SENZA CENSURA N.35

luglio 2011

 

Crisi di ieri e crisi di oggi
Un contributo del Collettivo Redazionale di Padova del Pane e le rose

 

Dalla crisi degli anni 70 a quella di oggi

Partiamo dall’ipotesi che la crisi di oggi è la crisi delle controtendenze messe in atto per fronteggiare la crisi di quaranta anni fa.

In questo senso si può dire che si tratta dalla stessa crisi, della terza grande depressione dopo quella di fine ‘800 e quella tra il 1929 e la seconda guerra mondiale.

Ma tra le due crisi esiste un rapporto che possiamo definire dialettico, più che meccanico.

Il grafico 1 visualizza la serie storica delle percentuali dell’utile (al netto degli investimenti) sul totale del capitale investito nella produzione (capitale fisso, contributi alla produzione, materie prime, costo del lavoro, investimenti annuali). Una percentuale che assomiglia molto al “saggio medio di profitto”.

I dati sono riportati per la sola industria, per l’insieme di agricoltura, industria e costruzioni, e come media di tutti i settori economici.

Si vede subito che anche se i valori sono differenti nei tre casi, questo saggio dell’utile netto cresce tra l’inizio degli anni ‘80 e quello degli anni ‘90, ha una flessione nel 1992, una ripresa nei 5 anni successivi e infine un calo costante tra il 1997 al 2006.

Calo che è lento per la media generale e precipita invece per quanto riguarda l’industria e l’insieme agricoltura + industria + costruzioni. Anzi mentre nella media generale l’inizio della crisi è anche l’inizio di una nuova crescita percentuale dell’utile netto, per i settori produttivi la percentuale dell’utile netto invece continua a scendere senza sosta.

Nel grafico 2 sono riportate invece le percentuali dell’utile netto sul solo capitale circolante, senza conteggiare cioè il capitale fisso di cui si hanno i dati solo dal 1980.

Anche se queste percentuali sono meno significative delle prime, permettono di vedere meglio la crisi degli anni ‘70.

La prima questione da affrontare è quindi quella che tra gli anni ‘70 ed oggi non c’è un calo costante della percentuale dell’utile netto.

Ed anzi la crisi di oggi si verifica a fronte di una percentuale di utile netto che almeno per i valori medi è maggiore di quello degli anni ‘70.

Ma c’è invece un altro valore che al contrario ci mostra una tendenza precisa e decrescente. Ed è il rapporto tra valore del prodotto e valore aggiunto, cioè salari + imposte sulla produzione + investimenti + utile netto (grafico 3).

Nei primi anni ‘70 il valore aggiunto dal ciclo produttivo rappresentava quasi il 53% del prodotto lordo. Poi scende e nonostante una ripresa che lo porta nuovamente sopra il 50% tra il 1986 e il 1994, continua a scendere fino ad oggi. O meglio fino all’inizio della crisi, nel 2007-2008, quando arriva al suo minimo storico, poco più del 45%.

Da notare anche che, sia per l’industria che per l’insieme di agricoltura + industria + costruzioni, la percentuale del valore aggiunto sul prodotto lordo parte da valori molto più bassi, rispettivamente il 41% e il 44%, e il minimo del 2008 la porta rispettivamente al 29% e al 32% con un calo di 12 punti, mentre quello generale è stato solo di 8 punti percentuali.

Questa tendenza di quello che potremmo chiamare saggio del valore aggiunto, è di fatto la tendenza che contiene, che definisce i limiti della crescita percentuale dell’utile netto (del saggio medio di profitto?).

Se si riduce la percentuale del valore aggiunto sul valore del prodotto si devono anche ridurre o i salari o gli investimenti o i profitti.

Qui c’è tutta la storia della lotta di classe in Italia negli ultimi 40 anni.

La storia della lotta del profitto per strappare quote di valore aggiunto ai salari.

Perché i salari degli anni 70 non sono salari di sussistenza, non pagano solo le ore di lavoro necessarie alla riproduzione della forza lavoro, ma sono i salari strappati con le lotte operaie del decennio precedente.

Il profitto quindi rivuole indietro la sua quota parte di valore aggiunto e va all’attacco del costo del lavoro. Riesce almeno in parte nel suo obiettivo, ma nel frattempo scende ulteriormente il saggio del valore aggiunto riducendo di molto i suoi margini di manovra.

Lo si vede chiaramente attorno alla metà degli anni 90 confrontando i grafici 1 e 3: nel momento in cui gli utili sono al loro massimo, il saggio del valore aggiunto ricomincia a scendere e dal quel momento continua a scendere fino all’inizio della nuova crisi, trascinando con sé anche le percentuali dell’utile netto.

Va subito sgombrato il campo da un possibile equivoco: l’aumento di quelli che Istat chiama “consumi intermedi”, cioè il costo delle materie prime e dei semilavorati, non può dipendere se non in piccola parte dall’aumento del costo del petrolio e delle altre materie prime importate.

L’importazione di beni nel 1970 rappresentava il 13% del totale del costo delle materie prime e dei semilavorati, nel 2008 ne rappresentava il 16%.

Ma in questo 16% non ci sono solo le materie prime, ma anche i semilavorati, il cui volume nel frattempo è aumentato a dismisura per la delocalizzazione di parte del ciclo produttivo.

Quindi non può essere l’aumento costo del petrolio e delle materie prime a far diminuire il saggio del valore aggiunto.

La cause di questa diminuzione vanno ricercate nel ciclo produttivo per come è stato ristrutturato in difesa del saggio di profitto e in funzione dell’attacco al costo del lavoro, determinando un aumento dei costi di produzione.

Sono le stesse controtendenze alla crisi a generare nuova crisi.

 

L’attacco al costo del lavoro

Ma prima di parlare di controtendenze è necessario parlare del quadro generale in cui si inseriscono, quello dell’attacco al costo del lavoro.

Nel grafico 4 è riportata la percentuale del costo del lavoro dipendente sul valore aggiunto.

Nel 1975 quasi il 53% del valore aggiunto andava ai salari del lavoratori dipendenti. 32 anni dopo (nel 2007) questa percentuale si era ridotta al 43,7%.

Questo significa, in valuta del 2007, una riduzione del monte salari di quasi 134 miliardi di euro, che diviso per i 19 milioni di lavoratori dipendenti del 2007, significa 7 mila euro di salario in meno, per ogni lavoratore dipendente. E allo stesso momento 7 mila euro regalati al profitto, da parte di ogni lavoratore ogni anno.

L’attacco è ancora più pesante per i lavoratori industriali. La percentuale del valore aggiunto che va ai salari nell’industria si riduce dal 61,5% del 1975 al 46% del 2007. Una differenza pari a 52 miliardi di euro che diviso per i 4.400.000 operai industriali del 2007 significa 11.800 euro in meno nel salario di ogni lavoratore.

Tutto questo per permettere al modo di produzione di sopravvivere alla propria crisi endemica, di pagare il maggior costo delle materie prime e dei semilavorati, e ai capitalisti di continuare a ricavare un profitto.

Una lotta per la sopravvivenza: l’utile netto del sistema economico italiano ammontava nel 2007 a 170 miliardi di euro (il 5,4% sul valore del prodotto), senza quei 134 miliardi rubati ai lavoratori l’utile netto sarebbe sceso a 36 miliardi, pari nemmeno all’1,2%.

Per quanto riguarda invece la sola industria senza quei 52 miliardi di euro rubati agli operai, l’utile netto (che ne 2007 ammontava a 12 miliardi) si sarebbe dissolto e sarebbero spariti anche metà degli investimenti.

 

Piccolo è bello?

Per raggiungere l’obiettivo della riduzione del costo del lavoro si è prima dovuta rompere l’unità di classe che si era costruita attorno agli operai della grande industria. Anche perché è proprio nell’industria che il lavoro aveva strappato le maggiori quote percentuali sul valore aggiunto (vedi ancora il grafico 4).

Lo si è fatto con il decentramento produttivo. Si sono presi interi reparti e li si sono trasformati in sub-fornitori e terzisti della stessa azienda da cui sono stati scorporati.

Si è creato un nuovo modello industriale in cui le fabbriche già esistenti non crescono più, ma costruiscono attorno a loro una rete di piccole imprese.

Tutto questo avviene non a caso in contemporanea all’esplodere della crisi: tra il 1971 e il 1981 il numero delle unità locali di industria e servizi alle imprese aumenta del 27,4%.

Nei 10 anni precedenti era aumentato solo del 17%, nei 10 successivi aumenterà meno del 4%.

Succede a nordovest come a nordest, ma è a nordest che questa strategia mostra tutta la sua potenza.

Sempre nel decennio tra il 1971 e il 1981 aumentano di quasi il 50% il numero delle unità produttive in Veneto e in Trentino, del 44% nelle Marche, del 38% in Friuli, del 31% in Emilia Romagna.

La piccola proprietà agricola si è trasformata in capitale da investire nella piccola impresa, i rapporti sociali fondati sulla mezzadria vengono proiettati nell’era industriale. L’appaltatore diventa il signore e padrone del terzista.

Tutto questo non avviene per caso, ma al contrario viene esplicitamente favorito da una serie di provvedimenti legislativi: la non applicazione dello statuto dei lavoratori alle imprese con meno di 15 dipendenti (1970), la sostituzione dell’IGE con l’Iva, che eliminò la convenienza fiscale a mantenere indivisa l’impresa (1973), la legge Visentini con l’introduzione di un sistema di tassazione forfetario che favorì il sommerso.

In altre parole il processo di decentramento produttivo non è stato “naturale” non è dovuto allo “spirito di impresa” o alla “laboriosità del nord-est”, ma è una vera e propria creazione in provetta, con l’obiettivo di cooptare nella produzione quei capitali che per la loro ridotta dimensione non sarebbero in grado di sopravvivere come “capitali produttivi”.

Questa controtendenza alla crisi ha un duplice risultato sulla struttura della classi.

Il primo è che spezzettando la produzione divide e indebolisce la classe operaia. In Italia nel 2002 (dati comm. europea) solo il 20,3% dei lavoratori è occupato dalla grande impresa, contro il 34% della media europea e il 54% degli Usa.

Il secondo è che rafforza il fronte borghese creando nuovi padroni. Padroni piccoli, che vedono solo le briciole del profitto, ma le difendono con più rabbia dei grandi.

E soprattutto raggiunge l’obiettivo di ridurre il costo del lavoro, cioè la percentuale del valore aggiunto che va ai salari. In generale ma anche e soprattutto nell’industria. Se nel 1972 questa percentuale nell’industria era più alta di 6 punti su quella media, già a meta anni ‘80 questo divario è ridotto a soli 2 punti.

Però il “piccolo è bello” ha portato con sé anche un risultato negativo per il capitale: il prodotto di ogni piccola o grande impresa della filiera produttiva diventa un costo per l’anello successivo della filiera stessa.

Quindi ogni anello della filiera riceve un utile minore in cambio di un maggior capitale investito nella produzione.

Vale anche in generale una questione evidente nella produzione agricola, in cui il costo al produttore può essere anche dieci volte inferiore a quello finale.

Con la differenza che mentre è facile constatare il prezzo di una cipolla all’inizio e alla fine della filiera produttiva, quello di un componente meccanico o della tomaia di una scarpa è più difficile da verificare.

Il risultato è quello di far aumentare i costi complessivi della produzione, e quindi diminuire il saggio del plusvalore (vedi ancora il grafico 3) il che anche se non produce un immediato calo della percentuale dell’utile netto, comunque ne fissa un limite invalicabile, e lo fissa sempre più basso.

 

La “società post-industriale”

La cosiddetta società post-industriale riflette i nuovi rapporti sociali creati dalla globalizzazione imperialista e dalla delocalizzazione della produzione nelle periferie dell’est e del sud.

La logica che sottende è quella che non importa chi produce e dove si produce, quello che importa è impadronirsi del plusvalore realizzato nella produzione.

Ma questo è possibile farlo anche se non si è direttamente produttivi, controllando la produzione a monte e a valle, controllando cioè la progettazione, l’ingegnerizzazione, l’informatizzazione, il credito alle imprese, la circolazione delle merci.

A lato di questa ristrutturazione reale del ciclo produttivo in senso imperialista, si produce tutta una pubblicistica che propaganda la nascita di una nuova società terziarizzata, post-industriale, post-fordista.

La realtà dei numeri è abbastanza diversa (grafico 5).

Confrontando i dati del 1970 con quelli del 2007 vediamo che gli occupati nell’industria calano solo di mezzo milione. Cala invece moltissimo il totale di agricoltura industria e costruzioni, per effetto dell’agricoltura che perde oltre 3 milioni di lavoratori.

Questi 3 milioni e mezzo di lavoratori e gli altri 5 milioni che nel frattempo entrano nel ciclo produttivo, contribuiscono ad raddoppiare l’occupazione nei servizi alla persona (scuola, sanità, pubblica amministrazione) e quella nel terziario propriamente detto (commercio, banche, logistica, servizi alle imprese).

Quindi anche senza prendere in considerazione gli “artifici statistici” per cui lavoratori che prima erano conteggiati come operai industriali adesso sono conteggiati come lavoratori del terziario, semplicemente perché il loro luogo di lavoro è stato esternalizzato, più che di società post-industriale si potrebbe parlare di società “post-agricola”.

Ma soprattutto si deve parlare di società imperialista, perché nel conteggio appena fatto mancano i milioni di lavoratori industriali delle fabbriche delocalizzate.

Ed è proprio per il controllo del delocalizzato che cresce a dismisura il terziario e in particolare quello che le statistiche definiscono come “servizi alle imprese”. Un settore che comprende un po di tutto: compravendita di immobili, noleggio di auto e di attrezzature, realizzazione di software e manutenzione di macchine da ufficio, ricerca e sviluppo, attività legali, studi di architettura e di ingegneria, collaudi, analisi tecniche, pubblicità, ricerca del personale, servizi di pulizia...

La tendenza alla terziarizzazione si sviluppa soprattutto nei paesi imperialisti, a danno delle periferie.

Un numero crescente di lavoratori che producono plusvalore (divisi dai confini degli Stati) mantiene (nei centri imperialisti) un numero maggiore di lavoratori che lo realizzano nella circolazione delle merci e nei servizi (finanziari e non) alle imprese.

Allo stesso tempo è il plusvalore aggiuntivo rapinato dalla fabbrica delocalizzata a permettere, nei paesi del centro imperialista, l’aumento dell’occupazione nei servizi alla persona.

Il risultato comunque è che gli investimenti nel terziario in senso stretto (quindi con l’esclusione dei servizi alla persona) aumentano in percentuale, al contrario di quelli dell’industria e negli altri settori produttivi (vedi grafico 6).

 

Ma questi investimenti si accumulano di anno in anno e quindi il capitale fisso investito nel terziario in senso stretto è tre volte più grande quello investito nei settori produttivi. In particolare quello del settore dei servizi alle imprese che da solo rappresenta 2,8 volte quello dell’industria.

E dal momento che il “giusto profitto” nel ciclo produttivo capitalistico è una percentuale sul capitale investito e non sul valore reale prodotto dal lavoro, questo enorme capitale fisso fa spostare gli utili netti a favore del terziario.

Nel 2007 l’industria con oltre 4 milioni di lavoratori dipendenti ha fatturato di 1.152 miliardi di euro, costi pari a 1.040 miliardi di euro, un utile lordo di 98 miliardi di euro, che sottratti gli investimenti porta ad un utile netto di 14 miliardi (che ripaga anche un capitale fisso accumulato di 879 miliardi di euro)

Nello stesso anno il settore dei servizi alle imprese con solo 2 milioni di lavoratori dipendenti e un fatturato di 465 miliardi di euro, ha costi pari solo a 253 miliardi di euro e quindi un utile lordo di 200 miliardi di euro, che sottratti gli investimenti porta ad un utile netto di 104 miliardi (che ripaga però anche un capitale fisso accumulato di 2.400 miliardi di euro).

Alla fine dei conti tutta la storia della società post-industriale e della terziarizzazione si riduce a questo: nell’industria non ci sono meno operai, ma solo meno profitti.

Il problema è però che nel ciclo produttivo italiano la fabbrica non è solo quella delocalizzata nelle periferie del mondo, ma è anche quella storica del triangolo industriale e quella nuova del decentramento produttivo.

E questa industria si trova a lavorare in un mondo in cui la realizzazione del plusvalore comanda sulla sua produzione e la mette in concorrenza con la fabbrica globalizzata.

Alla fine dei conti la terziarizzazione non è solo un attacco ai lavoratori dell’industria, ma un attacco alla stessa industria, sia quella collocata all’interno dei confini nazionali, sia quella delocalizzata.

 

La crisi continua

Nel 2010 il tasso di variazione del PIL è stato nuovamente positivo, cioè è cresciuto dell’1,1% rispetto all’anno precedente e tutti gli economisti borghesi hanno cominciato a parlare di uscita dalla crisi.

In termini reali questo aumento del PIL dell’1,1% vuol dire poco o nulla, dal momento che nei due anni precedenti era calato di oltre il 6%.

Ma soprattutto l’Istat precisa che questo 1,1% è il risultato di un aumento del valore aggiunto dell’agricoltura e dei servizi e di una diminuzione del valore aggiunto dell’industria.

Il che vuol dire che la crisi in realtà continua a lavorare, come prima e più di prima.

E come sempre nella crisi cresce la disoccupazione. Nel 2009 era al 7,9%, nel 2010 all’84%. Nel marzo 2011 Istat comunica la disoccupazione è scesa all’8,3% (due milioni di persone) ma che la disoccupazione giovanile è oltre il 28%.

Ma sempre a marzo 2011 le ore di cassa integrazione autorizzate sono state oltre 100 milioni. Un dato che diviso per un orario mensile di 170 ore significa che ci sono altri 600.000 posti di lavoro a rischio, che vengono mantenuti attivi sono grazie agli ammortizzatori sociali. Quindi che la disoccupazione reale è quasi all’11%.

In realtà la situazione è ancora peggiore. Perché una gran parte della crisi viene scaricata sui paesi della delocalizzazione.

Dalla Romania in cui la disoccupazione è cresciuta dal 4% del 2008 all’8,2% del 2011... alla Tunisia in cui la crisi è stata talmente pesante da determinare la rivolta sociale, la caduta del governo “amico” di Ben Alì, e l’inizio di un incendio senza proporzioni in tutto il mondo arabo.

Ma al di là dei costi sociali enormi che questa crisi sta avendo, la questione è che non sembra al momento essere in grado di agire in controtendenza rispetto alle sue cause scatenanti.

Tornando al grafico 1 vale la pena di tornare a sottolineare che con l’inizio della crisi la percentuale dell’utile netto torna a salire in media, ma non nel settore industriale e negli altri settori produttivi.

Insomma nonostante lo stato di crisi, nonostante i fallimenti, nonostante la disoccupazione, quindi nonostante la distruzione di capitale fisso e di capitale variabile, sembra che i settori produttivi non riescano ancora a garantire un profitto tale da permettere la ripresa.

A questo punto è evidente che la crescita del resto è legata alla rapina del plusvalore prodotto nella fabbrica delocalizzata.

Ma anche questa “ripresa imperialista” è sotto ipoteca.

Perché la crisi sta agendo sui rapporti globali e sta definendo una nuova divisione internazionale del lavoro.

Grazie alla crisi, i paesi a cui era delegata la produzione di merci ad alta intensità di lavoro e a basso contenuto tecnologico, hanno cominciato a produrre anche merci tecnologicamente avanzate. Non solo, oltre a produrle hanno cominciato anche a consumarle.

E quindi comincia a sgretolarsi quel controllo imperialista a monte e a valle della produzione delocalizzata su cui si fonda la cosiddetta società post-industriale.

 

Conclusioni provvisorie

Il lavoro come si diceva non è finito. Oltre a quanto analizzato sarebbe necessario affrontare le altre controtendenze alla crisi che si sono trasformate in nuovi fattori di crisi. Come minimo la tendenza alla finanziarizzazione e alla crescita del debito industriale e privato, che negli USA è stata l’elemento catalizzatore di questa nuova crisi e le privatizzazioni dei beni pubblici cioè l’approfondimento sociale dello sfruttamento.

E sicuramente c’è ancora molta strada da fare per arrivare davvero a leggere la crisi di oggi con gli strumenti del materialismo dialettico. Come è precisato all’inizio, ogni suggerimento e ogni critica, anche distruttiva, è ben accetta.

Un’“avvertenza” finale

Quello che avete appena letto non è un trattato di economia. Sono solo alcune note di un gruppo di operai e di comunisti scritte a partire dal tentativo di dotarsi di degli attrezzi analitici indispensabili per affrontare il processo di crisi che sta investendo il modo di produzione capitalista.

Quindi per tentare di delineare una prospettiva di liberazione dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo che si fondi su un’analisi concreta della situazione concreta.

Questo ci ha portato a cercare conferme della teoria nei dati, nei numeri, partendo dal conto economico nazionale fornito da Istat (http://www.istat.it/dati/dataset/20100813_01/).

La prima questione che ci siamo posti è quella della “credibilità” di questi dati.

Ma dal momento che questi sono i dati su cui si calcola il PIL e su cui si decidono le sorti dei governi e le gerarchie tra gli Stati, pensiamo che una certa credibilità la possano avere.

Piuttosto si tratta di fare attenzione al fatto che sono raccolti e organizzati secondo una logica keynesiana che mette al centro di tutto il valore aggiunto (il PIL), facendo scomparire i “consumi intermedi”, cioè i costi delle materie prime e dei semilavorati.

Questa centralità del valore aggiunto ha un suo significato per quanto riguarda la capacità economica di un Paese: non importa quanto una filiera produttiva sia lunga, quanti passaggi abbia, l’importante è quanto si produce alla fine dei conti.

Ma in questo modo si perde del tutto la possibilità di calcolare la relazione tra investimento complessivo e profitto.

Istat però fornisce anche la serie storica del valore della produzione, cioè valore aggiunto + consumi intermedi. Partendo dal valore del prodotto e non dal valore aggiunto i risultati non cambiano dal punto di vista dei “numeri”, ma cambiano invece le “percentuali” perché entra nel conteggio il peso delle materie prime e dei semilavorati.

Un’altra nota riguarda il fatto che Istat fornisce i dati del valore della produzione e del valore aggiunto in tre diverse tipologie: al costo dei fattori, che comprendono i contributi ma non le imposte sulla produzione; ai prezzi al produttore, che comprendono le imposte ma non i contributi; al prezzo base, che non comprende né imposte, né contributi, ma comprende invece le spese di trasporto in fattura.

Abbiamo utilizzato i prezzi al produttore, scorporando le imposte indirette sulla produzione per il calcolo dell’utile lordo. Dall’altra parte abbiamo ricavato dalla somma del prodotto ai prezzi al produttore e dei contributi alla produzione, un valore del “prodotto lordo”, che comprende sia il ricavato dalle vendite che i contributi statali. Un dato che una volta sottratto il valore aggiunto dovrebbe dare una stima abbastanza precisa del valore dei consumi intermedi.

Manca poi tra i dati Istat una rilevazione del reddito dei lavoratori autonomi. Per conteggiarlo lo abbiamo calcolato pari a quello di un lavoratore dipendente dello stesso settore, in modo tale da escludere questa voce dall’utile lordo.

A questo proposito c’è da evitare una vera e propria trappola statistica che è quella della misurazione dei lavoratori in “unità di lavoro”. Una “correzione statistica” che dovrebbe permette di “pesare” i lavori a tempo parziale (ad esempio due part-time fanno una unità di lavoro), ma allo stesso tempo porta ad una ipervalutazione del lavoro autonomo, per cui alla fine dei conti risulta che un lavoratore autonomo in agricoltura o nei trasporti vale quasi due unità di lavoro. Istat però fornisce anche il numero degli occupati, dipendenti e autonomi. Basta utilizzare questo numero invece che le unità di lavoro.

Infine c’è la questione degli ammortamenti, che vanno sottratti all’utile lordo per ricavare quello netto.

Istat fornisce questi dati solo dal 1980. Ma fornisce dal 1970 i dati degli investimenti. E questi sul lungo periodo e considerando un grande numero di imprese, sono di fatto uguali agli ammortamenti.

Fin qui per quanto riguarda il conto economico annuale rivisto e corretto. Ma le percentuali dell’utile lordo e dell’utile netto sul valore del prodotto sono significative solo fino ad un certo punto. L’investimento su cui il capitale calcola le percentuali non è solo quello in capitale circolante (materie prime, consumo dei macchinari, forza lavoro) ma anche quello in capitale fisso.

Anche questo dato è fornito dall’Istat (solo dal 1980). Per cui è possibile calcolare una percentuale dell’utile netto sul valore complessivo dell’investimento. Qualcosa che dovrebbe avvicinarsi al “saggio medio di profitto”.

Ultima nota: non abbiamo utilizzato le categorie marxiste di profitto, di lavoro necessario, di pluslavoro e di plusvalore. La cosa è voluta perché crediamo che ci sia ancora molto da fare prima di arrivare a questo risultato.

In particolare su due aspetti.

Il primo riguarda l’internazionalizzazione del ciclo produttivo, quindi il fatto che i dati andrebbero considerati al livello di formazione economica e non di singolo paese. Cosa che ad esempio oggi non permette di capire se e in che misura la recessione industriale riguardi anche la produzione delocalizzata.

Il secondo riguarda la distinzione tra settori produttivi di plusvalore (agricoltura, industria, costruzioni), settori che realizzano il plusvalore prodotto dai primi (finanza, commercio) e settori esterni al ciclo del plusvalore (servizi alla persona).

Alcuni dei settori economici su cui si basa la classificazione Istat sfuggono a questa catalogazione. Per esempio i trasporti che possono essere di merci o di persone. Ma soprattutto il settore dei servizi alle imprese. Che racchiude un po’ tutte le “nuove” tipologie economiche, dal noleggio dei macchinari che sarebbe equiparabile ad un prestito ad interesse, alle funzioni di ingegnerizzazione e programmazione della produzione, che sarebbero produttive di plusvalore.

Quindi prima di procedere oltre una doverosa avvertenza al lettore: tutto quanto scritto in questo articolo è certamente inesatto, incompleto e potenzialmente pericoloso.

Critiche e suggerimenti sono più che benvenuti.

La serie completa dei dati, tabelle e grafici sarà pubblicata a breve sul sito http://www.pane-rose.it.

 

Collettivo Redazionale di Padova

del Pane e le Rose

 



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