SENZA CENSURA N.33

novembre 2010

 

La crisi europea

E le alternative della sinistra. Un contributo di Iñaki Gil de San Vicente

 

Abbiamo chiesto un contributo sulla situazione di crisi nel contesto europeo a Iñaki Gil de San Vicente, pensatore marxista interno alla Sinistra Indipendentista Basca, e militante teorico-pratico della rivoluzione basca e mondiale. Ve lo proponiamo integralmente di seguito.

Segnaliamo che un archivio dei materiali di Iñaki Gil de San Vicente si trova in spagnolo su www.re­belion.org/autores.php?tipo=5&id=49&inicio=0. Fra gli altri, consigliamo la lettura di “El independentismo come hegemonia popular”, del 5 luglio 2010, che analizza la situazione nel Paese Basco partendo dallo sciopero generale dello scorso 29 maggio; il materiale è scaricabile in spagnolo da www.rebelion.org/noticia.php?id=109133

 

1. QUALE CRISI EUROPEA

L’interpretazione ufficiale della crisi è che si tratta di una grave crisi finanziaria provocata dalla “eccessiva liberalizzazione dei mercati finanziari”, che sono “senza controllo”. A sostegno di questa tesi vengono portate cinque ragioni: 1. l’egoismo umano, che ha travalicato i controlli relativi alla “mano invisibile del mercato”; 2. l’egoismo particolarmente perverso della classe lavoratrice, che impedisce la ripresa economica con le sue richieste di aumenti salariali, di maggiori spese pubbliche e sociali, di più diritti e meno lavoro, ect.; 3. il suo prolungarsi a causa della caduta dei profitti poichè è crollata la capacità di spesa per la restrizione del credito; 4. il ritardo dello Stato nel prendere misure, cosa che aggrava il problema; 5. i massicci ma tardivi aiuti a fondo perduto al capitale finanziario hanno moltiplicato esponenzialmente il debito pubblico e privato e ciò rende estremamente difficoltoso il decollo economico.

Questa interpretazione è molto povera, molto limitata storicamente e falsifica le vere ragioni della crisi, la sua portata e le selvagge misure che si stanno imponendo. Il problema cruciale è in ciò che non dicono, nel falsificare e mentire presentando la crisi nella sua forma superficiale più limitata, riducendo il capitalismo al soggettivismo marginale, all’idea che il denaro crea denaro, e pertanto è il capitale finanziario il fattore decisivo, quello che domina sulle altre forme di capitale. Si negano in questo modo questioni determinanti come l’importanza chiave del capitale industriale, le leggi di concentrazione e centralizzazione del capitale e della perequazione di capitali, l’importanza dello Stato e della violenza borghese e, in sintesi, la decisiva importanza della lotta di classe.

Tutto questo viene ignorato e si restringe il dibattito a ciò che interessa alla borghesia: come rivolgere contro il movimento operaio rivoluzionario i settori riformisti e conservatori della classe operaia; come mobilitare a favore del capitale la piccola borghesia perchè agisca come movimento reazionario di massa; come sconfiggere la classe lavoratrice nel suo insieme, aumentando il più possibile il suo sfruttamento. Pertanto, dobbiamo ristabilire la realtà innegabile della lotta di classe come motore della storia, la sua esistenza oggettiva liberata dalle illusioni soggettive, i suoi andirivieni e periodi latenti e di apparente estinzione.

La finanziarizzazione è stata la scintilla che ha dato fuoco alla crisi, perchè già da prima c’era sufficiente combustibile per l’incendio: la lunga lista dei vari problemi che rendono sempre più difficoltoso il profitto del capitale industriale fin dagli anni 70 del secolo scorso e che possiamo riassumere nella dialettica tra la gestione della legge tendenziale di caduta del saggio di profitto, da un lato, e dall’acutizzazione di altre crisi come quella ecologica, dell’esaurimento delle risorse alimentari e sanitarie, ect, dall’altro. La crisi è esplosa perchè sono fallite le successive “soluzioni” che le borghesie hanno applicato per aumentare i loro profitti, in un contesto mondiale di sovrapproduzione di merci che non trova vie d’uscita nei mercati, soluzioni basate sulla speculazione finanziaria, sull’ingegneria bancaria portata all’eccesso. Marx aveva già osservato che prima di ogni crisi c’è un’euforia creditizia destinata a riattivare l’economia minata all’interno ma pletorica nella sua apparenza esterna, per cui anche se in un primo momento il credito serve ad incrementarla, con il tempo quello stesso credito si butta nella speculazione smodata aggravando le contraddizioni che sfociano in una nuova crisi. Ma nell’analisi di Marx c’è un “fattore” che è stato dimenticato successivamente: il ruolo cruciale dello Stato come forza decisiva. Tutte le contromisure che la borghesia impone per invertire la caduta tendenziale dei profitti ci rimandano direttamente o indirettamente al ruolo dello Stato.

La dialettica tra l’endogeno nell’economia, le sue leggi tendenziali, e l’esogeno, il ruolo dello Stato, nella marcia del capitalismo, si vede già nei riassestamenti europei del XVII secolo. Prima di proseguire, dobbiamo chiarire due cose. Una è che l’interazione tra ciò che è strettamente economico e ciò che è strettamente politico-statale è decisiva per conoscere il capitalismo come totalità mossa dall’unità e dalla lotta di contrari inconciliabili come sono la borghesia e il proletariato, dalla lotta di classe. Se neghiamo o sottovalutiamo questa dialettica cadiamo in due errori disastrosi come sono il determinismo economicista e il soggettivismo idealista. L’altra è il concetto di riassestamento: questo avviene quando le diverse contraddizioni si uniscono politicamente facendo il salto ad una nuova fase globale del capitalismo. Il capitalismo passa tra varie fasi nelle sue diverse forme, ma mantiene la sua essenza sfruttatrice basata sull’estrazione del plusvalore da parte della classe proprietaria delle forze produttive. L’essenza permane inalterata mentre sussiste questo modo di produzione, anche se le sue forme esterne cambiano nel tempo. Non ci dilunghiamo adesso sulla categoria dialettica di ciò che è mutevole e ciò che è permanente, sulla forma e sul contenuto, sul fenomeno e sull’essenza, ect., né sulla complessità delle interazioni tra l’aspetto economico, il politico-statale, il militare, il culturale e quello ideologico, ect, che avvengono nelle successive fasi nelle quali lo sfruttamento acquista nuove forme esteriori.

 

2. RIASSESTAMENTI E CRISI

I riassestamenti sanciscono la chiusura di una fase globale dello sfruttamento e l’inizio di un’altra, consentendo al capitalismo di intraprendere con slancio nuove strade una volta riportato l’ordine al suo interno. Quale ordine? Appunto quello che riguarda le contraddizioni fondamentali del sistema: sottomettere la classe lavoratrice; distruggere le obsolete forze produttive e facilitare l’applicazione massiccia di nuove tecnologie; sconfiggere le borghesie e gli Stati concorrenti obbligandoli ad accettare le pretese delle borghesie vincitrici; imporre nuove monete forti, nuove leggi economico-finanziarie e di regolamentazione del mercato internazionale, ed estendere e intensificare l’espansione mondiale del capitalismo sotto una nuova egemonia imperialista. Fino ad oggi, i riassestamenti sono avvenuti solo dopo atroci guerre internazionali nelle quali ha vinto un blocco borghese su altre borghesie, e la borghesia nel suo insieme sulle classi lavoratrici e le nazioni oppresse.

Secondo il risultato delle guerre, i riassestamenti si istituzionalizzano, acquistano carattere ufficiale e internazionale, sia mediante la resa incondizionata o patteggiata del blocco sociale vinto, sia mediante alcuni negoziati formali che sanciscono legalmente e internazionalmente le pretese del vincitore sul vinto. Non approfondiamo adesso il ruolo della guerra nel capitalismo, soprattutto nei suoi momenti di crisi sistemiche, ma sappiamo che queste iniziano da contraddizioni economiche endogene, che rapidamente acquistano contenuto politico accelerando le tendenze oggettive verso la militarizzazione e la guerra. Nella storia dell’Europa ci sono stati tre grandi riassestamenti di questa natura: quello che assunse corpo legale nel Trattato di Westfalia del 1648 dopo la guerra dei Trent’anni; quello che prese corpo nel Congresso di Vienna del 1815 dopo le guerre napoleoniche; e quello uscito dagli accordi di Yalta e Postdam nel 1945 dopo la grande crisi del 1914-1945. Siamo al quarto, ma senza fare ricorso alla guerra, per il momento.

Dal secolo XVII, due leggi capitalistiche spiccano nel gestire i riassestamenti. Una è la legge della perequazione che spiega perché i capitali abbandonano gli affari meno redditizi per quelli più redditizi. E l’altra è quella della concentrazione e centralizzazione, che spiega come i capitali più forti si mangiano quelli più deboli mentre si riducono i proprietari di capitali. La storia politico-economica, quella diplomatica e militare dimostra come le borghesie si appoggiano sempre di più sui loro Stati per utilizzare le leggi a loro esclusivo beneficio e per indebolire le borghesie concorrenti, costringendole ad accettare le loro condizioni di investimento, l’assorbimento dei loro capitali da parte di capitali stranieri, etc. Il capitalismo funziona, durante i periodi di relativa “normalità”, senza grandi ingerenze statali, ma appena aumentano le difficoltà di realizzare profitti, la resistenza della classe operaia, la concorrenza di altre borghesie, e secondo come progredisce la crisi, le borghesie rafforzano i loro Stati, i loro eserciti, ect., mentre esigono sottomissione passiva dalle classi sfruttate e vacillamenti dalle borghesie concorrenti.

Gli Stati più forti fanno pressioni perché i loro capitali siano investiti alle condizioni migliori nei mercati esteri, a scapito di quelli nazionali. Il “libero scambio” estero e il protezionismo interno non sono un’invenzione recente del neoliberalismo ma esistevano già prima del capitalismo e li troviamo molto attivi già nei secoli XIV e XV. La “libertà di mercato”, la “globalizzazione” ect., sono tanto antiche e stabili come l’economia commerciale e mercantile, benché siano precapitaliste, ma è solo con il capitalismo che hanno sviluppato tutto il loro potere di espansione e di sterminio, come è dimostrato in modo tanto impressionante nel “Il Manifesto del Partito Comunista” scritto nel 1848. I riassestamenti europei hanno risposto a queste interazioni fra le forze economiche e politiche, che sono riuscite a plasmarsi in guerre internazionali per accellerare così il loro funzionamento.

La crisi attuale è il risultato della politica imperialista degli Stati Uniti, dopo che hanno imposto dal 1944-1948 istituzioni internazionali decisive per il loro futuro dominio mondiale: FMI, BM, ONU, GATT e poco dopo la NATO e il resto degli apparati che ancora oggi subiamo. Politica destinata a sconfiggere l’URSS, il movimento operaio internazionale e le guerre di liberazione nazionale e antimperialiste, politica che gli USA nella decade degli anni cinquanta diressero dalle retrovie facendo fare i primi passi alla cosiddetta “Europa del carbone e dell’acciaio” e del Trattato di Roma del 1957. Era iniziato il quarto riassestamento europeo, con due caratteristiche diverse dai tre precedenti riassestamenti: si sviluppava sotto il controllo aperto e distante di una potenza, gli Stati Uniti, non europea; si realizzava senza il ricorso ad una nuova guerra totale dentro l’Europa, anche se con guerre locali e fortissime pressioni economico-politiche delle potenze più forti sulle borghesie restanti e più deboli.

Il quarto riassestamento procedette lentamente, fino a che alla fine degli anni ottanta coincisero tre dinamiche decisive: una, l’imposizione da parte degli Stati Uniti e della Gran Bretagna della finanziarizzazione per rafforzare il neoliberismo, dando un impulso ai profitti borghesi ma accumulando i problemi, che esploderanno in seguito; due, l’implosione dell’URSS e del suo blocco e la svolta capitalista della Cina Popolare; tre, la ripresa delle lotte mondiali dalla metà degli anni novanta. Dinamiche attive dentro la crescente contraddizione fra la tendenza inevitabile e la sovrapproduzione di merci e i successivi fallimenti di tutte le “soluzioni miracolose” che il neoliberismo inventava per arrestare il salasso delle piccole crisi parziali che scoppiavano sempre più rapidamente in tutto il mondo. Il Trattato di Maastricht del 1992 chiuse una fase vecchia e ne aprì una nuova, ravvivando “con metodi pacifici e democratici” l’Unione Europea.

Ma intanto sono esplose le cariche di profondità che si erano accumulate nel sottosuolo sociale, che né le successive tattiche borghesi né una nuova guerra internazionale capace di imporre, come in passato, una nuova gerarchia imperialista, erano riusciti a disattivare. Oggi, c’è un’eccedenza potenziale produttiva in tutto il mondo, che non si riesce a vendere; gli Stati, le banche e l’economia privata si trovano con le cifre in rosso, con debiti che superano l’immaginabile, che possono crollare trascinando alla rovina paesi interi; si sta acutizzando la lotta di classe e la resistenza dei popoli all’imperialismo; le potenze “emergenti”, alcune delle quali semimperialiste, non vogliono più accettare, come in passato, le sempre più dure pretese dell’imperialismo occidentale capeggiato dagli Stati Uniti, la cui leadership è parzialmente messa in discussione dall’euroimperialismo; la rapida acutizzazione della crisi ecologica minaccia di provocare una catastrofe mondiale, senza dimenticare l’esaurimento delle risorse energetiche e alimentari, dell’acqua potabile, etc; aumenta la corsa agli armamenti in tutti i campi, soprattutto quello nucleare e biochimico.

La crisi dell’Unione Europea fa quindi parte di una crisi mondiale resa più acuta da due fattori che non esistevano in passato: la UE non è e non sarà mai più la potenza egemonica a livello mondiale in campo economico e militare e, differenza del passato, adesso dipende molto di più dalle risorse energetiche per mantenere un livello di vita interna che continui a stordire le sue classi lavoratrici. Due esempi: una delle bazze delle borghesie europee per evitare le rivoluzioni era l’emigrazione di massa in altri continenti della sovrappopolazione impoverita, cosa che adesso è ormai impossibile; basta un rifiuto della Russia o degli Stati Uniti, o di qualunque altro paese, perché il petrolio, il gas o altri materie strategiche smettano di affluire nella stessa quantità verso l’Unione Europea. Per recuperare il suo peso imperialista, l’Unione Europea avrebbe bisogno di un esercito come quello degli Stati Uniti, il che richiederebbe molti anni di grandi investimenti di capitale in spese militari e dell’assoluta docilità delle classi sfruttate e nelle attuali condizioni questo non è possibile.

 

3. CRISI E LOTTA DI CLASSE

Ci sono soltanto tre grandi soluzioni per il capitale europeo: schiacciare senza remore la resistenza delle classi lavoratrici per aumentare il saggio di profitto e l’accumulazione di capitale; imporre alle borghesie più deboli, mediante severe misure di pressione, una ferrea gerarchia interna in modo che l’Unione Europea acquisti una minima coerenza interna ed esterna; accettare la direzione USA per risolvere problemi vitali per la sopravvivenza dell’imperialismo occidentale, quale fattore dominante nel pianeta. Ciò si può ottenere solo con le armi e con il controllo finanziario e il ricatto economico che gli Stati Uniti ancora possiedono.

La prima, lo schiacciamento della resistenza della classe operaia è urgente e può contare su quattro grandi possibilità. Una, è la capacità di alienazione e mansuetudine che la vita salariata di per sé produce, soprattutto per l’effetto narcotizzante provocato dal feticismo per la merce. Si tratta di un potere feticista e alienante legato alla relazione capitale-lavoro e alla sua logica mercantile. Agisce anche ciò che Marx ha definito la “coercizione sorda” del capitale sul lavoro che paralizza: la paura del licenziamento e della disoccupazione, la violenza latente e preventiva insita nella disciplina lavorativa. Non dimentichiamo poi l’effetto complessivo del consumismo e della propaganda capitalista, dei suoi mezzi repressivi preventivi, dei suoi specialisti nella controinsurrezione e nella manipolazione psicologica di massa mediante la televisione, e persino il provocare l’irrazionalità e le paure inconsce nella struttura psichica delle masse. Purtroppo, quasi tutte le sinistre rivoluzionarie hanno dimenticato o non sanno lottare contro questa problematica inerente al capitale, o si rifiutano di farlo perchè pensano con criteri economicisti, deterministi e oggettivisti, e non capiscono l’importanza del cosiddetto “fattore soggettivo”.

Il riformismo e il sindacalismo economicista centrato solo sul salario, hanno il loro fondamento ideologico nel feticismo per la merce, nell’oggettualizzazione e reificazione dell’esistenza. La II Internazionale ed anche la III, dalla fine degli anni venti, hanno negato o abbandonato la lotta contro l’alienazione e il feticismo, accettando un economicismo che rafforza ideologicamente la visione borghese centrata sulla merce. Gli effetti negativi del riformismo politico-sindacale non si limitano all’appoggio politico al capitale, ma rafforzano anche l’interclassismo nelle classi sfruttate perchè non attaccano mai l’oggettualizzazione dell’esistenza, la reificazione delle relazioni e la riduzione di queste a semplici lotte fra feticci mercantili. Esiste una connessione profonda fra la burocrazia elettiva del riformismo e la feticizzazione, irriconciliabili entrambe con la coscienza comunitaria, collettivista, che tende all’autorganizzazione, che bisogna (ri)costruire fra le classi lavoratrici.

Un’altra possibilità, legata alla precedente ed estremamente reale, è il nazionalismo imperialista permanentemente agitato dalle borghesie e la incapacità delle sinistre rivoluzionarie di combatterlo. Gran parte delle sinistre ha dimenticato la grande esperienza delle lotte popolari contro il nazifascismo, della resistenza interna contro l’occupante che era contemporaneamente una lotta di classe contro la propria borghesia che collaborava attivamente con il nazifascismo. E parliamo solo dell’esperienza più recente, non ci riferiamo al ruolo progressista dei sentimenti nazionalisti delle classi e dei popoli nelle ondate rivoluzionarie precedenti, quella del 1848-1849, quella del 1871, quella del 1917-1936. In tutte queste lotte si scontrarono il nazionalismo borghese e i sentimenti nazionalisti delle classi lavoratrici, che lottavano per un modello nazionale incompatibile con quello borghese. Oggi esiste solo il nazionalismo imperialista e la sua accettazione acritica o veemente da parte delle classi sfruttate, accettazione che si manifesta con il razzismo, il neofascismo e il fascismo in aumento, con il machismo e con la discriminazione sessuale.

Nelle crisi, le borghesie fomentano il nazionalismo e le sinistre rivoluzionarie sono incapaci di contrapporre l’internazionalismo al nazionalismo della propria borghesia.

Il logico euroscetticismo delle classi lavoratrici è manipolato dal capitale perchè non si trasformi in lotta per un’Europa Socialista e Internazionalista, e contemporaneamente crescono i nazionalismi borghesi che oppongono fra loro le classi lavoratrici e queste nel loro insieme agli altri lavoratori, in particolare ai popoli oppressi dall’imperialismo. Il capitalismo crea anche dipendenza consumista fra le masse lavoratrici, che percepiscono o sanno che parte del loro modo di vivere dipende dal saccheggio di altri popoli, dall’euroimperialismo e dall’aiuto dell’“amico nordamericano”. Nonostante il loro euroscetticismo però, ampie masse appoggiano l’euroimperialismo, come ha fatto una parte significativa della II Internazionale, con la scusa di dare impulso alla civilizzazione e al progresso. Le sinistre europee sono cieche, sorde e mute davanti a questi problemi che riguardano la decisiva ed estrema complessità del “mondo soggettivo” come forza materiale, mondo in cui i sentimenti collettivi profondi, le identità e gli immaginari, le culture e le tradizioni popolari, con le loro contraddizioni interne facilmente manipolabili, giocano un ruolo molto importante.

La borghesia ha il vantaggio che le masse lavoratrici dimenticano facilmente il valore della collettività, dei beni comuni, della vita in comune e della cooperazione non mercificata, dell’autorganizzazione e delle decisioni orizzontali, assembleari e consiliari. Ricordiamo quanto detto sull’antagonismo fra il riformismo feticista e la coscienza collettiva, libera e critica. L’eredità della II Internazionale, della III nel periodo stalinista e dell’eurocomunismo, è in gran parte responsabile del fatto che le sinistre avanzino lentamente nell’autorganizzazione operaia. Si recupera con fatica l’aspetto essenziale dell’esplosione di creatività teorica che c’è stata fra la fine degli anni sessanta e la metà degli anni ottanta, perchè è penetrata poco fra le giovani generazioni operaie e nel proletariato e nella maggior parte dei casi è stata limitata alla gioventù radicale piccolo borghese. Il devastante attacco repressivo e gli effetti dirompenti sulla centralità operaia da parte del neoliberismo spiegano, fra l’altro, le grandi difficoltà delle classi lavoratrici nel recuperare la loro coscienza e l’orgoglio di classe, inseparabili dalla pratica collettiva.

Tuttavia, questa prassi è vitale perchè concerne la questione decisiva del potere, del processo che va dal contropotere al potere popolare passando per il doppio potere. Secondo come la crisi va avanti, le classi sfruttate incominciano poco a poco a riacquistare esperienze di autorganizzazione assembleare, di coordinamento orizzontale e di base, di controllo sulla propria vita in una dinamica che va dall’autorganizzazione all’autodifesa, passando per l’autogestione e autodeterminazione. Il burocraticismo dirigista ha necessità di tagliarla alla radice, ma anche molte sinistre sono cadute nell’errore contrario, sopravvalutando in modo idealista la capacità spontanea delle classi sfruttate e negando la imprescindibile interazione fra spontaneità e organizzazione. In questo modo, sommando entrambi i motivi, falliscono appena nate la maggior parte delle lotte isolate, che a fatica arrivano a un maggiore coordinamento perchè sono sconfitte dalla burocrazia o condotte nel pantano dell’isolamento settario da parte dei gruppetti di sinistra divisi e contrapposti, più ossessionati di acutizzare ciò che li divide che incontrarsi su ciò che li unisce.

L’ultima possibilità della borghesia, è la difficoltà delle sinistre di elaborare una teoria pratica e una pratica teorica che guidi la lotta contro le molteplici divisioni e la frammentazione della classe operaia, di cui il capitale si compiace quotidianamente. Le crisi sono usate dal capitale per rompere la centralità proletaria, per polverizzare la sua unità e moltiplicare la sua frammentazione. Oggi sta accadendo la stessa cosa. Parte della sinistra ha creduto alla menzogna della perdita della centralità proletaria nel capitalismo odierno, disgregandosi nei “movimenti sociali” e riducendo la realtà oggettiva strutturale della lotta di classe a una mera “lotta sociale” in più, come qualunque altra, senza maggior peso politico che la lotta per un diritto particolare. La debolezza della pratica teorica facilita la proliferazione di riformismi di parte, di scappatoie apolitiche e di alternative settoriali che non vanno mai alla radice del problema, la dittatura del salario, che determina tutte le forme specifiche di sfruttamento, per quanto sembrino leggere e invisibili.

Non neghiamo l’importanza dei “movimenti sociali”, al contrario, però riaffermiamo la questione decisiva: il potere statale difensore della proprietà privata delle forze produttive. La centralità proletaria è l’unica garanzia esistente contrapposta alla centralità borghese. Per annullare questa garanzia, il capitale tenta di distruggerla in ogni modo, sia sul piano pratico che su quello teorico. Mode ideologiche riformiste hanno facilitato l’indebolimento della centralità proletaria fin dagli anni settanta, con tesi come “la morte del proletariato”, i “nuovi soggetti sociali”, la “scomparsa del potere statale” e il nascere di “poteri diversi e sconnessi fra loro”, la “scomparsa dei grandi rapporti sociali” e della “centralità della produzione industriale”, ect, che sono ampiamente diffuse dall’industria politico-mediatica capitalista. Il deserto teorico imposto dall’URSS ha facilitato i discorsi inconcludenti della “nuova sinistra”. Le forze rivoluzionarie attuali tuttavia non hanno modernizzato del tutto la pratica teorica per renderla capace di lottare contro l'ampliamento e l’intensificazione dello sfruttamento borghese concreto, e contro l’essenza inalterabile del potere del capitale.

La seconda soluzione è quella di imporre l’egemonia interna della borghesia tedesca - appoggiata da frazioni di altre borghesie interessate ad assecondarla - sulle altre borghesie europee, per disciplinare l’Unione Europea davanti a un mercato mondiale ogni giorno più competitivo e meno controllabile. Per dirigere la repressione del movimento operaio e rivoluzionario della UE in modo più agile e rapido, sono aumentati i poteri repressivi statali, ed estesi su scala europea. Queste due necessità erano presenti anche nei precedenti riassestamenti, ma con forme adeguate a quel momento. Attualmente, le borghesie più forti non possono ricorrere alla guerra aperta per imporsi, per cui applicano molteplici pressioni su quelle deboli e la “guerra sociale” contro le classi lavoratrici. Le imposizioni implacabili e feroci accettate dalle borghesie greca e spagnola sono un esempio eclatante che sarà seguito da altre borghesie, inclusa una tanto forte come quella britannica, che ha già annunciato tremende misure antioperaie che saranno applicate fondamentalmente da tutti gli altri Stati dell’Unione Europea, che hanno molta più paura della rivoluzione socialista che della Germania.

La terza soluzione è una parziale autonomia dagli Stati Uniti per ottenere la loro protezione militare e politico-economica, ma mantenendo libertà d’azione nei conflitti non decisivi con le multinazionali e le grandi corporazioni nordamericane per il controllo di determinati mercati e dei giacimenti energetici. La dipendenza europea dagli Stati Uniti era palese già alla fine della guerra del 1914-1918, vitale a partire dalla guerra del 1939-1945 e si è trasformata in sottomissione strategica definitiva durante la guerra di Suez del 1956. Persino la Francia che ha avuto delle riserve ad entrare nella NATO, ha accettato il controllo nordamericano sulle sue armi nucleari. L’Unione Europea non può impedire che la Gran Bretagna ed altri Stati abbiano rapporti diretti con gli USA e che operino come suoi agenti nelle decisioni europee. Mantenere questo equilibrio è molto importante, ma la cosa decisiva è quella di disporre di un protettore armato fino ai denti.

Riassumendo, la crisi dell’Unione Europea riflette la decadenza irreversibile della prima potenza borghese mondiale, che non può più continuare ad esserlo e che è disposta a tutto pur di mantenere il secondo posto nell’egemonia imperialista, sostenendo gli Stati Uniti, da cui dipende sotto l’aspetto strategico. Le classi lavoratrici e le nazioni oppresse sono le vittime sacrificate sull’altare dell’accumulazione capitalista europea.

 

Iñaki Gil de San Vicente

Euskal Herria, 1 luglio 2010



http://www.senzacensura.org/