SENZA CENSURA N.36

marzo 2012

 

Palestina: una giornata come tante

Cronache da un viaggio nella West Bank

 

Questo contributo ha l’obiettivo di socializzare l’esperienza di due compagni che tra luglio e agosto 2011 si sono recati in Cisgiordania come attivisti dell’International Solidarity Movement. Senza la pretesa di offrire un’analisi esaustiva della questione, diamo una lettura degli avvenimenti che abbiamo vissuto e che sono accaduti dopo il nostro rientro.

 

La politica dei palazzi

Il discorso all’Onu del presidente Mahmoud Abbas del 23 settembre 2011 ha lasciato il tempo che ha trovato. Sparita ormai dalle pagine dei giornali, la richiesta di ammissione alle Nazione Unite per la Palestina si è arenata sulle pressioni da parte del “quartetto” Unione Europea, USA, Russia e l’Onu stesso a ritornare ai soliti negoziati fra Autorità Palestinese e Israele, per l’irrealizzabile soluzione dei due stati. A sancire ufficialmente il fallimento è stato il Comitato di Ammissione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che, senza che si rivelasse necessario il veto statunitense, ha respinto la richiesta di ammissione.

Se la notizia del respingimento non è una sorpresa per nessuno, rimane il tentativo da parte della leadership di Fatah di ergersi a unico interlocutore “ufficiale” palestinese nella comunità internazionale - l’OLP è già membro osservatore dell’ONU. Come può una fazione politica che, dopo un passato di lotte contro l’occupazione, ha spogliato di ogni residuo di resistenza la causa dei palestinesi e firmato accordi suicidi con lo stato sionista, diventare di colpo portavoce delle istanze del suo popolo? Se si pensa che l’attuale leadership è il risultato di anni di repressione contro i leader scomodi (uno tra tutti, Marwan Barghuthi, tuttora in carcere), non rimane molto spazio per lo stupore. Vien da pensare che questa sia una partita importante sul campo della politica interna. Il 23 dicembre Hamas e Jihad islamico hanno aderito, almeno formalmente, all’OLP in vista di una riforma elettorale che verrà discussa in gennaio.

Ogni fazione si muove per aumentare il proprio peso politico in vista di questo passaggio, dopo mesi di rinvii delle elezioni in accordo tra le parti. La vicenda del 194° stato rappresentato all’ONU sembra una ricerca di consensi e nuova credibilità agli occhi di una popolazione stremata dalla vita nei territori occupati. Hamas, dal canto suo, ha premuto l’acceleratore sui negoziati per la liberazione del caporale Gilad Shalit e sullo scambio, avvenuto non a caso in ottobre, di questo con 1027 prigionieri palestinesi. Anche su questa vicenda rimangono delle ombre: se guardiamo ai dati, scopriamo come la maggior parte dei prigionieri (compresi alcuni che hanno famiglia nella West Bank) sono, di fatto, stati liberati in quella prigione a cielo aperto che continua a essere Gaza. 200 prigionieri sono stati espulsi nei paesi vicini. Altri sono al centro del mirino e “non è esclusa l’eliminazione mirata nel caso riprendano le loro attività terroristiche”. A ciò si aggiunge che l’accordo ha intralciato pesantemente lo sciopero della fame di centinaia di detenuti palestinesi promosso principalmente dal Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, per richiedere migliori condizioni di detenzione, facilitazioni ai colloqui con i famigliari, avvicinamento alle città di origine. Nonostante questo, Hamas è stata in grado di sfruttare le debolezze del governo Netanyahu e ottenere uno scambio di un soldato contro un sesto del totale dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane. Se la richiesta all’ONU riguarda giochi (politici) tra élite politiche, la liberazione dei detenuti ha permesso a centinaia di persone di riabbracciare i propri cari dopo anni o decenni di prigionia.

 

Lotta e vita quotidiana nella West Bank

Per i due milioni e mezzo di palestinesi che abitano la Cisgiordania il 23 settembre 2011, è stata una giornata come le altre. Era un venerdì, giorno in cui si svolge la maggior parte delle manifestazioni settimanali contro il muro, una colonia, la discriminazione… a seconda del luogo. I cortei sono partiti dai villaggi o dai campi profughi verso degli obiettivi protetti; come ogni venerdì, l’esercito e la polizia di confine li hanno duramente repressi con skunk water (acqua marcia), lacrimogeni, granate assordanti, proiettili di gomma e proiettili “live ammunition”. Come tutti i venerdì, ci sono stati decine di intossicati e feriti. Lo stesso giorno a Qusra, un villaggio nei dintorni di Nablus, i coloni del vicino insediamento di Esh Kodesh sono entrati nel villaggio, picchiando gli abitanti e bruciando gli ulivi. Il tentativo di difesa da parte dei palestinesi è stato represso dall’esercito israeliano che ha protetto il ritorno all’avamposto degli aggressori e negli scontri è morto, raggiunto da un colpo di fucile, Essam Aoudhi, trentacinquenne padre di otto bambini. In Cisgiordania vengono arrestati in media 9 palestinesi al giorno, non c’è famiglia che non abbia, o non abbia avuto, un parente incarcerato. L’accanimento nei confronti di chi si spende nei Comitati popolari di resistenza o in altre formazioni, è spaventoso: le detenzioni senza accuse, in via amministrativa, durano anche diversi mesi. Queste valgono anche per gli shebab, i “ragazzi con le pietre”, che spesso si possono definire bambini poiché vengono arrestati anche dei dodicenni.

Per chi cerca di condurre una vita il più possibile dignitosa la situazione non è migliore, e anche l’azione più banale diventa un calvario. La Cisgiordania è divisa in tre aree, mischiate tra loro a macchia di leopardo: l’area A, a controllo militare e amministrativo palestinese, l’area B, con amministrazione palestinese e sicurezza gestita in modo congiunto tra PA e esercito, e l’area C, a completo controllo israeliano. L’aspetto principale della gestione amministrativa è la questione edilizia, da cui deriva il potere di ampliare gli insediamenti o di abbattere costruzioni già esistenti.

Conseguenza di questa divisione, poi, è stata la proliferazione dei check point. Per check point s’intendono tutti i tipi di ostacoli che l’esercito israeliano utilizza: dai posti di blocco fissi (simili a una dogana europea), a quelli attivi solo in alcuni periodi particolari, alle torrette di osservazione, i blocchi di cemento o le trincee che bloccano le strade. In totale ne esistono circa 500, più i novanta della parte “colonizzata” di Hebron. I controlli più rigidi vengono effettuati chiaramente al confine con lo stato d’Israele (o nostra terra 1948). A Gilo, il check point che collega Betlemme ad Al-Quds (Gerusalemme, per i palestinesi mantenere i nomi arabi è un tassello importante della rivendicazione di ciò che gli è stato sottratto) la coda per i palestinesi che si recano a lavorare in Israele è di circa due ore, stretti tra il muro dell’apartheid e una rete. A Qalandya abbiamo scoperto che i palestinesi non possono superare il blocco con mezzi propri, devono farlo a piedi, anche se si trovano su un autobus. Infatti, davanti agli ingressi chi non ha permessi particolari scende e passa attraverso i tornelli, il metal detector, mostra un documento a un militare chiuso dietro una vetrina, e poi risale sull’autobus che lo aspetta dall’altra parte. Durante il primo venerdì di Ramadan l’esercito ha deciso di chiudere il check point in modo da impedire l’accesso alla spianata delle moschee, comunque permesso solo a bambini e anziani.

A causa dell’aumento delle colonie, e delle loro dimensioni, ogni incrocio da un giorno con l’altro può essere vietato ai palestinesi, una strada bloccata da sbarre e cancelli o resa inagibile se non a piedi. Al di là della rete di separazione, un’autostrada nuovissima, con tanto di palme a fare ombra, garantisce ai coloni di raggiungere casa loro nel minor tempo possibile.

E se tutto questo non bastasse, sono appunto i coloni a molestare la vita dei palestinesi. Gli attacchi, seppur “leggeri”, quelli in cui vengono ad esempio danneggiate automobili, sono un fatto quotidiano. Frequenti sono le aggressioni fisiche, le sassaiole, gli spari, sempre con la connivenza dell’esercito. Escluse quelle alle persone, le più gravi si verificano contro gli alberi di ulivo. Sono ogni anno migliaia le piante bruciate o estirpate dai coloni, che distruggono così una fragile risorsa economica e un simbolo di attaccamento alla propria terra, di legame storico. Durante la stagione della raccolta, tra settembre e novembre, gli attacchi s’intensificano, e compito degli attivisti è quello di stare nei campi con i contadini e “scoraggiare” con la propria presenza i coloni dal commettere violenze. Da notare che i coloni in genere si astengono dall’aggredire stranieri, comunque non in modo visibile o a volto scoperto. Evidentemente esiste qualche forma di organizzazione che suggerisce di prendere a bastonate i palestinesi ma non americani ed europei perché avrebbe un costo politico alto. Con il pretesto di garantire la propria sicurezza, i coloni hanno inoltre facile accesso ad armi di ogni genere e non è strano vederli passeggiare con un M-16 a tracolla, persino gli ortodossi che non prestano servizio militare. A settembre, per paura delle conseguenze che avrebbe potuto avere il voto all’ONU, l’esercito ha invitato le amministrazioni delle colonie a organizzare la difesa delle stesse, non potendola garantire in modo immediato. Finalmente ogni genitore ha potuto insegnare al suo bambino come sparare una fucilata a un palestinese e scattarsi foto ricordo di questi momenti.

 

Al-Khalîl (Hebron), città maledetta

La situazione più critica per quanto riguarda la convivenza tra palestinesi e coloni è probabilmente quella di Hebron, poiché qui la colonia sorge proprio all’interno della città, la quale è divisa tra area A e area H2, in cui possono sostare regolarmente i militari israeliani. Per dare qualche numero, Hebron conta 160mila abitanti, Hebron2 circa 40mila e la colonia 500. Più 500 militari, 140 uomini della Polizia di confine, e altri 1500 militari nelle zone intorno alla città. La separazione tra area A, area H2 e colonia non è netta, e cambia tra un edificio e un altro, tra una strada e un incrocio. Sopra la strada del mercato, ad esempio, vi è una rete metallica per proteggere i palestinesi dal lancio di oggetti che i coloni sono soliti fare dalle loro finestre. Le case dove ancora vivono palestinesi sono anch’esse blindate con reti e grate. Una mattina abbiamo assistito ad una scena paradossale quanto odiosa: il giardino di una casa palestinese è stato recintato e trasformato in zona militare. Un gruppo di coloni viene lasciato entrare in quest’area ogni mercoledì mattina per (ufficialmente) leggere i testi sacri, con il chiaro intento di provocare i palestinesi e rivendicare la terra in quanto storicamente ebraica. Al nostro arrivo i coloni ci hanno fotografato e filmato, per documentare chi vuole impedire loro di godere della loro terra. Intanto, da una strada parallela, arrivava una comitiva di turisti, guidati da un colono che dava loro la versione corretta della storia per giustificare la paternità della Palestina e le ingiustizie subite dal loro popolo.

Nel 1994 un colono ex ufficiale dell’esercito, Baruch Goldestein, entrò nella moschea di Abramo e fece fuoco con un mitra, provocando la morte di ventinove persone e il ferimento di altre 200. A fine giornata, a causa degli scontri scoppiati tra palestinesi e esercito, si contano 60 vittime. Dopo quest’avvenimento, la via parallela a quella del mercato, Shuadada street, che porta alla moschea, viene blindata e i negozi chiusi, sbarrati, e marchiati con una stella di David.

Solo in H2 si contano 90 check point, molti dei quali presidiati dall’esercito che obbliga i passanti a mostrare i documenti e spesso li trattiene arbitrariamente in attesa. Dopo i classici quindici minuti di sosta che vedono i palestinesi rimanere fermi al blocco, si comincia a fare pressioni sui militari perché li lascino proseguire nella loro giornata. “Perché lo trattenete?”, “è accusato di qualcosa?”, e altre domande del genere per far smuovere la situazione.

Passeggiare intorno a Tel Rumeida, la collina dove sorge l’omonima colonia (e dove si trova l’appartamento dell’ISM) fa sentire la tensione generata da una convivenza impossibile, stretti nella morsa tra coloni e militari.

Sheikh Jarra, Al-Quds.

A nord della città vecchia di Al-Quds sorge il quartiere di Shiekh Jarra, proprio ai piedi del monte degli olivi. Nel 1956, quando era ancora territorio giordano, a ventotto famiglie scappate dall’attuale stato d’Israele, viene concesso il permesso di costruire le loro abitazioni su questi terreni. Nel 1967 l’area viene conquistata da Israele, e pochi anni dopo inizia la campagna diffamatoria sulla proprietà della terra nel quartiere. Nel 2008 per la famiglia Al-Kurd, nel 2009 per gli Al-Ghawi, arriva l’ordine di sfratto che diventa esecutivo, e con enormi operazioni di polizia vengono espulsi i palestinesi dalle loro case e, con tanto di cerimonia, vengono consegnate le chiavi delle stesse ai nuovi padroni. Questa gente si ritrova così sfollata per la seconda volta. Gli sfratti riguardano alla fine una cinquantina di persone, le famiglie menzionate sono quelle che abbiamo avuto modo di conoscere.

La tenda dell’ISM si trova presso la casa degli Al-Kurd; è posta nel vialetto che collega la porzione di casa ancora abitata da loro e quella che il comune di Al-Quds ha assegnato ai coloni perché costruita illegittimamente. Per impedire vessazioni, molestie, violenze, compito di chi passa le sue notti alla tenda è vigilare e documentare ciò che succede. Un esercizio di pazienza non di poco conto, perché i coloni in questione sono giovani ortodossi mandati in quella casa a vivere mentre studiano i testi sacri, quindi hanno tutte le energie a disposizione per infastidire gli attivisti. Mimano gesti sessuali con le ragazze, insultano, ridono, provocano, sono soliti lanciare rifiuti o bottiglie di escrementi dentro la tenda (cosa a noi successa, per fortuna non ha colpito nessuno!). La super protezione di cui godono questi sei-sette (basti pensare che il giardino e la tenda sono controllati da telecamere) e il rischio di rappresaglie contro gli abitanti del quartiere impedisce di reagire alle provocazioni (anche se ci è stato raccontato che un gruppo di baschi si è fatto meno scrupoli di noi…).

All’altro lato della strada si trova la casa che era di Nasser Al-Ghawi e la sua famiglia, che ora sembra una fortezza con bandiere d’Israele ovunque, telecamere e filo spinato. L’incontro con Nasser è stato uno dei più toccanti: dopo lo sgombero di casa sua ha vissuto con la sua famiglia in una tenda di fronte alla casa per mesi. Smobilitata la tenda e trovata un’altra sistemazione, torna tutte le sere, ormai da due anni, a Sheikh Jarra. Litiga con i coloni, parla con gli altri residenti, ride e scherza con gli attivisti, portando avanti la sua battaglia quotidiana, senza stancarsi di rivendicare ciò che gli spetta.

 

Nabi Saleh resiste

Il villaggio di Nabi Saleh si trova a circa mezz’ora di bus a nord di Ramallah, conta circa 500 abitanti e un centinaio di costruzioni in tutto. Di questi 500, ottantasei si trovano in galera, e dieci di questi hanno meno di quindici anni. Delle cento costruzioni, dieci hanno l’ordine di demolizione. Dal novembre 2009 nel villaggio si svolge una manifestazione (che all’inizio contava 300 partecipanti) ogni venerdì, dopo la preghiera di mezzogiorno, contro la colonia che sorge vicino al villaggio.

Già durante l’intifada il villaggio si era contraddistinto per la resistenza e la determinazione che gli abitanti hanno saputo mettere in campo, e quando la colonia ha annesso una fonte d’acqua sacra per i palestinesi, il Comitato popolare di resistenza ha deciso di iniziare con i cortei settimanali. Ogni venerdì la guerriglia dura diverse ore, tra esercito e ragazzi di tutte le età, e regolarmente si contano i feriti e gli intossicati per i lacrimogeni. Tanto è forte la resistenza e il coraggio di chi partecipa al corteo, tanto è dura la repressione, e a Nabi Saleh si vedono tutti gli strumenti a disposizione del democratico stato d’Israele per contenere dimostrazioni popolari. La “skunk water”, un’acqua marcia puzzolente, “scream”, una potente sirena che stordisce i manifestanti, lacrimogeni, proiettili di gomma, di plastica, proiettili “live ammunition”, alias colpi di fucile.

Ultimamente le condizioni di sicurezza in cui si svolge la manifestazione stanno peggiorando per i palestinesi. Il 9 dicembre è stato ucciso da un lacrimogeno sparato ad altezza uomo Mustafa Tamimi, di 28 anni. La settimana dopo sono state arrestate quindici persone, e quella dopo ancora un giovane è stato colpito ad una gamba da un colpo di fucile, per fortuna senza conseguenze.

Siamo stati a Nabi Saleh due volte, la prima per il corteo, che a causa del ramadan e della stanchezza dovuta al digiuno è durato molto meno del solito, e pochi giorni dopo per un’intervista. L’intervista verteva su un’irruzione dell’esercito avvenuta la sera prima, pochi minuti prima che iniziasse l’iftar, il primo pasto dopo il digiuno quotidiano. I militari hanno circondato il villaggio e hanno riempito strade, giardini e anche l’interno di alcune case di lacrimogeni. Il fratello di Manal, la donna che ci ha spiegato tutto questo, stava seduto in giardino ed è stato crivellato di proiettili di gomma. Dopo qualche foto segnaletica ai più giovani, i soldati se ne sono andati. Raid di questo tipo non sono straordinari, accadono di continuo e non solo a Nabi Saleh.

Abbiamo chiesto a Manal se il villaggio non è stanco della guerriglia e della repressione. Ci ha detto che le persone sono un po’ stanche, ma che tanto qui, sotto l’occupazione, la vita normale non esiste, quindi nessuno reclama di voler portare avanti la vita di tutti i giorni senza problemi. Il loro futuro viene pianificato di ora in ora, perché la mancanza di certezze e di sicurezza per le loro famiglie fa sì che anche una banale cena possa trasformarsi in un inferno nel giro di pochi secondi. In particolare per i bambini, che da una parte vedono gli scontri come un gioco, dall’altra non tolgono i jeans in casa perché “se mi vengono ad arrestare non avrò tempo di cambiarmi”. Il figlio di 10 anni di Manal dice che vorrebbe dire a un militare di posare il suo fucile, perché ad armi pari “io sono più forte di loro”.

“Avete mai pensato di andarvene da Nabi Saleh?” “No, questa è la nostra terra, se ne devono andare loro”.

 

Una breve conclusione.

Per mancanza di tempo la nostra esperienza è durata un periodo troppo breve per darci modo di partecipare a tutte, o quantomeno tante, situazioni di lotta e di resistenza. Abbiamo riportato qui le più significative da condividere con chi è interessato ad affrontare un viaggio del genere e con chi semplicemente si interessa di Palestina e anti imperialismo.

Pensiamo che in un periodo di crisi a livello globale, ogni gesto di resistenza contro il capitale, in ogni angolo del pianeta, più o meno consapevole che sia, possa essere uno stimolo e uno spunto per le strategie di lotta portate avanti in tutti gli altri paesi.

È in questo quadro che abbiamo voluto dare un contributo al dibattito su come portare avanti percorsi di solidarietà attiva, tema su cui sempre più spesso ci troviamo, e ci troveremo, a doverci confrontare.

Vogliamo ricordare Mustafa, morto perché lanciava le pietre contro l’occupazione, sua sorella Ola cui è stato impedito di accompagnarlo in ospedale nelle sue ultime ore di vita, e suo fratello Oudai, che si trovava in carcere con la colpa di essere a sua volta un lanciatore di pietre.



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