesia mondiale nord-atlantica e filo-europeista, alle sue logiche clientelari di creazione di un blocco di consenso attorno alle classi dominanti.

La progressiva de-industrializzazione, la privatizzazione di importanti comparti dell’economia nazionale, lo sviluppo del terziario (soprattutto del settore turistico) sono aspetti che hanno caratterizzato la Grecia nel periodo successivo alla dittatura dei colonnelli, così come alla sua progressiva subordinazione politica ai centri dell’imperialismo, che è giunta con le recenti manovre ad assumere gli aspetti di un dominio di stampo neo-coloniale.

Il salario minimo greco, prima delle misure di austerità promulgate dal governo era pari al 60% di quello Olandese, Belga e Francese, mentre la produttività dei lavoratori greci si aggira attorno al 92% della media dei primi 15 paesi dell’Unione Europea. Il costo del lavoro è rimasto pressoché stabile dal 1995 al 2009, la quota dei salari rispetto al pil è scesa significativamente, «nonostante un tasso di crescita del pil di quasi 4% in dieci anni e un incremento medio annuale della produttività del 3% dello stesso periodo, i salari greci hanno recuperato il livello del 1984 solo nel 2009». [5]

 

Grecia: la politica dello shock

«Le sue istituzioni, il suo sistema politico, il suo sistema giudiziario, i suoi massmedia possono essere benissimo quelli di una repubblica delle banane, ma il popolo greco non permetterà agli armatori di continuare a truffare e rubare impunemente per miliardi di dracme, mentre un normale lavoratore viene facilmente gettato in galera per debiti di poche migliaia di dracme verso il fisco»

Organizzazione Rivoluzionaria

17 novembre [30/5/1997]

 

La Grecia attualmente è un laboratorio di una nuova politica dello shock, il cui fine è garantire l’austerità delle condizioni di vita attraverso un costante terrorismo psicologico legato alla possibilità del “fallimento” economico dello stato.

Il debito pubblico è “insostenibile”, l’economia è “in ginocchio”, una sorta di bomba ad orologeria in grado di far esplodere Eurolandia, dicono i media.

La realtà è in parte un altra: la crisi è una ghiotta opportunità per la finanza internazionale e per gli stati che presentano i possibili prestiti come un atto di solidarietà quando sono conveniente investimento.

Qualche cifra: 622 milioni di guadagno per la Germania in tre anni, 465 per la Francia, 356 per l’Italia, alle condizioni di prestito previste da quest’ultimi.

La pressione esercitata dallo spauracchio del default è lo scossa in grado di immobilizzare il corpo sociale ed impedirgli una reazione adeguata alla ricetta a base di “lacrime, sudore e sangue” proposta dal governo.

Questo esperimento ha diversi attori: il blocco di potere greco, i governi dell’UE e il Fondo Monetario Internazionale, i quali propongono la soluzione di sempre: far pagare gli effetti della crisi agli sfruttati.

Mentre i pescecani della finanza internazionale hanno speculato (sui derivati dei titoli di stato a lungo termine e sui bond statali a medio termine), i vari governi UE hanno litigato, e l’esecutivo greco ha fatto propri i dettami che hanno piegato le popolazione di altri paesi: Corea del Sud, Russia…

A dicembre il governo aveva deciso tagli per 9,8 miliardi di euro, a cui era seguito un secondo aggiustamento dei conti a febbraio per 1,2 miliardi e infine a marzo la terza stretta da 4,8 miliardi voluta dalla UE.

La manovra “ter” prevede tra l’altro tagli alla tredicesima e quattordicesima (30%), una nuova riduzione delle indennità salariali (complessivamente del 12%), il congelamento delle pensioni (che si aggiunge a quella di tutti i salari pubblici già annunciato), l’aumento dell’Iva (dal 19% al 21%), aumenti delle imposte su alcol, sigarette, gasolio, benzina...

Nemmeno a dirlo che è stata varata un’ennesima manovra.

La tortuosa strada delle riforme economiche che in questi anni hanno conosciuto una vasta opposizione popolare che ha lottato contro la privatizzazione dell’istruzione pubblica, la privatizzazione dei porti, le politiche agricole imposte dalla globalizzazione, può continuare e realizzarsi compiutamente grazie alla spada di Damocle del crollo.

In Grecia se si esclude lo shipping e il turismo, non c’erano settori economicamente appetibili per gli investimenti, e si sa che il capitale va la dove può valorizzarsi, prima di volatilizzarsi.

La crescita della produttività collassa, crollando, nei primi mesi del 2009 del 51,5 %, in relazione dello stesso periodo del 2008 a causa della recessione globale.

La situazione si è ulteriormente deteriorata con la crisi di liquidità delle banche legata alla bolla immobiliare e quindi l’impossibilità di sostenere finanziariamente le imprese private e il mancato pagamento dei prestiti bancari legati al credito al consumo. Ovvero le banche non avevano più soldi da dare alle aziende, chi aveva contratto prestiti con le banche per l’acquisto di qualsiasi bene ha avuto sempre più difficoltà/impossibilità a pagare le rate.

Lo Stato ha continuato la politica di massiccio appoggio alla spesa pubblica, sostenendo il settore bancario (28 miliardi di euro elargiti dal governo precedente di centro-destra, 10 miliardi dall’attuale governo del Pasok), aumentando il rapporto tra debito pubblico e Prodotto Interno Lordo.

Dal 2008 le istituzioni finanziarie hanno deciso di investire prevalentemente nei titoli di stato che pressoché ovunque sono moltiplicati a causa della politica di salvataggio delle banche da parte degli Stati a livello globale. Dopo la crisi di Dubai nell‘ultimo ottobre e il fallimento delle agenzie di rating nel prevederla, le stesse hanno precipitosamente declassato i titoli di stato del governo greco e innalzato il rendimento di quel particolare tipo di derivati del settore finanziario chiamati Credit Default Swaps – una sorta di assicurazione sull’investimento fatto, derivati appunto, il cui valore in percentuale aumenta nel momento in cui c’è maggiore probabilità che l’investimento fallisca.

La Grecia si trova ad essere da allora una pedina dei giochi speculativi del capitale internazionale, mentre i depositi finanziari della borghesia greca hanno già lasciato il paese. I guru della finanza internazionale si sprecano nel produrre ricette che non sono in grado di applicare, mentre nelle strade continuano le mobilitazioni contro la crisi.

Le banche greche stanno acquistando bond governativi, ne hanno in pancia circa 40 miliardi, due-tre volte il valore del capitale netto della banca. Intanto crescono le “sofferenze” stesse delle banche, aumentate nell’arco di più di un anno e mezzo dal 4% al 6%.

 

Note:

1) L’impossibilità di gestire l’Euro, S.Amin, 6 giugno 2010

2) La nuova ondata di crisi arriva dall’Europa dell’est, F.W. Engdahl, 1 marzo 2010

3) Il mito del lassismo greco, Kostas Vergopoulos, in L’Euro senza Europa. Quaderni Speciali di Limes. Anno 2 n.1

4) La morsa, Loretta Napoleoni, Chiarelettere editore, aprile 2009

5) Ibidem

 



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