SENZA CENSURA N.35

luglio 2011

 

Eurocrack 2.0
La crisi in UE

 

«Non vi è dubbio che la lotta per il predomino ha molti pericoli e incognite, non solo per la Germania, ma anche per tutto il mondo. Si possono però anche sopravvalutare le proprie forze». (Erich Honecker, Appunti dal carcere)

 

La risposta europea alla crisi si è dimostrata inefficace: la Grecia ne è la dimostrazione più eclatante, il vento dell’austerità continua a soffiare; l’innalzamento del rischio sistemico e l’incremento quantitativo del fondo economico messo in campo per il mantenimento dell’edificio europeo, attraverso il “salvataggio” dei singoli stati, non hanno migliorato la situazione.

Fino alle attuali discussioni sul ri-finanziamento della Grecia e prima del rifiuto degli investitori di acquistare le obbligazioni della spagnola Santander coperte dal debito municipale, i tre salvataggi congiunti di Fondo Monetario Internazionale, BCE e UE in ambito europeo riguardavano Grecia, Irlanda e Portogallo. Le manovre a cui sono stati interessati questi stati ammontavamo rispettivamente a 110, 85 e 78 miliardi di Euro.

L’Islanda continua a rifiutare il pagamento dilazionato a Gran Bretagna e Olanda, clienti stranieri della fallita Landsbanki, dei soldi persi in seguito al suo crollo. L’Irlanda, dopo gli stress test che hanno verificato la solidità patrimoniale del proprio sistema creditizio, ha stimato a 24 miliardi di ulteriori aiuti la cifra necessaria per finanziare quattro suoi istituti già “nazionalizzati” e nulla sembra poter fare per non far fallire l’Anglo Irish Bank (dopo due salvataggi). Il Portogallo, in seguito a manovre speculative che hanno aumentato il rendimento dei propri titoli di stato in rapporto ai Bund tedeschi, è stata costretta a chiedere aiuto. La Spagna, intanto, lancia una campagna europea per l’acquisto delle proprie abitazioni sempre più invendute: erano poco più di 270.000 nel 2006 e sono divenute quasi 690.000 lo scorso anno...

Avanza il processo di integrazione tra debiti sovrani dei singoli stati e sistema bancario; gli stati hanno salvato le banche, le seconde acquistano notevoli quantità di titoli di stato con un costo del denaro vicino allo zero. Gli stati, cioè i contribuenti, generalmente ci perdono più della metà dei soldi prestati in questi interventi: il Belgio ha recuperato poco più di un quinto, la Germania circa un terzo (come Francia e Olanda) e la Gran Bretagna poco più di un terzo...

Considerando il valore degli aiuti al sistema finanziario: la Gran Bretagna spicca con 900 miliardi di euro, seconda la Germania con 417, L’Olanda e il Belgio con circa 140 e poi l’Irlanda che, sotto forma di prestiti e garanzie, ha concesso al proprio sistema creditizio 105 miliardi senza avere indietro un euro!

La Banca Centrale Europea promette di alzare i tassi mentre garantisce un notevole flusso di denaro al sistema creditizio, che non immette denaro nel sistema produttivo ma si lancia in operazioni finanziarie di acquisto, grazie alla leva di cui possono godere. Il sistema creditizio sostiene a sua volta gli stati a seconda della localizzazione delle banche, mettendosi in pancia le varie obbligazioni sul debito pubblico sfornate dai vari paesi.

Aumentano le contraddizioni tra i diversi stati, i quali ripensano le proprie strategie per fini che non sono più comuni ma essendo in egual modo preoccupati ad “impedire” che il tracollo avvenga per tutti.

 

Dall’ESM al EFSM

L’adozione di una maggiore disponibilità, ossia l’aumento del valore del fondo ESM - meccanismo di stabilità europeo - che diverrà operativo nel giugno 2013, rispetto al EFSM - strumento per la stabilità finanziaria europea- che invece ha agito dal giugno 2010 è la seguente: mentre la dotazione del primo fondo era di 440 miliardi di euro, di cui 250 prestiti erogabili, l’ESM avrà in dotazione ben 700 miliardi, di cui 620 in garanzie e 80 in capitale, e potrà erogare prestiti per 500 miliardi.

L’ESM si finanziava attraverso emissioni obbligazionarie garantite dai singoli paesi membri dell’area euro sulla base della quota di ciascuno nel capitale della BCE (la quota dell’Italia è pari a 78,8 miliardi), così come l’EFSM si finanzierà attraverso emissioni obbligazionarie garantite dai paesi membri dell’euro (di cui l’Italia garantirà il 17,9% sul totale).

Chiaramente l’efficacia di questo nuovo strumento di “salvataggio” che si sta scontrando sul nascere con le differenti impostazioni in ambito UE è vincolata alla credibilità, per i mercati internazionali, delle garanzie offerte dai vari sistemi-paese che compongono l’UE.

Le agenzie di valutazione finanziarie abbassano da mesi il valore dei singoli istituti di credito europei, così come dei singoli sistema paese.

 

La fortuna delle banche: mattone e titoli di stato

Si può leggere quindi sempre più nitidamente il profilo reale dell’ultimo ciclo economico.

La speculazione edilizia e l’incremento del debito pubblico (dovuto all’emissione di titoli pubblici) sono stati i volani di questo “sviluppo” a livello europeo e la loro fragilità sta emergendo sempre di più.

Speculazione edilizia con i valori degli immobili crescenti, banche che finanziavano mutui senza badare troppo alle garanzie, il settore delle costruzioni (edilizia residenziale, turistica e opere infrastrutturali) che cresceva, dando occupazione ad una buona parte di lavoratori immigrati; questo è stato il caso di Irlanda, Spagna e Portogallo.

Titoli di stato dal rendimento sicuro emessi da governi che così facendo aumentavano il loro debito, banche europee che si mettevano in pancia notevoli quantità di questi titoli, singoli investitori che affidavano i loro risparmi fidandosi degli istituti del vecchio continente; questo è stato il caso della Grecia.

Tutto ha retto fino allo scoppio della crisi, fino a che i nodi non sono venuti al pettine, prima con la crisi del sistema bancario dell’Europa dell’est, in cui gli istituti europei erano notevolmente esposti e poi, con l’aggravarsi della situazione nei sistemi “periferici” di Eurolandia.

Ma il vero problema è il centro di questo sviluppo.

I tentacoli del sistema creditizio possono essere quelli francesi maggiormente esposti in Grecia, quelli inglesi maggiormente esposti in Irlanda, quelli tedeschi maggiormente esposti in Spagna, ma la dinamica non cambia.

 

Costo del denaro nullo e leva finanziaria

Questo flusso di denaro era indirizzato a salvare gli istituti di credito europei e inglesi possessori di titoli di stato dei differenti paesi periferici in differente misura.

Novemilaseicento miliardi di dollari, quasi 7mila miliardi di euro: a tanto ammontava a settembre la quantità di titoli di stato europei detenuti dalle banche del vecchio continente.

Bisogna ricordare che gli stessi istituti, nell’arco di questo anno e dell’anno prossimo, dovranno rinnovare il proprio debito in scadenza, con una proporzione sul totale dei debiti attorno al 40%. In una situazione in cui circa un terzo delle banche ha il rapporto, tra totale delle attività svolte e capitale, inferiore alla soglia minima del 8% fissata dalle regole di governabilità finanziare di Basilea 3.

In gergo, sono “sotto-patrimonializzate” e usano una “leva finanziaria” insostenibile, di molto superiore agli stessi parametri di sicurezza fissati dal FMI.

Questo vuol dire che bisogna assicurarne la stabilità e aumentarne il capitale, integrando ancora maggiormente gli istituti europei (e nord-americani) tra di loro, attraverso la sponsorizzazione delle varie “patrimonializzazioni”, facendoli diventare advisor delle varie privatizzazioni come in Grecia e farle entrare “istituzionalmente” come privati negli attuali salvataggi come creditori privilegiati.

Per avere un’idea del rapporto tra capitale posseduto e totale dell’attività, diamo un paio di dati:

Dexia (Belgio) 1/87, Deutsche Bank, 1/64, Credit Agricole 1/55, Ing (Olanda) 1/42,5. Si può pensare quindi ad una piramide rovesciata di cui la punta rappresenta il capitale e la base rappresenta l’insieme di tutte le attività svolte.

Per ciò che riguarda l’Italia, è di 1/18,4 la media delle prime 10 banche in Italia, 1/30 quella europea (che era 1/44 nel 2008).

Le banche italiane sono relativamente più attive nell’erogazione del credito, ed essendo italiane, pagano il rischio paese. Qualche cifra: Mps 24, Intesa Sanpaolo 22,1, Unicredit 21,5, Carige 20,3, Mediobanca 11,6.

 

Comprare titoli di stato conviene

La BCE sta garantendo, come la sua omologa statunitense, un flusso di denaro praticamente a costo zero che alimenta il mercato finanziario (è previsto un lieve rialzo del costo del denaro in estate), ma (a differenza della FED) ha potuto acquistare titoli di stato dei paesi periferici in difficoltà dal giugno scorso per impedire un tracollo dei prezzi e quindi conseguenze dolorose per le banche, in un ordine di grandezza assolutamente differente.

Se paragonati agli oltre 1.200 miliardi di Dollari in Treasury detenuti dalla Fed, i 77,5 miliardi di Euro ritirati dalla BCE appaiono una briciola.

Intanto il flusso di denaro va ad alimentare le banche, che a loro volta acquistano titoli di stato dei relativi paesi.

Questi investimenti sono teoricamente “a rischio zero” perché se un istituto acquista titoli di stato di Eurolandia denominati in euro, per legge, non deve accantonare capitale per far fronte ai rischi; un vero e proprio strappo alla regola rispetto alle altre obbligazioni per cui più rischioso è l’investimento, tanto più una banca dovrebbe mettere da parte capitale.

Un meccanismo che può teoricamente continuare all’infinito.

Se questo vale per l’Europa, le disposizioni di Bankitalia permettono alle banche di non registrare le minusvalenze, cioè le perdite, in bilancio (anche nella voce «available for sale») per buoni del tesoro e company.

Morale: se una banca è piena di titoli di stato europei, non registra perdite.

Infatti, gli istituti di credito italiani hanno ridotto notevolmente la propria esposizione su Grecia, Irlanda e Portogallo per indirizzarsi verso i buoni del tesoro nostrani e le emissioni di enti locali, a scapito di altri titoli di stato europei più sicuri come quelli francesi e tedeschi.

In questa corsa si sono distinte Intesa-Sanpaolo, Unicredit e Monte dei Paschi di Siena.

Un dato su tutti: «Calcola la Bce che le banche Italiane dal gennaio 2003 al gennaio 2009 hanno mantenuto invariato, tra i 179-191 miliardi, i titoli di stato (mondiali) in portafoglio. Dal 2009 a oggi li hanno aumentati vertiginosamente da 183 miliardi a 250. « Ovvio» (conclude Morya Longo in un articolo de Il Sole 24 ore del 10 marzo scorso) «che l’incremento sia dovuto all’acquisto di BTp: lo testimoniano i dati dei singoli istituti».

Appare chiaro, quindi, come la politica finanziaria delle banche assuma un valore politico sempre più rilevante e l’indirizzo strategico degli istituti sia sempre più significativo per la tenuta del sistema-paese.

Negli ultimi 15 anni le proporzioni dei detentori di titolo di stato sono cambiate parecchio.

Se la quota posseduta dagli intermediari finanziari è sempre stata, con oscillazioni, superiore al 30% e inferiore al 40%, è mutato il peso del settore estero rispetto a quello privato. Mentre nel ’95 il settore privato era per il 50% detentore dei Titoli di stato, oggi è solo il 10%; il settore estero che era di poco superiore al 10%, ora è pari al 52%. Un dato in linea di tendenza con gli altri paesi europei, con i paesi periferici come Portogallo, Irlanda e Grecia che hanno rispettivamente detentori esteri per un 76, 74 e 70%.

C’è stata una “europeizzazione” dei singoli debiti pubblici ed ora vi è un’inversione di tendenza; non stupisce che l’integrazione europea, di cui la crescente interconnessione del sistema bancario era il perno, si stia arenando in termini di una reale prospettiva comune..

 

Le banche “acquistano” aziende

Da noi, le banche, anziché dare credito, preferiscono prendere quote nelle aziende, spesso convertendo in capitale i fidi che le imprese non riescono a sostituire.

Il ritmo di crescita delle banche è metà dell’intervento diretto nel capitale.

La centralità della banca di sistema non dipende dal fatto che attiva linee di credito. Questo è intuibile anche dall’evoluzione del mercato dei private equity, fondi che raccolgono investimenti che devono restituire maggiorati in un determinato lasso di tempo, sempre più impegnati in acquisizioni societarie ad un valore molto maggiore di quello che sarebbe garantito a queste società in borsa: sopravalutazioni alla cui base sta una massiccia disponibilità di liquidi.

Un dato su tutti, la liquidità inutilizzata dai fondi è passata, a livello globale, da 186 miliardi di dollari del 2003 ai 434 dell’anno precedente: per questo le banche diventano sempre più “padrone” acquisendo proprietà, anziché finanziarle.

La crisi, poi, spinge questo trend di incorporazione dell’attività economica, in specie di quella produttiva, rendendo le banche sempre più potenti all’interno del blocco sociale dominante.

In Italia, secondo l’Aifi, è di origine bancaria il 40,6% dei capitali raccolti dagli investitori professionali (private equity). Quindi, la quota destinata agli investimenti nei settore produttivo cala, anziché salire, in proporzione alle altre attività.



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