SENZA CENSURA N.35

luglio 2011

 

I’m forever blowing bubbles…
USA: la crisi economica prossima ventura

 

Nel corso dell’ultimo anno abbiamo più volte esplicitato la necessità, interna al Collettivo Politico Redazionale, di ristabilire un metodo attraverso il quale dare una lettura dell’esistente, sia per quanto riguarda le dinamiche di classe, sia rispetto al quadro generale del capitale.

Un metodo il cui obiettivo è quello di determinare un punto di osservazione che non si limiti ad una visione parziale, ma che invece riesca, attraverso un lavoro di scomposizione dei “nodi principali”, a definire una visione complessiva di quanto ci circonda, a stabilire le connessioni e ad individuare le questioni centrali, assumendo così il bagaglio teorico/ideologico necessario per affrontare lo scontro di classe nella fase attuale.

Abbiamo già affermato che, come Collettivo Politico Redazionale, sulla base delle esigenze che al nostro interno emergono per svolgere al meglio il nostro compito, non possiamo che ritenerci specchio stesso della realtà che ci circonda, con le difficoltà e bisogni che le soggettività interne allo scontro di classe esprimono.

Questo è alla base della decisione di condividere, attraverso lo strumento-Rivista, il lavoro che come Collettivo stiamo portando avanti. Gli articoli che seguono sono parte di questo lavoro.

 

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I’m forever blowing bubbles,

Pretty bubbles in the air,

They fly so high,

Nearly reach the sky,

Then like my dreams,

They fade and die.

Fortune’s always hiding,

I’ve looked everywhere,

I’m forever blowing bubbles,

Pretty bubbles in the air.

 

I’m forever blowing bubbles, Dean Martin, 1973

 

Osservando il sistema economico americano dopo il crollo di Lehman brothers di metà settembre 2008, emergono alcune dinamiche per le quali è chiaro che ci stiamo preparando ad uno scenario di crisi peggiore di quello scoppiato nel 2007-2008.

L’empasse politica, dovuta alla difficoltà di trovare un compromesso sulla politica economica tra Democratici e Repubblicani, non fa che aggravare la situazione; la contrapposizione politica che vede affrontarsi queste due “fazioni” della borghesia poggia su una contraddizione reale, quella tra una porzione sociale interessata a non vedere aumentare i tagli al welfare ed un’altra interessata a non vedere aumentata la pressione fiscale sui propri redditi..

Un dato emerge sugli altri: per 10 anni, dal 2001 a oggi, il debito degli Stati Uniti è aumentato di circa un migliaio di miliardi all’anno, passando da 5,77 ai 14,35 del 2010 e, più di recente, riferendoci all’era Obama, dai quasi 10 migliaia di miliardi agli 14, 35 attuali.

Il tasso di sconto, cioè il costo del denaro per ciò che riguarda il Dollaro, è sceso costantemente dalla fine del 2.700 dal 5,25% allo 0,25% attuale, invadendo i mercati con una sovrabbondanza di valuta americana.

L’attuale capo della Fed - debitore delle analisi di Milton Friedman - è un “monetarista” convinto del potere magico dell’immissione di liquidità dei mercati come fattore di uscita dalla crisi.

La deregolamentazione finanziaria che ha dissolto le regole di governo della finanza USA, varate dopo la crisi del 1929, dal 1999 in poi non è stata ancora compensata da un corpo legislativo in grado di incrementare la governance di un sistema in cui i derivati sono 20 volte il PIL del paese.

Intanto, la Fed ha escluso un riedizione del “quantitative easing”, anche per le difficoltà contingenti di far passare un aumento del tetto massimo del debito pubblico, e non ha escluso un incremento del costo del denaro per frenare una possibile impennata dell’inflazione.

L’economia è ferma, cominciano i primi tagli che “mettono mano al portafoglio degli americani”, senza il ricorso ad una maggiore pressione fiscale; l’attacco alle residuali forze organizzate della working class statunitense continua, dopo la vicenda dei dipendenti pubblici del Wisconsin.

 

La finanza americana “dopo” la crisi

Il livello di liquidità immesso dalla Fed nel mercato è quasi il 200% (198% per l’esattezza) superiore a quello presente il giorno del crollo del colosso americano di circa tre anni fa ed è ancora maggiore se si retrocede di qualche mese precedente all’allora “picco” di liquidità.

«La politica monetaria di molte banche centrali, a partire dalla Federal Riserve americana, ha “creato” così tanta liquidità che gli investitori non sanno più dove metterla. La investono ovunque: in titoli sicuri, rischiosi o da spericolati» viene riferito in Stati Uniti, la fabbrica delle «bolle», un articolo a cura di M.Longo e M.Valsania, del Il Sole 24 Ore del 5 giugno 2011.

Senza quest’abbondante riserva di liquidità a costo zero non si spiegherebbe l’impennata del costo di Oro e Argento, la speculazione su alcune valute di paesi emergenti, come il Real brasiliano, la sopravalutazione del primo social network che si quota in borsa come Linkedin – e che ha esordito con un più 109% - e addirittura l’appeal per i mutui-bond che fino a poco tempo fa erano immancabilmente seguiti dall’aggettivo «tossico». La borsa di Wall Street, nonostante l’economia americana stenti a ripartire, viaggia con rialzi di oltre il 20% rispetto all’estate scorsa.

Una vignetta satirica apparsa negli USA dal titolo Dr. Bernanke explains quantitative easing mostra Bernanke, succeduto a Greespan alla guida della Fed, accanto ad un maiale di proporzioni gigantesche che mangia avidamente da una mangiatoia, mentre spiega che: «Se diamo da mangiare alle banche abbastanza dollari, qualcosa di buono prima o poi uscirà dall’altra parte!»

Ma l’economia non sembra ripartire, né la disoccupazione calare, nonostante l’abbondanza di liquidità sia la condizione necessaria per il finanziamento bancario alle imprese, a mancanza del quale, come è successo, si blocca l’apparato produttivo.

Longo e Valsania concludono amaramente il secondo paragrafo dell’articolo citato precedentemente de Il Sole: «L’aspetto triste è che questa inondazione di liquidità ha creato tanta speculazione ma non ha ancora dato una scossa all’economia reale e all’occupazione. Insomma: la politica monetaria ultra-espansiva per ora ha fatto felici banchieri e speculatori, non ancora i cittadini».

 

Vediamo di spiegare l’origine di questa liquidità attraverso le dinamiche legate ai Treasury, i titoli del tesoro americano che, fino ad ora, erano considerati dalle agenzie di valutazione finanziaria (tranne la neo-nata agenzia di valutazione cinese) titoli d’investimento sicuri “per eccellenza”.

Un primo dato. La quantità di Treasury acquistati dal sistema bancario americano è aumentata passando dai 1.440 miliardi di dollari del gennaio dello scorso anno a più di 1.600 attuali. Nonostante notizie che dovrebbero variarne l’appetibilità per le famose leggi del mercato (il più grande fondo d’investimento al mondo Pimco aveva azzerato a gennaio di quest’anno le posizioni in Treasury e l’aumento della percentuale di investitori intenzionati ad andare corti -al ribasso- sui titoli di stato americani con uno scarto che non si vedeva dal gennaio ’97), i buoni del tesoro americani non perdono di valore, anzi, aumentano e la loro rendita, seppur bassa, non perde di appetibilità e sta andando a ruba nelle aste.

«In realtà la contraddizione è solo apparente», ci spiega W.Riolfi in I big Usa più ricchi anche grazie alla Fed, articolo apparso il 10 marzo di quest’anno su Il Sole 24 ore: «Le istituzioni straniere (per lo più banche centrali) si sono prese una fetta pari al 53% dell’offerta, in netto calo rispetto al 71,3% del mese scorso. Ma la quota richiesta dai primary dealer (le grandi banche) è salita dal 27% al 40,5%. Perché questi investitori sono così desiderosi di tenersi in portafoglio titoli di lungo periodo che rendono appena il 3,5% quando l’inflazione stimata dai loro stessi economisti dovrebbe salire al 2,4% nel secondo semestre. Primo perché li terranno in portafoglio solo pochi giorni; secondo, perché rivendendone una parte dopo due settimane e l’altra dopo un mese, e tutte alla Fed, riescono a fare guadagni annui a due cifre percentuali: senza rischio sul prezzo e senza impegnare denaro, poiché la stessa Fed a garantire loro ampi finanziamenti a tassi quasi zero».

Nell’impossibilità decisionale del governo USA, per gli equilibri politici tra Democratici e Repubblicani, da un lato, di ridurre la spesa pubblica e, dall’altro, di aumentare la pressione fiscale, il Tesoro Usa trova grande giovamento perché si assicura il collocamento di tutto il crescente debito pubblico, pagando interessi artificialmente bassi e perché beneficia di una valuta sempre più debole.

La Fed è di fatto il maggiore compratore di titoli di stato americani, avendo in pancia una quota del debito pubblico americano superiore al 15%.

Attraverso questa sofisticazione finanziaria, la valuta statunitense invade i mercati risolvendo il problema della liquidità, il sistema bancario americano gode di ottima salute e gli interessi sul debito pubblico americano restano irrisori.

È inutile ricordare che questo meccanismo consente agli States, senza tagliare il welfare e inasprire la pressione fiscale, di mantenere i livelli di spesa militare e di elargire i finanziamenti per legare a sé le economie dei paesi usciti dalla “primavera araba”, così come il suo fedele alleato nell’area, l’entità sionista; in poche parole, consente di proseguire la politica imperialista senza alienarsi il consenso della maggioranza della popolazione.

Se infatti il debito costasse come nella media degli ultimi duecento anni (il 5,8%), allora gli interessi sul debito sarebbero pari al 30% delle entrate. Se il debito costasse come nella media del secondo dopoguerra (il 6,85), allora gli interessi sul debito sarebbero pari al 37% delle entrate. Ora, invece, sono pari al 15% delle entrati fiscali del governo federale degli States, cioè, in buona sostanza, pari alla cifra posseduta attraverso i Treasury dalla Fed.

Il nodo della questione ce lo espone chiaramente Giorgio Arfaras, in Se le borse soffrono non è per la Libia o Giappone ma per la Fed, pubblicato sul quaderno speciale di Limes dedicato alla Guerra di Libia: «Ricapitolando: un debito pubblico come quello statunitense, che cresce più di quanto cresca l’economia, prima o poi sarà sottoscritto con rendimenti maggiori. I modesti rendimenti di oggi sono incongrui, perché sono tenuti bassi dall’intervento della banca centrale. Vera la premessa, segue che il rendimento delle obbligazioni private e dei mutui ipotecari è minore di quello che altrimenti sarebbe, e che le azioni hanno un prezzo maggiore di quello che altrimenti avrebbero. […] che cosa accadrà quando il Quantitative Easing sarà terminato?» (a fine giugno...).

Proprio qui sta il cuore del problema, che anche le agenzie di rating hanno posto per la prima volta, ipotizzando un declassamento dei titoli di investimento “per eccellenza”.

Quale sarà, e sarà possibile, un’altra alchimia finanziaria a fine giugno?

Numerose sono le bolle che possono esplodere, quindi, non da ultima, quella dei derivati, soprattutto se con le loro speculazioni vanno ad intaccare merci delicate per il funzionamento del sistema, come le materie prime e i prodotti alimentari, facendo lievitare il loro valore “finanziario” e quindi facendo schizzare il loro prezzo.

Gli appetiti della finanza cozzano con le esigenze di governo globale.

 

Derivati della finanza ombra

I derivati sono stati al centro della riflessione sullo scatenarsi della crisi del 2008.

Ora, tornano al centro della discussione e delle preoccupazione dello stesso Tremonti che ha dichiarato: «sull’economia reale incombe ancora una massa indefinita di finanza che può determinare gli stessi effetti che ci sono stati nella crisi»

In un discorso pronunciato nel ’99 l’allora capo della Fed, A.Grenspan, li elogiava, dichiarando: «i derivati rappresentano sempre più un importante veicolo per diversificare i rischi e per allocarli agli investitori capaci di gestirli». Ma già nel 2005, affermava che «il trasferimento del rischio attraverso i derivati è efficace solo se la parte che si assume questo rischio è effettivamente in grado di sostenerlo». La crisi del 2008 ha fatto luce sull’effettiva possibilità di questo rischio che i meccanismi della governance finanziaria globale non hanno saputo gestire, se non (e solo in parte) a posteriori.

Il mercato dei credit default swap (cds), particolari “polizze” che servono per assicurarsi contro l’insolvenza di qualunque obbligazione, nel 1999 praticamente non esiste. La prima stima risale infatti al 2001, quando l’ammontare totale è nell’ordine dei 55 miliardi di dollari. Ma in un batter d’occhio, i cds si sono moltiplicati: in soli sei anni, al dicembre 2007, hanno infatti raggiunto la cifra di 630mila miliardi di dollari di valore nozionale a livello globale. Molto di più del prodotto interno lordo del mondo intero.

Il problema è che il valore attuale dei derivati è superiore a quello che avevano prima dello scoppio della crisi! Il loro valore è infatti pari a 10 volte il PIL mondiale (615 miliardi di dollari contro il 63 miliardi di dollari del PIL mondiale) e anche se il valore dei credit default swap si è notevolmente ridotto a poco meno di 40 mila miliardi di dollari, sono aumentati questo tipo di contratti per altri settori, in particolare i contratti sui tassi d’interesse, che ammontano a 465.260 miliardi di dollari!

Questa massa indefinita della finanza è per lo più over the counter, cioè fuori dagli scambi borsistici ufficiali, avviene per la maggior parte per via telefonica, in quella finanza-ombra che gli anglosassoni chiamano shadow banking, complementare e non contrapposta a quella “regolare”.

È di per sé fuori controllo: una vera e propria bomba ad orologeria pronta nuovamente ad esplodere, senza che la governance politico-economica sia stata in grado di gestirne il rischio.

Recentemente, in Italia, oltre che per le preoccupazioni di Tremonti, i derivati sono tornati in auge perché circa 1/3 del debito accumulato dalle varie istituzioni locali a diverso livello sarebbe in derivati, così come una buona parte delle casse della previdenza integrativa di varie categorie professionali: medici, architetti, consulenti del lavoro e così via. Quindi, da fonte di investimento dal rendimento elevato, sono diventati possibili trascinatori del tracollo dell’amministrazione locale e di alcune categorie professionali.

L’Italia non è affatto immune dai mali americani della finanza creativa.

 



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