SENZA CENSURA N.35

luglio 2011

 

editoriale
 

Nella difficoltà d’accesso a riscontri, diretti e approfonditi, rispetto a quanto si sta progressivamente sviluppando nell’area del Mediterraneo e le relative ricadute sul piano complessivo, troviamo necessario, in un’ottica di comprensione che permetta di introdurre elementi utili al dibattito, cercare di fissare alcuni nodi categoriali essenziali per circoscrivere il contesto generale, i soggetti in campo, le connessioni esistenti e potenziali. Mantenendo, sulla questione, una finestra costantemente aperta durante questi mesi estivi, che ci permetterà di riprendere il discorso in un autunno possibilmente caldo, al pari di questi giorni di giugno di cui scriviamo.

Proviamo, quindi, a collocare un punto di osservazione sulla realtà e a dare una lettura, confidiamo utile, ad alcuni aspetti di nesso degli eventi in corso.

Sul piano più generale, siamo di fronte ad una fase di crisi della crisi. Mentre ogni giorno assistiamo a propagandistici interventi sulla avvenuta uscita dalla crisi e sulla ripresa dell’economia, lo stato delle cose palesa, viceversa, come questo fattore, già facente parte strutturalmente e funzionalmente del sistema di produzione capitalistico, vada assumendo un ruolo sempre più centrale nella contraddizione tra borghesia imperialista e proletariato internazionale. Abbiamo più volte affrontato, all’interno di precedenti editoriali e altri contributi pubblicati sulla Rivista, la questione della crisi, di volta in volta, sia per quanto riguarda il modo di produzione capitalistico che per quanto concerne il sistema economico e politico che governa questo modo di produzione. La scelta del capitale, per altro l’unica possibile, di puntare i suoi due centesimi su globalizzazione e integrazione sovranazionale, ha portato, nel corso degli ultimi due decenni in continuità con quanto sviluppato a partire dalla seconda metà degli anni ‘70, ad un allargamento ulteriormente ancora più significativo del rapporto tra centro e periferia, secondo una logica oramai del tutto formalizzata di estensione e mobilità che si esprime in tutte le aree del mondo dominate dai rapporti di produzione capitalistici.

La crisi, peculiarmente, mostra due costanti distinte e correlate: da una parte manifesta tutti i limiti della so­cietà capitalista, dall’altra parte è terreno di riproposizione e rivitalizzazione del capitale. Nella dialettica tra queste due condizioni basilari, possiamo osservare le conseguenze che si ripercuotono sia rispetto alla scomposizione fisica dei piani in una dimensione di persistente ristrutturazione, sia rispetto alla lotta di classe nello scontro complessivo tra interessi del proletariato e dominio della borghesia. Una delle risultanti naturali è che laddove il capitale si rigenera, valorizza ed espande, per il proletariato diventa luogo di ricomposizione della lotta antimperialista. Cosa sta succedendo quindi nel Mediterraneo? C’è della baraonda, certamente. E, probabilmente, molto di più.

La primavera araba è una trama che si dimostra essere, per molti versi, fitta e ingarbugliata, una matassa difficile da dipanare. Venirne a capo in senso compiuto, riuscendo quindi a scomporre e ricomporre la realtà in questione qualificandone le strutture significative e con esse articolazioni, soggetti, connessioni e tendenze, non è fattibile se non in termini quantomeno parziali. Non potrebbe essere altrimenti, se consideriamo che, al pari dei molteplici elementi che appaiono chiari e contestualizzabili (in particolare quando ci si riferisce alla strategia del capitale, tema sul quale la Rivista si è particolarmente spesa attraverso articoli e approfondimenti), molti sono tuttora gli aspetti che rimangono in sospeso, in una costruzione attesa ad una verifica prossima tutta in divenire. È semplice, nello specifico del dibattito in corso nel vecchio continente, in una cornice che in più punti segna una arretratezza politica in fatto di discussione, analisi e iniziativa del tutto particolare, cadere in errori di valutazione e interpretazione e lasciarsi ingannare dagli abbagli che disorientano l’osservazione da una corretta lettura del presente.

Gli ultimi mesi sono stati contraddistinti da un rinnovato fervore popolare che ha oggettivamente attraversato, in lungo e in largo, il mondo arabo, dal Maghreb al Mashrek fino a giungere ai Paesi del Golfo. Le tante mobilitazioni che hanno scandito praticamente ogni giorno del calendario a partire dalla seconda metà di dicembre 2010, hanno interessato un’area caratterizzata da “una popolazione di più di 350 milioni di abitanti, di cui 190 sotto i 24 anni, i cui ¾ si trovano senza lavoro e senza futuri sbocchi occupazionali.” (“Resistenze mediterranee”, Senza Censura n.34)

Una popolazione, quella che si è riversata nella strade e nelle piazze delle città, evidentemente composita, eterogenea, stratificata, che per decenni si è dovuta confrontare con politiche violente di sopraffazione, mancanza di lavoro, repressione, sia da parte delle varie borghesie nazionali, sia come conseguenza della penetrazione condotta dalla borghesia imperialista attraverso tutti i suoi piani intermedi. Un coinvolgimento che ha riguardato lavoratori delle fabbriche e disoccupati, contadini e studenti, nella quale la sinistra radicale ha assunto un ruolo di traino niente affatto marginale, contribuendo a ridare vigore all’iniziativa a livello di masse popolari. Una vitalità, è importante ricordare, che non nasce dal nulla e neanche in modo casuale, ma le cui avvisaglie vanno ricercate, almeno in parte, nel patrimonio storico delle lotte operaie che, nel corso dei decenni passati, in particolare se ci atteniamo alle esperienze di lotta in Tunisia ed Egitto (ma il discorso si potrebbe estendere, ad esempio, a Marocco e Algeria), hanno qualificato lo scontro di classe in senso proletario.

L’elemento centrale tuttora scoperto dal nostro punto di osservazione concerne, come premesso, il valore di prospettiva delle forze sociali e delle organizzazioni protagoniste delle mobilitazioni, in assenza di soggettività di riferimento, indispensabile qualora si voglia riuscire a caratterizzare al meglio il quadro generale con cui vogliamo confrontarci. Il presupposto della prospettiva è fondamentale a più livelli: innanzitutto, come già detto, dal punto di vista dell’analisi complessiva; in parallelo, perché l’interesse del proletariato non può che essere teso ad una ricomposizione di classe in senso internazionale che passi attraverso la connessione con i soggetti e il proletariato europeo e mediterraneo, in un’ottica di iniziativa capace di superare determinazioni nazionali e lotte sovente annodate su situazioni contingenti. “Se un approccio eccessivamente dietrologico non tiene in considerazione l’autonomia di una componente sociale operaia e popolare delle mobilitazioni con i suoi obbiettivi e un’esperienza già maturata di scontro aperto con il blocco sociale dominante” (“Resistenze mediterranee”, Senza Censura n.34), dall’altra parte lo slancio energico messo in campo, di per sé, non è sinonimo in automatico di avanzamento o superamento di un di sistema di gestione economico, politico e sociale. Potrebbe, molto semplicemente, contribuire a ribadire la riproposizione di un potere sotto un’altra veste, neppure troppo differente da quella precedente. All’interno di questo scontro, il piano dell’immigrazione gioca un ruolo cruciale: strategico su e per entrambi i fronti, la sua peculiare trasversalità in termini di composizione, collocazione e circolazione, da una parte fa emergere il riflesso delle politiche della borghesia imperialista per quanto concerne processi di allargamento e ristrutturazione, sfruttamento di aree e masse popolari, parcellizzazione del proletariato, controrivoluzione preventiva, controllo e repressione (basti pensare alla complessa gestione all’interno dei Paesi dell’UE a proposito di rimpatri, rastrellamenti, espulsioni, campi di detenzione); dall’altra parte, proprio a partire dalle contraddizioni e dalle condizioni che si producono nell’intrinseca contrapposizione tra borghesia e proletariato, l’immigrazione equivale a un portato esperienziale di enorme valore e potenziale fattore propositivo in termini di ricomposizione di una classe che non può che ragionare in termini internazionali.

La prospettiva, sul piano oggettivo e soggettivo, non può ovviamente esulare dalla dialettica con la controparte. Il modo di produzione capitalistico è un modello sostanzialmente semplice, che sempre più va semplificandosi. Assomiglia ad un elastico che si tende e si contrae costantemente, tra tensioni e rilassamenti, lungo l’implacabile legge del profitto. La storia trentennale dell’azione della borghesia imperialista su tutta l’area in questione, passaggio successivo al colonialismo, si può vedere come una continua opera di mediazione tra queste due azioni. Una iniziativa complessa, agita attraverso tutti i suoi pani intermedi a disposizione: da quello economico a quello organizzativo

/infrastrutturale, da quello militare al piano della cooperazione in tutte le sue varianti.

Se la legge del profitto presuppone la legge della concorrenza, il rapporto tra profitto e concorrenza, fra tutti i soggetti partecipi, è regolato dal piano di mediazione. Una mediazione che, seguendo la metafora dell’elastico, è del tutto flessibile e, in quanto strumento, si applica di volta in volta alle differente strategie messe in campo dalla borghesia imperialista. Quello che sta succedendo nel Mediterraneo racconta chiaramente di una cruenta competizione tra fazioni di borghesia imperialista, per una ripartizione dei profitti passati, presenti e futuri. Un dialogo teso a ridefinire, formalizzandoli, nuovi equilibri e nuove interdipendenze, tra accordi e tensioni disgregative, tra sostegni diretti o indiretti e tentativi vari di destabilizzazione. Siamo di fronte ad una azione composita e, allo stesso tempo, gioco di parole a parte, evidentemente scomposta. Gli effetti vengono a galla, nel particolare così come sul piano complessivo.

Nel primo caso, se prendiamo in considerazione l’attacco militare alla Libia, emergono limiti oltre che a livello di diplomazia, anche di analisi (probabilmente in una dimensione di strategia generale). Non si spiega altrimenti, ad esempio, l’attuale empasse a fronte di un consenso, quello del popolo libico nei confronti dell’attuale governo in carica, pressoché totale, a dispetto e sconfessando quanto, forsennatamente, governi europei e organi di stampa vogliano far credere al mondo. I bombardamenti non hanno sortito, dal punto di vista dell’imperialismo, il risultato sperato. Non tutte le ciambelle escono col buco. Neanche la Siria.

Nel secondo caso, vecchie (NATO) e nuove (UE) forme di aggregazione imperialista diventano, via via, anche i grandi contenitori all’interno dei quali rigiocarsi relazioni, funzioni, ruoli, modalità di esecuzione delle scelte, in una sorta di progress incessante. Le contraddizioni che appaiono chiare a livello strutturale mostrano le debolezze insite a livello di impianto. L’articolazione su cui poggia la struttura è fragile, decisamente fragile.

Nel frattempo, la storia ha dimostrato come tuttavia questo elastico fatichi a rompersi. In fase di controllo e prevenzione, il capitale è in grado, spesso, di individuare piani efficaci di mediazione che si traducono, successivamente, in brutali e diffuse politiche antiproletarie e tentativi di chiusura di tutte quelle forme di opposizione all’interno delle soglie di compatibilità definite dal sistema. Del resto, ne va della sua sopravvivenza.

Per rimanere in ambito metaforico, spezzare l’elastico non cambierebbe né la struttura, né le dinamiche in gioco e né la sostanza che lo caratterizza: semplicemente, muterebbe il modo di rappresentazione, che già di per sé è una variabile e per tanto soggetta a cambiamenti e modificazioni talvolta repentini.

Il superamento dell’elastico passa per la sua polverizzazione. A partire da un nuovo internazionalismo e, prima ancora, per quanto riguarda il nostro contesto specifico, dal contrasto alla feroce dedizione alla sconfitta che ha permeato buona parte di questa ultima decade.



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