SENZA CENSURA N.33

novembre 2010

 

La guerra è dietro l’angolo

Alcune riflessioni su guerra in Afghanistan, resistenza e movimento no war

 

“La ragione dell’alta percentuale di morti civili è chiara a tutti eccetto i Generali USA: non c’è distinzione tra i “militanti” e i milioni di civili afgani, dato che i primi sono parte integrante delle loro comunità.

La chiave e problema in definitiva decisivo con cui si confronta l’occupazione USA è che si tratta di un enclave coloniale nel mezzo di un popolo colonizzato.

Gli Stati Uniti, i suoi fantocci locali e i suoi alleati Nato sono un esercito straniero coloniale e le reclute del suo esercito afgano e della sua polizia sono visti come meri strumenti di perpetuazione di un ruolo illegittimo. Ogni azione, sia violenta sia benigna, è percepita e interpretata come trasgressiva delle norme e del lascito storico di un popolo indipendente. Nella vita di tutti i giorni, ogni mossa degli occupanti è perturbante; niente si muove se non al comando dell’esercito e della polizia dirette dagli stranieri. Sotto la minaccia della forza la gente offre finta cooperazione e poi fornisce assistenza ai propri padri, fratelli e figli nella Resistenza.”

James Petras, La più lunga guerra persa

 

La guerra in Afghanistan si sta estendendo ed intensificando.

Più truppe, sempre “meglio equipaggiate”, più esteso il sistema logistico che rende possibile l’occupazione: il Pakistan è a tutti gli effetti teatro del conflitto.

Questo sviluppo è allo stesso tempo una “vittoria” della resistenza che ha reso sempre meno sicuri i rifornimenti logistici dal Pakistan, sia un modo per arginarne le capacità operative cooptando nello sforzo bellico a guida USA altri paesi, “costruendo” strade delle armi differenti da quelle utilizzate fino ad ora.

Allo stesso tempo il maggiore coinvolgimento non solo logistico, ma a livello di forze di altri paesi già presenti o meno sul suolo afgano con le proprie truppe, è una risposta all’incapacità di far fronte una guerra che si sta perdendo non solo sul piano politico, ma su quello militare.

La “vietnamizzazione” della guerra Afghana, con afgani che combattono afgani è sostanzialmente fallita, come mostra il contributo di Petras che pubblichiamo su questo numero della rivista.

Va da sé che la crisi di legittimazione degli esecutivi dei paesi che partecipano all’occupazione, vista la sostanziale incapacità di gestire la crisi economica blinda le decisioni per ciò che riguarda la politica estera in termini di impegni militari.

La politica bellicista dei governi può diventare un punto di criticità degli stessi non per la presenza di un vasto movimento d’opinione “pacifista” ma per le mobilitazioni sociali dovute all’acuirsi della crisi.

Questo in un quadro in cui l’Asia sta conoscendo un escalation della tendenza alla guerra dell’imperialismo, si pensi all’operazione “Green Hunt” in India condotta da un governo che è uno dei maggiori alleati USA nell’area, l’accresciuta ingerenza USA nelle Filippine, l’aggressività nei confronti del popolo coreano, a Sud oppresso dall’occupazione militare statunitense permanente, a Nord dai venti di guerra fomentati dai nord-americani.

Di questa politica ne ha fatto recentemente le spese il popolo chirgico, su cui uno dei contributi che qui proponiamo si sofferma, la distruzione costruttiva che piaceva tanto ai neo-con di Bush figlio non sembra fare proprio schifo a Obama, come ha tragicamente dimostrato il golpe in Honduras.

Lo scorso marzo Petraeus, futuro comandante delle operazioni in Afghanistan, era in Kirghizstan meno di un mese prima che il presidente Kurmanbek Bakiyev fosse rovesciato con una sanguinosa rivolta. Era arrivato nel Kirghizstan il 10 marzo, un giorno dopo le dichiarazioni dell’ambasciata degli Stati Uniti secondo cui “si sarebbe dovuto costruire a Batken, nel Kirghizstan del sud, il centro antiterroristico di 5,5 milioni di dollari - dove ufficiali russi e chirghisi, secondo precedenti affermazioni di Mosca, avrebbero dovuto studiare la possibilità di sviluppare una simile istallazione militare”.

Il maggiore coinvolgimento nel conflitto afgano non si traduce in una pacificazione del territorio asiatico, né dei paesi che ospitano basi d’addestramento, forniscono supporto logistico o forze militari per l’occupazione dell’Afghanistan.

Crea difficoltà anche sul “fronte interno”.

Lo dimostrano, su scala molto ridotta, il numero dei soldati italiani morti in missione, tanto per tornare ad un dato un po’ spicciolo.

Viene in mente una strofa di una canzone di Ascanio Celestini: c’è stato un tempo in cui frequentavamo solo funerali e tra le bare degli eroi morti in guerra pomiciavamo con le veline…

L’establishment cerca di azzerare qualsiasi spazio politico anche solo per una discussione pubblica per l’ipotesi del ritiro delle truppe, ma i soliti dibattiti sull’equipaggiamento troppo poco micidiale dei “nostri militari” che preparano il terreno per un maggiore coinvolgimento di uomini e mezzi nella missione: la stessa identica dinamica sviluppatesi con la guerra in Iraq.

Allora la retorica patriottarda del subito-dopo Nassyria, e il tentativo di mobilitazione reazionaria di massa, in un rinnovato clima di “unità nazionale” s’infranse contro gli scioperi selvaggi dei trasporti che da Milano si estesero a macchia di leopardo sul territorio italiano (un politico allora definendo il primo sciopero selvaggio degli “autoferro” di Milano parlò di “terrorismo urbano”).

Chissà quando proibiranno di mostrare le bare degli eroi morti in guerra, come hanno fatto negli USA e magari fare tacere il solito “personaggio” pubblico di turno, spesso giovane o che si rivolge ai “giovani” (sportivo, cantante, show man…) che ringrazia i nostri ragazzi.

Curve che non rispettano il minuto di silenzio prima della partita “in onore dei caduti”, scritte sui muri dal vago sapore calcistico, qualche slogan che ricorda che chi fa la guerra non va lasciato in pace in manifestazione, alcuni appelli su internet, altre coraggiose e isolate iniziative…Ma Il movimento non sembra poter partorire di più.

L’interesse che si accende, poi si spegne, come lo schermo della televisione, spesso anche da parte del “movimento”, incapace di comprendere di come in realtà viviamo in tempi di guerra e di rivoluzioni.

Un paradosso che segnaliamo da tempo, un dato quasi strutturale: più è impattante ed estesa la capacità di resistenza sui fronti di guerra, minore la capacità di sviluppo di un movimento contro la guerra “sul fronte occidentale”.

Anche i protagonisti stessi i importanti mobilitazioni sociali tendono ad identificarsi più con i carnefici che con le vittime.

Questo è il cuore del problema: non si percepiscono le resistenze come una fonte di ricchezza per la nostra iniziativa politica, non si va oltre l’approccio spicciolo di critica alle spese militari che ostacola la distribuzione sociale della ricchezza, non ci si arrende di fronte all’idea che forse i processi di trasformazione sociale possono anche non partire dal “vecchio continente”, anche se noi viviamo e lottiamo qui nel ventre della bestia.

L’internazionalismo, inteso come sentirsi parte di un movimento internazionale è un sentimento poco diffuso anche quando la rivolta è dietro l’angolo (Atene, Parigi,...).

Certo ogni minima manifestazione di rottura del clima di unità nazionale viene criminalizzata immediatamente…

A mo’ di aneddoto, un “-6” e basta apparso in un cartello fuori da un circolo antifa di Genova dopo l’ennesima azione della resistenza afgana contro il “nostro” esercito di occupazione in cui perirono sei militari italiani, oltre che ad un repentina campagna terroristica condotta da “Il Giornale” portò ad un blitz il giorno stesso con tanto di blocco del traffico delle forze dell’ordine accorse con numerose vetture e al “sequestro” in questura per alcune ore dei giovani compagni che si trovavano all’interno (chiaramente nemmeno uno straccio di denuncia)…

Pensare che qualche anno fa a Roma dopo il sequestro di alcuni militari da parte degli iracheni prima della “presa” di Baghdad sul balcone di una casa che si trovava nella strada di uno dei frequentissimi cortei contro la guerra veniva esposto, insieme alle bandiere arcobaleno, un cartello con su scritto: America’ Facce Tarzan! Fotografato e ripreso in prima pagina (e forse con fare un po’ compiaciuto) da qualche testata giornalistica.

Sarà cambiato il senso dell’umorismo oppure i giornalisti sono sempre più “con l’elmetto”.

L’eurocentrismo è un brutto male, sembra non passare anche quando più volte, come in occasione dei crimini sionisti perpetrati a Gaza con l’operazione “Piombo Fuso” e poi con l’assalto alla navi di internazionali che cercavano di rompere l’embargo, gli immigrati arabi ma non solo si sono resi protagonisti di importanti mobilitazioni: basta qualche grido d’incitamento religioso e una preghiera collettiva per scoraggiare i più: le nostre strade si dividono.

Mostriamo la stessa estraneità di fronte alle donne vulcaniche che a Napoli con il rosario in mano affrontano le forze dell’ordine per impedire la costruzione di una nuova discarica?

Certo, il popolo viola, versione italica delle rivoluzioni neo-conservatrici colorate e fallite, con i suoi putribondi rigurgiti giustizialisti è senz’altro più attraente.

Un vecchio adagio dice che anche la merda impanata e fritta è buona, così dopo che la rivoluzione arancione in Ucraina è fallita, che la rivoluzione gialla in Libano è fallita, che quella verde in Iran si è dimostrata per quello che era, fuffa mediatica, diventa il nuovo soggetto politico in Italia (insieme a Grillo e co.) un format che in altri paesi non va più, qui fa audience proprio come il Grande fratello.

Mentre i numerosi tentativi di trasformazione sociale, con tutto il loro carico di contraddizioni e di possibilità ci sembrano poco o meno interessanti.

Allora, ci sembra più che utile continuare il lavoro che abbiamo iniziato da tempo su fronti di guerra e di resistenza in Asia, focalizzandoci sulla guerra in Afghanistan, giunta al quasi al suo decimo anno, proponendo due contributi analitici in grado di dare un quadro delle strategie USA e NATO, così come della resistenza che ad essa si oppone.

Which side are you on? Da che parte stai? Chiedeva in una vecchia canzone del movimento operaio americano un lavoratore in picchetto al suo collega che si avvicinava all’entrata dell’azienda.

Noi dopo la più lunga e perdente guerra combattuta dall’imperialismo americano (sì, più del Vietnam!), da che parte stiamo?

Speriamo che la lettura di questi contributi aiuti a fugare eventuali dubbi sulla centralità del conflitto afgano.



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